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Vincenzo Monti Poesie IntraText CT - Lettura del testo |
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La Feroniade
CANTO PRIMO
I lunghi affanni ed il perduto regno Di Feronia dirò, Diva latina, Che del suo nome fe’ beata un giorno Di Saturno la terra. Ella per fiere Balze e foreste errò gran tempo esclusa Da’ suoi santi delubri, e molto pianse, Dai superbi disdegni esercitata D’una diva maggior, che l’inseguía, Finchè novelli sacrifici ottenne Sugli altari sabini, e le fûr resi Per voler delle Parche i tolti onori. Ma qual de’ numi l’infelice afflisse, E lei, ch’era pur diva, in tanto lutto Avvolgere potéo? Fu la crudele Moglie di Giove, e un suo furor geloso. Tu che tutte ne sai l’alte cagioni, Tu le mi narra, o Musa, e dall’oblio Traggi alla luce il memorando fatto Non ancor manifesto in Elicona. E se dianzi di nuove itale note L’ira vestendo del Pelide Achille, Alcuna meritai grazia o mercede, Su questi carmi, che tentando or vegno, Di quel nèttare, o dea, spargi una stilla Che dal mëonio fonte si deriva, Non già quando con piena impetuosa Gl’iliaci campi inonda, a tal che gonfi Dell’alta strage Simoenta e Xanto Al mar non ponno ritrovar la via, Ma quando lene mormorando irriga I feacii giardini: e dolce rendi Su le mie labbra la pimplea favella. Là dove impôsto a biancheggianti sassi Su la circèa marina Ansuro pende, E nebulosa il piede aspro gli bagna La pomezia palude, a cui fan lunga Le montagne lepine ombra e corona, Una ninfa già fu delle propinque Selve leggiadra abitatrice, ed era Il suo nome Feronia. I laurentini Boschi, e quei che la fulva onda nudrisce Del sacro fiume tiberin, quantunque Di Canente superbi e di Pomona, Non videro giammai forme più care. Qual verno fiore che segreto nasce In rinchiuso giardin, nè piede il tocca Di pastor, nè di greggia; amorosetta L’aura il molce, di sue tremule perle L’alba l’ingemma, e lo dipinge il sole Di sì vivo color, che il crine e il seno D’ogni donzella innamorata il brama; Tal di Feronia la beltà crescea. Era diletto suo di peregrine Piante e di fiori in suolo estranio nati L’odorosa educar dolce famiglia, Propagarne le stirpi, e cittadina Dell’ausonio terren farne la prole. Sotto la mano della pia cultrice Ricevean nuove leggi e nuova vita Le selvatiche madri, e, il fero ingegno Mansüefatto e il barbaro costume, Del ciel cangiato si godean superbe. Ed essa la gentil ninfa sagace Con lungo studio e pazïente cura I tenerelli parti ne nudría, Castigando i ritrosi, e a culto onesto Traducendo i malnati. Essa il rigoglio Ne correggeva ed il non casto istinto, Essa gli odii segreti e i morbi e i sonni E gli amor ne curava e i maritaggi, Securo a tutti procacciando il seggio, E salubri ruscelli ed aure amiche; Nè vïolarli ardía co’ morsi acuti D’Orizia il rapitor, che irato altrove Volgea le furie, e con le forti penne L’antiche flagellava áppule selve, O di Lucrino i risonanti lidi. Ma chi potría di tutti a parte a parte Il sesso riferir, la patria, il nome? V’era la rosa che mandâr primieri Di Damasco i giardini e di Mileto; Quella rosa che poi, nel fortunato Grembo traslata dell’ausonia terra, Fu pestana nomata e prenestina. Sua sorella minor, ma di più grido, Le fioriva da canto la modesta Licnide figlia delle ambrosie linfe, Di che le Grazie un dì le belle membra Lavâr di Citerèa, quando dai primi Ruvidi amplessi di Vulcan si sciolse. Altro amor di Ciprigna in altra parte L’amaraco olezzava. In su la sponda L’avean del Xanto le sue rosee dita Piantato; e il petto e le divine chiome Adornarsi di questo ella solea, Quando desire la pungea di farsi Al suo fero amatore ancor più bella. Ecco prole gentil d’egizia madre Vivaci