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Vincenzo Monti
Poesie

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  • PARTE III POEMETTI
    • In morte di Lorenzo Mascheroni CANTICA
      • CANTO QUINTO
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CANTO QUINTO

 

Non mi fece risposta quell’acerbo,

Ma riguardommi colla testa eretta

A guisa di leon queto e superbo.

Qual uomo io stava che a scusar s’affretta

Involontaria offesa, e più coll’atto

Che col disdirsi, umíl fa sua disdetta.

E lo spirto parea quei che distratto

Guata un oggetto, e in altro ha l’alma intesa,

Finchè dal suo pensier sbattuto e ratto

Gridò con voce d’acre bile accesa:

«Oh d’ogni vizio fetida sentina,

«Dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa

Ch’or questa gente, or quella è tua reina

Che già serva ti fu? Dove lasciasti,

Poltra vegliarda, la virtù latina?

La gola e ’l sonno ti spogliâr de’ casti

Primi costumi, e fra l’altare e ’l trono

Co’ tuoi mille tiranni adulterasti;

E mitre e gonne e ciondolini e suono

Di molli cetre abbandonar ti fenno

Elmo ed asta, e tremar dell’armi al tuono.

Senza pace tra’ figli e senza senno,

Senza un Camillo, a che stupir, se avaro

Un’altra volta a’ danni tuoi vien Brenno?

Or va! coltiva il crin, fatti riparo

Delle tue psalmodíe; godi, se puoi,

D’aver cangiato in pastoral l’acciaro!

Taque ciò detto il disdegnoso. I suoi

Liberi accenti e al crin gli avvolti allori,

De’ poeti superbia e degli eroi,

M’eran già del suo nome accusatori,

All’intelletto mio manifestando

Quel grande che cantò l’armi e gli amori.

Perch’io la fronte e ’l ciglio umíl chinando,

Oh gran vate, sclamai, per cui va pare

D’Achille all’ira la follia d’Orlando!

Ben ti disdegni a dritto, e con amare

Parole Italia ne rampogni, in cui

Dell’antico valore orma non pare.

Ma dimmi, o padre: chi da’ marmi bui

Suscitò l’ombra tua? — Concittadino

Amor, rispose, e dirò come il fui.

Fra i boati di barbaro latino

Son tre secoli omai ch’io mi dormía

Nel tempio sacro al divo di Cassino.

Pietosa cura della patria mia

Qui concesse più degna e taciturna

Sede alla pietra che il mio fral copría.

Fra il canto delle Muse alla dïurna

Luce fui tratto; e la mia polve anch’essa

Riviver parve e s’agitò nell’urna.

Ma desto non foss’io, chè manomessa

Non vedrei questa terra, e questi marmi

Molli del pianto di mia gente oppressa!

Oh! qualunque tu sia, non dimandarmi

Le sue piaghe, e, per Dio!, ma trar m’aita

Di lassù la vendetta a consolarmi.

Di ragion, di pietade hanno schernita

I tiranni la voce; e fu delitto

Supplicare e mostrar la sua ferita.

Fu chiamato ribelle ed interditto.

Anche il sospiro, e il cittadin fedele

Or per odio percosso, or per profitto;

E le preghiere intanto e le querele

Derise e storpie gemono alle porte

Inesorate di pretor crudele.

Mentr’egli sì dicea, ferinne un forte

Muggir di fiumi, che tolte le sponde

S’avean sul corno, orror portando e morte.

Stendean Reno e Panár le indomit’onde

Con immensi volumi alla pianura;

E struggendo venian le furibonde

La speranza de’ campi già matura.

Co’ piangenti figliuoi fugge compreso

Di pietade il villano e di paura;

Ed, uno in braccio e un altro per man preso,

Ad or ad or si volge, e studia il passo

Pel compagno tremando e per lo peso;

Ch’alto il flutto l’insegue, e con fracasso

Le capanne ingoiando e i cari armenti,

Fa vortice di tutto e piomba al basso.

Ed allora un rumor d’alti lamenti,

Un lagrimare, un dimandar mercede,

Con voci che farian miti i serpenti.

Ma non le ascolta chi in eccelso siede

Correttor delle cose, e con asperso

Auro di pianto al suo poter provvede.

Mentre che d’una parte in mar converso

Geme il pian ferrarese, ecco un secondo

Strano lutto dall’altra e più diverso.

In terra, in mare e per lo ciel profondo

Ecco farsi silenzio; il sol tacere

All’improvviso, e parer morto il mondo.

