Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText
Vincenzo Monti
Poesie

IntraText CT - Lettura del testo

  • PARTE III POEMETTI
    • In morte di Lorenzo Mascheroni CANTICA
      • CANTO TERZO
Precedente - Successivo

Clicca qui per attivare i link alle concordanze

CANTO TERZO

 

Due virtù, che nimiche e in un sorelle

L’una grida rigor, l’altra perdono,

Care entrambe di Dio figlie ed ancelle,

Ritte in piè, dell’Eterno innanzi al trono

Ecco a gran lite. Ad ascoltarle intenti

Lascian l’arpe i celesti in abbandono;

Lascian le sacre danze, e su lucenti

Di crisolito scanni e di berillo

Si locàr taciturni e riverenti.

D’ogni parte quetato era lo squillo

Delle angeliche tube, il tuon dormiva,

E il fulmine giacea freddo e tranquillo.

Allor Giustizia inesorabil diva,

Incominciò: Sire del ciel, che libri

Nell’alta tua tremenda estimativa

Le scelleranze tutte e a tutte vibri

Il suo castigo, e fino a quando inulti

Fian d’Europa i misfatti, e di ludibri

Carco il tuo nome? Ve’ tu come insulti

L’umano seme a tua bontade, e ingrato

Del par che stolto nella colpa esulti?

Vedi sozzi di strage e di peccato

I troni della terra e dalla forza

Il delitto regal santificato.

Vedi come la ria ne’ petti ammorza

Di ragion la scintilla, e i sacri eterni

Dell’uom diritti cancellar si sforza:

Mentre nuda al rigor di caldi e verni

Getta la vita una misera plebe,

Che sol si ciba di dolor, di scherni,

E a rio macello spinta, come zebe,

Per l’utile d’un solo, in campo esangue

L’itale ingrassa e le tedesche glebe.

Di propria man squarciata intanto langue

La peccatrice Europa, ed Anglia cruda

L’onor ne compra e coll’onore il sangue.

Per lei Megera nell’inferno suda

Armi esecrate, per lei tòschi mesce;

Suo brando è l’oro, ed il suo Marte, Giuda.

Che di Francia direm? A che rïesce

De’ suoi sublimi scotimenti il frutto?

Mira che agli altri e a sè medesma incresce.

Potea col senno e col valor far tutto

Libero il mondo, e il fece di tremende

Follie teatro e lo coprì di lutto.

Libertà, che alle belle alme s’apprende,

Le spedisti dal ciel, di tua divina

Luce adornata e di virginee bende;

Vaga sì che nè greca nè latina

Riva mai vista non l’avea, giammai

Di più cara sembianza e pellegrina.

Commossa al lampo di que’ dolci rai

Ridea la terra intorno, ed io t’adoro, —

Dir pareva ogni core, io ti chiamai. —

Nobil fierezza, matronal decoro,

Candida fede, e tutto la seguía

Delle smarrite virtù prische il coro;

E maestosa al fianco le venía

Ragion d’adamantine armi vestita

Con la nemica dell’error Sofia.

Allor mal ferma in trono e sbigottita

La tirannia tremò; parve del mondo

Allor l’antica servitù finita.

Ma tutte pose le speranze al fondo

La delira Parigi, e libertate

In Erinni cangiò, che furibondo

Spiegò l’artiglio; e prime al suol troncate

Cadder le teste de’ suoi figli, e quante

Fûr più sacre e famose ed onorate.

Poi, divenuta in suo furor gigante,

L’orribil capo fra le nubi ascose,

E tentò porlo in ciel la tracotante,

E gli sdegni imitarne e le nembose

Folgori e i tuoni, e culto ambir divino

Fra le genti d’orror mute e pensose.

Tutta allor mareggiò di cittadino

Sangue la Gallia: ed in quel sangue il dito

Tinse il ladro, il pezzente e l’assassino,

E in trono si locò vile marito

Di più vil libertà, che di delitti

Sitibonda ruggía di lito in lito.

Quindi proscritte le città, proscritti

Popoli interi, e di taglienti scuri

Tutte ingombre le piazze e di trafitti.

O voi che state ad ascoltar, voi puri

Spirti del ciel, cui veggio al rio pensiero

Farsi i bei volti per pietade oscuri;

Che cor fu il vostro allor che per sentiero

D’orrende stragi inferocir vedeste

E strugger Francia un solo, un Robespiero?