aprirsi su l’allegro stelo Il sonnifero loto, e il molle acanto Che alla soave colocasia gode Intrecciar le sue fronde. Ecco il portento Dell’arte che talor vince natura, Il superbo ranuncolo; un dì vile Mal noto fiore, ed or per l’opra e il senno Di Feronia, che molto amor gli pose, Fatto sì bello, che il diresti rege Degl’itali giardini. Aleppo e Cipro, Candia, Rodi e Damasco in umil pompa Il mandâro alla Diva; ed ella, esperta De’ botanici arcani, immantinenti Di varïate polveri ne sparse L’ima radice, che le bebbe, e a lui Di ben cento color tinse le chiome. E tale or questo di bell’arte figlio Di donzelle non solo e di fiorenti Spose, a cui lode è la beltà nudrire, Ma di matrone ancor cura e desío, Ne’ romani teatri e ne’ conviti Alle antiche patrizie il petto adorna, Ove Amor spegne la sua face, e ride. Ma più cara alle Grazie ed alla casta Man di Feronia, con più pio riguardo Educata tu cresci, o mammoletta, Tu che negli orti cirenei dal fiato Generata d’Amore e dallo stesso Amor sul colle pallantèo tradutta, Di Zefiro la sposa innamorasti, E del suo seno e de’ pensier suoi primi Conseguisti l’onor. Pudica e cara Nunzia d’april, deh! quando per le siepi Dell’ameno Cernobbio in sul mattino Isabella ed Emilia, alme fanciulle, Di te fan preda e festa, e tu beata Vai fra la neve de’ virginei petti Nuove fragranze ad acquistar, deh! movi, Mammoletta gentil, queste parole: Di primavera il primo fior saluta Di Cernobbio le rose, onde s’ingemma Della regale Olona il paradiso, Che di bei fior penuria unqua non soffre. Felice l’aura che vi bacia e tutta Di ben olenti spirti in voi s’imbeve, E felice lo stelo onde vi venne Sì schietta leggiadria: ma mille volte Più felice e beato al par de’ numi Chi con man pura da virtù guidata Dispicciarvi saprà dalla natía Fiorita spina, e d’Imeneo sull’ara Con amoroso ardor farvi più belle; Chè senza amor non è beltà perfetta, Nè mai perfetto amor senza virtude. Dove te lascio ne’ meonii campi Sì lodato, o d’incanti e di malíe Possente domator, tu che dai numi Moly sei detto con parola al volgo Non conceduta, e sol dal saggio intesa? (Chè al volgo corruttor d’ogni favella Parlar la lingua degli déi non lice). Se là di Circe fra le mandre Ulisse Non stampò di ferine orme il terreno Di questa erbetta e del suo latteo fiore Alla virtù si dee: parlante emblema, Del cui velo copría l’antico senno La temperanza, che de’ turpi affetti Doma il poter. Di questo portentoso Vegetante fra noi, siccome è grido, Di Maia il figlio dal natío Cillene La tenera portò bruna radice, E dell’accorto dio fu degno il dono. Con questa ei tutti della maga i filtri Contra l’itaco eroe fece impotenti; E il suo bel fior, che da non casta mano Sdegna esser tocco, di Feronia poscia Dolce cura divenne, che di mille Felici erbette gli fe’ siepe intorno; Altre d’eterno verde, altre dotate Di medica virtude, onde il furore Placar de’ morbi, addormentar le serpi, E sanarne i veleni; altre che il sonno Inducono benigne, il dolce sonno Degli afflitti sì caro alle palpebre. E tal di tutte un indistinto uscía Soave olezzo che apprendeasi al core. Che di mille dirò scelti arboscelli Lieti a dovizia di nettarei frutti, E di fiori e di chiome, in cui natura Per infinite varïate guise Spiegò la pompa della sua ricchezza? Alle ben nate piante peregrine, Qual d’arabo lignaggio e qual d’assiro, Qual dall’Indo venuta e qual dal Nilo, L’italo suolo arrise, e sue le fece; Sì che in lor della patria e della prima Origine il ricordo oggi è perduto. Tanto è l’amor del nuovo cielo, e tanta Fu la cura di lei, che nel ben chiuso Suo viridario ad educarle prese, Or con arte confuse, ed or disposte In bei filari, come stral diritti, Rallegrando di molli ombre