Le nubi in alto orribilmente nere,

Altre stan come rupi, altre ne miri

Senza vento passar basse e leggere.

Tutti dell’aure i garruli sospiri

Eran queti, e le foglie al suol cadute

Si movean roteando in presti giri.

D’ogni parte al coperto le pennute

Torme accorrono, e in téma di salvarse

Empiono il ciel di querimonie acute.

Fiutan l’aria le vacche, e immote e sparse

Invitan sotto alle materne poppe

Mugolando i lor nati a ripararse.

Ma con muso atterrato e avverse groppe

L’una all’altra s’addossano le agnelle,

Pria le gagliarde e poi le stanche e zoppe.

Cupo regnava lo spavento; e in quelle

Meste sembianze di natura il core

L’appressar già sentía delle procelle:

Quando repente udissi alto un rumore

Qual se a’ tuoni commisto giù da’ monti

Vien di molte e spezzate acque il fragore.

Quindi un grido: Ecco il turbo: e mille fronti

Si fan bianche; e le nebbie e le tenèbre

Spazza il vento sì ratto, che più pronti

Vanno appena i pensier. S’alza di crebre

Stipe un nembo e di foglie e di rotata

Polvere che serrar fa le palpèbre.

Mugge volta a ritroso e spaventata

Dell’Eridano l’onda, e sotto i piedi

Tremar senti la ripa affaticata.

Ruggiscono le selve; ed or le vedi

Come fiaccate rovesciarsi in giuso,

E inabbissarsi se allo sguardo credi:

Or gemebonde rïalzar diffuso

L’enorme capo, e giù tornarlo ancora,

Qual pendolo che fa l’arco all’insuso.

Batte il turbo crudel l’ala sonora,

Schianta uccide le messi e le travolve;

Poi con rapido vortice le vora;

E tratte in alto le diffonde e solve

Con immenso sparpaglio. Il crin si straccia

Il pallido villan, che tra la polve

Scorge rasa de’ campi già la faccia,

E per l’aria dispersa la fatica

Onde ai figli la vita e a sè procaccia;

E percosso l’ovil, svelta l’aprica

Vite appiè del marito olmo, che geme

Con tronche braccia su la tolta amica.

Oh giorno di dolor! giorno d’estreme

Lagrime! E crudo chi cader le vede

E non le asciuga, ma più rio le spreme!

E chi le spreme? Chi in eccelso siede

Correttor delle cose, e con ôr lordo

Di sangue e pianto al suo poter provvede.

Poi che al duol di sua gente ogni cor sordo

Vide il cantore della gran follía,

E di pietà sprezzato ogni ricordo,

Mise un grido e sparì. Mentre fuggía,

Si percotea l’irata ombra la testa

Col chiuso pugno, e mormorar s’udìa.

Già il sol cadendo raccogliea la mesta

Luce dal campo della strage orrenda;

Ed io, com’uom che pavido si desta

Nè sa ben per timor qual via si prenda,

Smarrito errava, e alla città giungea

Che spinge obliqua al ciel la Garisenda.

Cercai la sua grandezza; e non vedea

Che mestizia e squallor, tanto che appena

Il memore pensier la conoscea.

Ne cercai l’ardimento; e nella piena

De’ suoi mali esalava ire e disdegni

Che parean di lion messo in catena.

Ne cercai le bell’arti e i sacri ingegni

Che alzar sublime le facean la fronte

E toccar tutti del sapere i segni;

Ed il Felsineo vidi Anacreonte

Cacciato di suo seggio, e da profani

Labbri inquinato d’eloquenza il fonte.

Vidi in vuoto liceo spander Palcani

Del suo senno i tesori, e in tenebroso

Ciel la stella languir di Canterzani;

E per la notte intanto un lamentoso

Chieder pane s’udía di poverelli

Che agli orecchi toglieva ogni riposo.

Giacean squallidi, nudi, irti i capelli,

E di lampe notturne al chiaror tetro

Larve uscite parean dai muffi avelli.

Batte la fame ad ogni porta, e dietro

Le vien la febbre, e l’angoscia, e la dira

Che locato il suo trono ha sul ferètro.

Mentre presso al suo fin l’egro sospira,

Entra la Forza, e grida: Cittadino,

Muori, ma paga: e il miser paga e spira.

Oh virtù! come crudo è il tuo destino!

Io so ben, che più bello è mantenuto

Pur dai delitti il tuo splendor divino:

So che sono gli affanni il tuo tributo:

Ma perchè spesso al cor che ti rinserra,

Forz’è il blasfema proferir di Bruto?