Tacque, e al nome crudel su l’auree teste

Si sollevâr le chiome agl’immortali,

Frementi in suon di nembi e di tempeste.

Gli angeli il volto si velâr coll’ali,

E sotto ai piedi onnipossenti irato

Mugolò il tuono e fiammeggiâr gli strali.

E già bisbiglia il ciel, già d’ogni lato

Grida vendetta; e vendetta iterava

Dell’Olimpo il convesso interminato.

Carca d’ire celesti cigolava

De’ fati intanto la bilancia; e Dio,

Dio sol si stava immoto e riguardava.

Surse allor la Pietade; e non aprío

Il divin labbro ancor, che già tacea

Di quell’ire tremende il mormorío.

Col dolce strale d’un sol guardo avea

Già conquiso ogni petto. In questo dire

La rosea bocca alfin sciolse la dea:

Alte in mezzo de’ giusti odo salire

Di vendetta le grida, ed io domando

Anch’io vendetta, sempiterno Sire.

Anch’io cacciata dai potenti in bando

Batto indarno ai lor cuori, e inesaudita

Vo scorrendo la terra e lagrimando.

Ma se i regnanti han mia ragion tradita,

Perchè la colpa de’ regnanti, o padre,

Negl’innocenti popoli è punita?

Perchè tante perir misere squadre

Per la causa de’ vili? Ahi! caro i crudi

Fanno il sacro costar nome di madre.

Peccò Francia, gli è ver; ma, spenti i drudi

D’insana libertà, perchè in suo danno

Gemono ancora le nimiche incudi?

Dunque eterne laggiù l’ire saranno?

E solo al pianto in avvenir le spose,

Solo al ferro e al furor partoriranno?

Dunque Europa le guance lagrimose

Porterà sempre? E per chi poi? Per una,

Per due, per poche insomma alme orgogliose.

Taccio il nembo di duol che denso imbruna

Tutto d’Olanda il ciel; taccio il lamento

Della prostrata elvetica fortuna.

Ma l’affanno non taccio e il tradimento

Che Italia or grava, Italia in cui natura

Fe’ tanto di bellezza esperimento.

Duro il servaggio la premea; più dura

Una sognata libertà la preme,

Che colma de’ suoi mali ha la misura.

Su i cruenti suoi campi più non freme

Di Marte il tuono; ma che val, se in pace

Pur come in guerra si sospira e geme?

Prepotente rapina alla vorace

Squallida fame spalancò le porte,

E chi serrarle le dovea si tace.

Meglio era pur dal ferro aver la morte,

Che spirar nudo e scarno e derelitto

Tra i famelici figli e la consorte.

Deh sia fine al furor, fine al delitto,

Fine ai pianti mortali, e della spada

Pèra una volta e de’ tiranni il dritto!

Paghi di sangue chi vuol sangue, e cada;

Ma l’innocente viva, e dell’oppresso

Il sospiro, o Signor, ti persuada.

La dea qui ruppe il suo parlar con esso

Le lagrime sul ciglio: e chi per questa

Chi per quella fremea l’alto consesso;

Qual freme d’aquilon chiuso in foresta

Il primo spiro, allor che ciechi aggira

I sussurri forier della tempesta.

Mentre vario il favor ne’ petti ispira

Desïanze diverse, incerto ognuno

Qual fia vittrice, la clemenza o l’ira;

Del ciel cangiossi il volto e si fe’ bruno,

E caligine in cerchio orrenda e folta

Il trono avvolse dell’Eterno ed Uno.

E una voce n’uscì che l’ardua vòlta

Dell’Olimpo intronava. Attenta e muta

Trema natura e la gran voce ascolta.

Cieli, udite, odi, o terra, l’assoluta

Di Dio parola. Tu che l’alto spegni

Patrio delirio, e Francia hai restituta;

Tu che vincendo moderanza insegni

All’orgoglio de’ re, cui tua saggezza

Tolse la scusa di cotanti sdegni;

Fa cor! Quel Dio che abbatte ogni grandezza,

Guerra e pace a te fida, a te devolve

Il castigo d’Europa e la salvezza.

Tu sei polve al mio sguardo, ed io la polve

Strumento fo del mio voler. Qui tacque

Colui che immoto tutto move e volve.