i sentieri. Ecco schiuder dal seno i bei rubini, A Minerva e a Giunon pianta gradita, E a Cerere cagion d’alto disdegno, Il coronato melagrano, e tutti Adescar gli occhi ed invitar le mani. Ecco il melo cidonio alle gibbose Sue tarde figlie di lasciva e molle Lanugine vestir le bionde gote, Del cui fragrante sugo hanno in costume Le amorose donzelle in orïente Nudrir la bocca ed il virgineo fiato, Quando la face d’Imeneo le guida Di bramoso garzone ai caldi amplessi. Vedi il perso arboscel che i rosei frutti Ne mostra di lontan; vedi il fratello D’armena stirpe, che con gli aurei figli Gli contende superbo i primi onori; Perocché dai regali orti sconfitti Dell’atterrata Cerasunte ancora Quel fiammante rival giunto non era, Che, di corpo minor, ma di più viva Porpora acceso, avría lor tolto un giorno E di bellezza e di dolcezza il vanto. Ma stillante più ch’altri ibleo sapore, L’onor dispiega di sue larghe chiome Il calcidico fico, il cui bel frutto, Se verace è la fama, alle celesti Mense sol noto, fra’ mortali addusse, E a Fitalo donò la vagabonda Cerere, allor che tutta iva scorrendo La terra in traccia della tolta figlia. All’apparir della divina pianta Di molte forme e molti nomi altera Tutte esultâr le rive; e Cipro e Chio E gli orti ircani e i misii e il verde Egitto, E la gran madre d’ogni bella cosa, L’itala terra, con attento amore La coltivaro, e de’ suoi dolci pomi, Solo a Serse e a Cartago agri e funesti, Fêr gioconde le mense anche più vili. Né te, quantunque umíl pianta vulgare, Lascerò ne’ miei carmi inonorato, Babilonico salcio, che piangente Ami nomarti, e or sovra i laghi e i fonti Spandi la pioggia de’ tuoi lunghi crini, Or su le tombe degli amati estinti, Che ne’ cupi silenzii della notte Escono consolate ombre a raccôrre Sul freddo sasso degli amici il pianto. Tu non vanti dei lauri e delle querce Il trionfale onor, ma delle Muse, Che di tenere idee pascon la mente, Agli studi sei caro: e da’ tuoi rami Pendon l’arpe e le cetre, onde si sparge Di pia dolcezza il cor degl’infelici. Salve, sacra al dolor mistica pianta, E l’umil zolla, che i mortali avanzi Del mio Giulio nasconde, in cui sepolto Giace il sostegno di mia stanca vita, Della dolce ombra tua copri cortese. E tu, strazio d’amore e di fortuna, Tu derelitta sua misera sposa, Che del caldo tuo cor tempio ed avello Festi a tanto marito, e quivi il vedi, E gli parli, e ti struggi in vòti amplessi Da trista e cara illusïon rapita, Datti pace, o meschina; e ti conforti Che non sei sola al danno. Odi il compianto D’Italia tutta; i monumenti mira, Che alla memoria di quel divo ingegno Consacrano pietose anime belle. E, se tanto d’onore e di cordoglio Argomento non salda la ferita Che ti geme nel petto, e tuttavia Il lagrimar ti giova, e forza cresce Al generoso tuo dolor l’asciutto Ciglio de’ tristi, che, alla voce sordi Di natura e del ciel, nè d’un sospiro, Nè d’un sol fiore consolâr l’estinto, Dolce almeno ti sia, che su l’avaro Di quell’ossa sacrate infando obblío Freme il pubblico sdegno, e fa severa Delle lagrime tue giusta vendetta. Ma dove, o Musa, di sentiero uscita Ti tragge ira e pietà? Deh! torna al riso Del cantato giardin, torna ai profumi, Alle fragranze che l’erbette e i fiori Ti esalano d’intorno. A sè ti chiama Principalmente ed il tuo canto aspetta L’odorato de’ Medi arbor felice, Di cui non avvi più possente e pronto (Se fede acquista di Maron la Musa) Medicame verun contra i veneni Delle dire matrigne, allor che seco Scellerate parole mormorando, Empion le tazze di nocenti sughi. Chioma e volto di lauro ha l’almo arbusto; E, se diverso e vivo in lontananza Non gittasse l’odor, lauro saría. Candidissimo è il fior di che s’ingemma, Nè, per molto