Con la sventura al fianco su la terra

Dio ti mandò, ma inerme ed impotente

De’ tuoi nemici a sostener la guerra;

E il reo felice e il misero innocente

Fan sull’eterno provveder pur anco

Del saggio vacillar dubbia la mente.

Come che intorno il guardo io mova e ’l fianco,

Strazio tanto vedea, tante ruine,

Che la memoria fugge, e il dir vien manco.

Langue cara a Minerva e alle divine

Muse la donna del Panar, nè quella

Più sembra che fu invidia alle vicine:

Ma sul Crostolo assisa la sorella

Freme, e l’ira premendo in suo segreto,

Le sue piaghe contempla e non favella.

Freme Emilia, e col fianco irrequïeto

Stanca del rubro fiumicel la riva

Che Cesare saltò, rotto il decreto.

E de’ gemiti al suon che il ciel feriva,

D’ogni parte iracondo e senza posa,

L’adriaco flutto ed il tirren muggiva.

Ripetea quel muggir l’Alpe pietosa,

E alla Senna il mandava, che pentita

Dell’indugio pareva e vergognosa.

E spero io ben che la promessa aita

Piena e presta sarà, chè la parola

Di lui che diella non fu mai tradita:

Spero io ben che il mio Melzi, a cui rivola

Della patria il sospiro... E più bramava

Quel magnanimo dir; ma nella gola

Spense i detti una voce che gridava:

Pace al mondo: e quel grido un improvviso

Suon di cetere e d’arpe accompagnava.

Tutto quanto l’olimpo era un sorriso

D’amor; nè dirlo nè spiegarlo appieno

Pur lingua lo potría di paradiso.

Si rizzâr tutte e quattro in un baleno

L’alme lombarde in piedi; e ver’ la plaga,

D’onde il forte venía nuovo sereno,

Con pupilla cercâro intenta e vaga

Quest’atomo rotante, ove dell’ire

E degli odii sì caro il fio si paga.

E largo un fiume dalla Senna uscire

Vider di luce, che la terra inonda,

E ne fa parte al ciel nel suo salire.

Tutto di lei si fascia e si circonda

Un eroe, del cui brando alla ruina

Tacea muta l’Europa e tremebonda.

Ed ei l’amava: e nella gran vagina

Rimesso il ferro, offrì l’olivo al crudo

Avversario maggior della meschina,

E col terror del nome e coll’ignudo

Petto e col senno disarmollo, e pose

Fine al lungo di Marte orrido ludo.

Sovra il libero mar le rugiadose

Figlie di Dori uscîr, che de’ metalli

Fluttuanti il tonar tenea nascose:

Drimo, Nemerte, e Glauce de’ cavalli

Di Nettuno custode, e Toe vermiglia,

Di zoofiti amante e di coralli;

Galatea, che nel sen della conchiglia

La prima perla invenne, e Doto e Proto,

E tutta di Nerèo l’ampia famiglia,

Tra cui confuse de’ Tritoni a nuoto

Van le torme proterve. In mezzo a tutti

Dell’onde il re da’ gorghi imi commoto,

Sporge il capo divino, e, al carro addutti

Gli alipedi immortali, il mar trascorre

Su le rote volanti e adegua i flutti.

Cade al commercio, che ritorte abborre,

Il britannico ceppo, e per le tarde

Vene la vita che languía ricorre.

Al destarsi, al fiorir delle gagliarde

Membra del nume, la percossa ed egra

Europa a nuova sanità rïarde.

Nuova lena le genti erge e rintegra:

E tu di questo, o patria mia, se saggio

Farai pensiero, andrai più ch’altri allegra;

E le piaghe tue tante e l’alto oltraggio

Emenderai, che fêrti anime ingorde

Di libertà più ria che lo servaggio;

Anime stolte, svergognate e lorde

D’ogni sozzura. Or fa che tu ti forba

Di tal peste, e il passato ti ricorde.

E voi che in questa procellosa e torba

Laguna di dolore il piè ponete,

Onde il puzzo purgarne che n’ammorba;

Voi ch’alla mano il temo vi mettete

Di conquassata nave (e tal vi move

Senno e valor, che in porto la trarrete);

Voi della patria le speranze nuove

Tutte adempite; e di giustizia il telo

Animosi vibrando, udir vi giove

Che disse in terra, e che poi disse in cielo

Lo scrittor dei delitti e delle pene:

Ei di parlarvi, e voi, rimosso il velo

D’ascoltar degni il ver che v’appartiene.

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