Qui sparve l’alta vision: poi nacque

Per entro al negro vortice un confuso

Romor d’ali e di piè che di molt’acque

Parea lo scroscio. Ma repente schiuso

Fiammeggiò quel gran buio, e folgorando

Due cherubini si calaro in giuso:

Que’ due medesmi del divin comando

Esecutori, che nel pugno aviéno

L’un d’olivo la fronda, e l’altro il brando.

Ratti a paro scendean come baleno,

E due gran solchi di mirabil vista

Parallelli traean per lo sereno.

L’uno è pura di luce argentea lista;

L’altro è turbo di fumo che lampeggia,

E sangue piove che le stelle attrista.

Di qua tutto sorriso il ciel biancheggia;

Di là son tuoni e nembi, e in suon di pianto

L’aria geme da lungi e romoreggia.

Seguían coll’ali del vedere un tanto

Prodigio stupefatti i due lombardi,

Coll’altro spirto di che parla il canto;

Quando si vide a passi gravi e tardi

Dalla parte ove rota il suo vïaggio

La terra e obliqui al sole invia gli sguardi

Pensierosa salir l’ombra d’un saggio,

Che il dito al mento e corrugata il ciglio,

Uom par che frema di veduto oltraggio.

Dalla fronte sublime e dal cipiglio

Nobilmente severo si procaccia

Testimonianza il senno ed il consiglio.

Come trasse vicino, alzò la faccia,

Gl’insubri ravvisò spirti diletti;

E mosse prima che il parlar, le braccia.

Allor si vide con amor tre petti

Confondersi e serrarsi, ed affollarse

Gli uni su gli altri d’amicizia i detti.

Lo stringersi a vicenda e il dimandarse

Tra quell’alme finito ancor non era,

Che di note sembianze altra n’apparse;

E corse anch’ella, ed abbracciò la schiera

Concittadina. Il volto avea negletto,

Negletta la persona e la maniera:

Ma la fronte, prigion d’alto intelletto,

Ad ora ad or s’infosca, e lampi invia

Dell’eminente suo divin concetto.

Scrisse quel primo l’alta economia

Che i popoli conserva, e tutta svolse

Del piacer la sottile anatomia.

Intrepido a librar l’altro si volse

I delitti e le pene, ed al tiranno

L’insanguinato scettro di man tolse.

Poscia che le accoglienze, onde si fanno

Lieti gli amici, s’iterâr fra questi

Che fur primieri tra color che sanno,

Disse Parini — Perchè irati e mesti

Son tuoi sguardi, o mio Verri? Ed ei rispose:

Piango la patria; e chinò gli occhi onesti.

E anch’io la piango, anch’io, con sospirose

Voci soggiunse Beccaria; poi mise

Su la fronte la mano, e la nascose.

Di duol che sdegna testimon conquise

Vide Borda quell’alme, e in atto umano

Disse a tutte: Salvete; e si divise.

Col salutar degli occhi e della mano

Risposer quelle, e in preda alla lor cura

Mosser tacendo per l’etereo piano.

Come gli amici in tempo di sventura

Van talvolta per via, nè alcun domanda

Per temenza d’udire cosa dura;

Tale andar si vedea quell’onoranda

Di sofi compagnia, curva le fronti,

Aspettando chi primo il suo cor spanda.

Luogo è d’Olimpo su gli eccelsi monti

Di piante chiuso che non han qui nome,

E rugiadoso di nettarei fonti,

Ch’eterno il verde edúcano alle chiome

Degli odorati rami, e i più bei fiori

Di colei che fa il tutto e cela il come;

Poi cadendo precipiti e sonori

Tra scogli di smeraldo e di zaffiro

Scendono a valle per diversi errori:

E là danzando del beato empiro

A inebrïar si vanno i cittadini

Dell’ambrosia che spegne ogni desiro.

A quest’ermo recesso i peregrini

Spirti avviârsi; e qui, seduti al rezzo

Tra color persi azzurri e porporini,

Fèr di sè stessi un cerchio. O tu che in mezzo

Di lor sedesti, olimpia dea, nè l’ira

Temi del forte nè del vil lo sprezzo,

Tu verace consegna alla mia lira

L’alte loro parole; e siano spiedi

A infame ciurma che alle forche aspira

Nè vale il fango che mi lorda i piedi.

 




Precedente - Successivo

Indice | Parole: Alfabetica - Frequenza - Rovesciate - Lunghezza - Statistiche | Aiuto | Biblioteca IntraText

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (V89) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2007. Content in this page is licensed under a Creative Commons License