soffiar che faccia il vento, L’onor mai perde della verde fronda. Ora etrusco limone, or cedro ed ora Arancio lusitan l’appella il vulgo, Sotto vario sembiante ognor lo stesso. Questa è la pianta che nel ciel creata L’aureo pomo fatal lassù produsse Ch’Ilio in faville fe’ cader: con questo L’ardito Aconzio e Ippòmene già fèro (Che non insegni, Amor?) alle lor crude Belle nemiche il fortunato inganno. E fu pur questa che ad immane drago Diè negli orti a vegliar d’Esperetusa Il sospettoso mauritano Atlante; Finchè di là la svelse il forte Alcide, Spento il fero custode, e peregrino Seco l’addusse nell’ausonio lito, Quando di Spagna vincitor tornando, Nel Tevere lavò l’armento ibero, E fe’ sopra il ladron dell’Aventino Delle tolte giovenche alta vendetta. Poi, com’egli d’Evandro abbandonate Ebbe le mense e l’ospital ricetto, E a quel giogo pervenne, ove nascoso Agl’Itali mostrò la prima vite Il ramingo dal ciel padre Saturno, Ivi sul dorso edificò del monte Sezia, un’umil città, donde Setina Fu nomata la rupe; e qui di Giove L’errante figlio alla saturnia terra Primiero maritò l’arbor divino Che tutti empiè di meraviglia i colli E d’invidia le selve. Al primo spiro Del suo celeste odor vinta temette (E fu giusto il timor) la sua fragranza Di Preneste la rosa: al primo aspetto Di quel candido fior vinte temette Le sue vergini tinte il gelsomino. A baciarlo lascive, a carezzarlo D’ogni parte volâr l’aure tirrene, Desïose d’aver carchi del caro Effluvio i vanni rugiadosi: corsero A fregiarsene il crine e il colmo seno D’Alba le ninfe e di Laurento, e quelle Del Vulturno arenoso e del Taburno. Corser da tutte le propinque rive Gli Egipani protervi, e, saltellando, E via gittando ognun l’ispido pino, Di questo ramo ghirlandâr le fronti. Lo volle il dio d’Arcadia, e lo prepose Agli ebuli sanguigni ed ai corimbi; E lo volle Silvan, dimenticate Le ferule fiorenti e i suoi gran gigli. Venne anch’essa del Sol Circe la figlia, E di sua mano un ramoscel spiccando Della scesa dal ciel pianta diletta, In grembo al sacro suo terreno il pose. Così crebbe il divin bosco odorato, Che di soave olezzo intorno tutte Della maga spargea le rilucenti Tremende case, ov’ella ognor cantando, E con l’arguto pettine le tele Percorrendo, facea dolce da lungi E periglioso ai naviganti invito, Mentre pel buio della tarda notte Lamentarsi e ruggir s’udian leoni Disdegnosi di sbarre e di catene, Urlar lupi, e grugnire ed adirarsi Nelle stalle cinghiali ed orsi orrendi, Che fûr uomini in prima, e della cruda Incantatrice sventurati amanti. Queste ed altre infinite eran le piante, E l’erbe e i fiori che godea l’attenta Di Feronia educar mano pudica; Di tutti quanti i fiori ella il più bello. Ma, sotto vago aspetto alma chiudendo Superbetta, d’amor tutte parole La ritrosa fanciulla ebbe in dispregio. Nè la vinse il pregar di madri afflitte, Che la chiedeano in nuora, e per la schiva Vedean languire i giovinetti figli; Nè mai lusinghe la piegâr di quanti Déi le latine ad abitar contrade Dai pelasghi confini eran venuti; Ch’ella a tutti s’invola, e non si cura Conoscere d’amor l’alma dolcezza. Ma di Giove non seppe un’amorosa Frode fuggir. La vide, e da’ begli occhi Trafitto, il nume, la sembianza assunse D’un imberbe fanciullo, e sì deluse L’incauta ninfa, e la si strinse al seno Con divino imeneo. L’ombra d’un elce Del dio protesse il dolce furto: e lieta Sotto i lor fianchi germogliò la terra La violetta, il croco ed il giacinto, Ed abbondanti tenerelle erbette, Che il talamo forniro; e le segrete Opre d’amore una profonda e sacra Caligine coprío; ma di baleni Arse il ciel consapevole, ed i lunghi Ululati iterâr su la suprema Vetta del monte le presaghe ninfe. Questi fûr delle nozze inauspicate I cantici, le faci, i testimoni; Questo alla nuova del Tonante sposa De’ suoi mali il principio, e nol conobbe L’infelice; ma ben di Giove il vide L’eterno senno; nè potendo il duro Fato stornar, nel suo segreto il chiuse; E, la doglia, che solo il cor sapea, Premendosi nel petto, a far più mite Il funesto avvenir volse il pensiero. Primamente quel bosco e quella rupe Sì gli piacque onorar, dove la ninfa Dell’occulto amor suo gli fu cortese, Che per loro obbliò Dodona ed Ida, E men care di Creta ebbe le selve; Tal che le genti la presenza alfine Sentîr del nume, e l’inchinâr devote, E Giove Imberbe l’invocâr sull’are; Ch’egli loro così mise in pensiero Per la memoria del felice inganno. Qui del culto novel consorte ei volle La dolce amica sua; qui degli eterni In aurea tazza il nèttare le porse, E la fece immortal. Poscia, tonando, Del monte il fianco occidental percosse; E una súbita fonte cristallina Scaturì mormorando, e dalla balza Comandò che perenne ella scorresse, E da Feronia si nomasse: ed oggi Serba quel nome ed il ricordo ancora Dell’antico prodigio. Allor le volsche Genti lor diva l’adoraro, e lei Antefora chiamaro e Filostefana, E Persefone, e tutte a lei de’ campi Fûr sacre le primizie. Ad inchinarla Sovrana e diva i numi adunque tutti Corser d’Ausonia; chè il voler tal era Del supremo amator: e non pur quelli A cui per valli e campi e per montagne Fuman l’are latine, e di plebeo Rito van lieti, e di minori han nome; Ma mossero frequenti ad onorarla Di cortese saluto anche i maggiori. Primo il padre Lieo, ch’indi non lungi In un temuto e per antico orrore Sacro delubro raccogliea benigno Dal timor de’ mortali incensi e voti; E la bionda inventrice era con lui Dell’auree spiche e delle sante leggi, Cerere, che solea le pometine Spesso anteporre alle trinacrie mèssi. Nè te d’Aricia il bosco, e il nemorense Lago trattenne, o vergine Dïana; Chè tu pur, del lunato argenteo carro Al temo aggiunte le parrasie cerve, Con gli altri divi ad abbracciar venisti La novella immortale, e di te degna Fu l’alta cortesia che ti condusse. Col favor di Feronia iva frattanto Scorrendo i campi l’Abbondanza, e, tutto Versando il corno, ben compiuta e ricca Fea dell’avaro agricoltor la speme. Ogni prato, ogni colle, ogni foresta Di pastorali avene e di muggiti E nitriti e belati alto risuona; E prigioniera dall’opposte rupi Le dolci querimonie Eco ripete. Venti e quattro cittadi, onde l’immensa Fertile valle si vedea cosparsa, S’animâr, s’abbelliro, e, strette in nodo Di care parentele, in mezzo al sangue De’ torelli giurâr dell’alleanza Il sacramento; e l’invocata diva Le dilesse, e su lor piovve la piena Di tranquilla ricchezza. Incontanente Crebbero i lari, crebbero le mura; Di maestà, di forza e di rispetto Le sante leggi si vestîr; fûr sacri I reverendi magistrati; sacra La patria carità; sacro l’amore Della fatica e dell’industria. Quindi Tutte piene di strepito le vie, E i teatri e le curie; e dappertutto Un gemere di rote, un picchio assiduo Di martelli e d’incudi, un suonar d’arme Buone in pace ed in guerra, onde si crebbe La feroce de’ Rutuli potenza, Che al pietoso Troian tanto fe’ poscia Sotto il cimiero impallidir la fronte, Quando gli disputâr Camilla e Turno Di Lavinia e d’Italia il grande acquisto. Eran le genti pometine adunque Molte e forti e felici; e manifesta Di Feronia apparía per ogni parte La presenza, il favor, la possa e l’opra. Però da cento altari a lei salía Delle vittime il fumo, e ne godea Il tonante amator, che stanco e carco Delle cure del mondo, a serenarle Scendea sovente ne’ segreti amplessi Della diva fanciulla. Un aureo nembo Li copriva; e ozïosa al sole aprico Col rostro della folgore ministro, L’aquila sacra si pulía le piume; Mentre sicure dal furor di Giove Tacean d’Ato e di Rodope le rupi, E avea Bronte riposo in Mongibello. Erasi intanto la saturnia Giuno Fatta accorta del dolo, e i suoi grand’occhi, Che gelosia più grandi anche facea, Non fallibili segni avean già scorto Di nuova infedeltà. Raro il soggiorno Del marito in Olimpo: alto il silenzio Dei talami divini: inoltre mute Della foresta dodonea le querce, Cheti i tuoni dell’Ida, e dissipato Il denso fumo che facea palese La presenza del nume. Onde, turbata In suo sospetto, alle nevose cime Dell’Olimpo salita, in giù rivolse L’attento sguardo, e ricercò l’infido Sul mar sidonio, sul nonacrio giogo, Sull’Ismen, sull’Asopo, ove sovente Delle vaghe mortali amor lo prese. Indi in Ausonia declinando i lumi, D’Ansuro nereggiar sul balzo vide Tale un nugolo denso, che per vento Non si movea di loco, ancorchè tutta Fosse in moto la selva. A cotal vista Le si ristrinse il cor; le corse un gelo Per le membra immortali, e si fèr truci I neri sopraccigli. Immantinente Iri a sè chiama, e: Prestami, le dice Su via prestami, o fida, il tuo piovoso Arco d’oro e di luce. E, sì dicendo, Nè risposta aspettando, entro si chiude A’ taumanzii vapori, e taciturna Su le rupi setine si precipita. Tocca pur anco non avea la terra Co’ leggeri vestigi, che levarsi L’invisibile dea l’aquila vide, L’aquila testimon del dio marito; E sotto l’ombra delle grandi penne Furtiva e cheta camminar la nube, E tra le piante dileguarsi. A lei Dovunque passa riverenti e curvi Dan loco i rami della selva; e l’aure Non osano di far rissa e bisbiglio. Volse indi l’occhio addietro, e donde tolta S’era la nube, in piè rizzarsi mira Così bella una ninfa, che alla stessa Corrucciosa Giunon bella parea. Sventurata beltà! L’ira e il dispetto Tu crescesti nel cor della gelosa, Che spiccossi qual lampo e rabbuffata Con questi accenti alla rival fu sopra: E qual ti prese insania ed arroganza, Insolente mortal, che una cotanta A me far osi ingiuria, e non mi temi? Ravvisami, proterva; io degli dei Son l’eterna reina, io la sorella, Io la sposa di Giove. Scolorossi, Tremò, si sgomentò, non fe’ parola La misera Feronia; e, siccome era Scomposta i veli e le bende e le chiome, Dell’amplesso celeste accusatrici, Mise in tutto furor la sua nemica; La qual su lei di rinnovar bramosa Di Callisto la pena, ad un vincastro Diè rabbiosa di piglio, e la percosse. Attonito restò l’occhio e la mano Dell’acerba Giunon, quando dell’altra Vide al colpo divino invïolata Resistere la salma, e le primiere Sembianze rimaner: tosto conobbe Che di tempra immortal fatta l’avea L’onnipossente nume; onde sdegnosa, Chè a vôto mira uscito il suo disegno, E terribile e ria più che mai fosse: Questo, disse, al mio scorno anco mancava, Adultera impudente, che dovesse Farlosi eterno! Semele ed Alcmena Eran poca vergogna all’onor mio, E i due figli di Leda, e Ganimede, Ch’altra ancor ne s’aggiunge, e di malnati Mi si fan piene le celesti mense. Ma inulta non andrò, se Giuno io sono; Nè tu senza castigo. Via di qua, Via di qua, svergognata! E in questo dire Il bianco braccio fieramente stese, S’aggrandì, si scurò, gli occhi mandaro Due fiamme a guisa di baleni in mezzo Di tenebrosa nube; e la grand’ira, Che il senno ancor degl’immortali invola, Quasi obbliar di diva e di reina Le fe’ modi e costumi. E di rincontro Di Giove allor la dolorosa amante, Che di rimorso trema e di rispetto, Con basso ciglio e con incerto piede Lagrimando partissi. Ella per monti E per valli e per fiumi si dilunga, E sempre a tergo ha la tremenda Giuno, Che con minacce e dure onte e rampogne Stimola e incalza l’infelice. Ahi! dunque Era da tanto un amoroso errore? E già varcate avea le veliterne Pendici, e gli ardui sassi, ove costrusse Cora la sua città, Cora il fratello Di Catillo e Tiburte; e non lontano Era di Cinzia il sacro lago e il bosco, Ove a Stige ritolto, e della ninfa Egeria in cura, Ippolito traeva, Cangiato in Virbio, la seconda vita. Qui di Saturno l’adirata figlia Sostenne i passi, e in balze aspre e deserte Qui lasciò la meschina, e, desïosa Di vendetta maggior, diè volta addietro. Tra le priverne rupi e le setine S’apre immane spelonca, a cui di sopra Grava il dosso una negra orrida selva, E per lo mezzo la rinfresca un rivo, Che con grato rumor casca e zampilla Dalle fesse pareti. Ha di sedili In vivo marmo una corona intorno, E tal dalle muscose erbe si spande Una fragranza, che da lungi avvisa Veramente di dei stanza e ricetto. Qui da tutta la volsca regïone Per cento cave sotterranee vie Vengon sovente a visitarsi i fiumi, Il freddo Ufente, il lamentoso Astura, Il sonoro Ninfeo, che tra le sacre Sue danzanti isolette ad Anfitrite Rapido volve e cristallino il flutto; E il superbo Amasen, che le gran corna Mai non si terge, e strepitoso e torbo Empie di loto i campi e di paura. E cent’altri v’accorrono di fama Poveri e d’onda fiumicei seguaci, E cento ninfe, che il cader degli astri Conoscono e del sole e della luna Le armoniche vicende, e sanno i venti E le piogge predire e le procelle. Colà bieca sbuffando s’incammina La di vendetta sitibonda dea: Simile a nembo di gragnuole gravido, Che bruno il ciel vïaggia e orrendo stendesi Su la bionda vallea, quando le Pleiadi, Che d’Orïon la spada incalza e stimola, Negli atlantici flutti si sommergono, E tutto ferve per burrasca il pelago. Tal terribile in vista ella s’avanza; E, giunta al mezzo dello speco, in atto Di maestà, di cruccio e di preghiera, Fa dal labbro volar queste parole: Fiumi, a cui delle volsche acque l’impero Diè degli uomini il padre e degli dei, E voi le correggete e a vostro senno Le mandate a nudrir l’onda tirrena; Una vil mia nemica, una spregiata Di boschi abitatrice, il cor mi tolse Del mio consorte; e non è tutto. A lei, A costei l’immortal vita è concessa, Privilegio avvilito, e dea l’adora La bagnata da voi terra pontina. Vendicate l’offesa; e, s’io dall’etra Vi dispenso le piogge, ite, abbattete, Distruggete, spegnete. Altari e templi E città rovesciate: io le vi dono, E saran vostro regno; orma non resti Dell’abborrito culto, e raddolcisca La mia giust’ira di Feronia il pianto. Disse; e per tutti a lei tosto l’Ufente Diserto e chiaro parlator rispose: — A te l’esaminar conviensi, o diva, Il tuo desire, e l’adempirlo a noi. Delle piove e de’ nembi genitrice Tu ne riempi l’urne, tu ne fai Giove propizio, e ne concedi a mensa Su l’Olimpo seder con gli altri eterni. Ciò detto, frettolosi e furïosi Si dileguâr per la caverna i fiumi, Chi qua, chi là ciascuno alla sua sede; E partendo ne fêr tale un tumulto, Tale un fracasso, che tremonne il monte. N’udirono il fragor le pometine Valli da lungi, e ne mandâr muggiti, Di ruina presaghe; e palpitanti Strinser le madri i pargoletti al seno. Mentre corrono quelli il rio precetto A compir della diva, e ai duri sassi Aguzzano per via le corna e l’ira, Levossi Giuno in aria, e spiegò il manto, In cui ravvolge le tempeste e i nembi, E subito gonfiâr le bocche i venti, E le nubi aggruppâr, che cielo e luce Ai mortali rapiro, e si fe’ notte, Orrenda notte dal guizzar de’ lampi Rotta al fero de’ tuoni fragor cupo. Carco d’atre caligini la fronte, Vola l’umido Noto, ed afferrate Con le gran palme le pendenti nubi, Le squarcia risonante, e tenebrosa Sgorga la piova; il rotto aere ne rugge; E il suol ne geme e le battute selve. Scende un mar dalle rupi. Allora i fiumi Versano l’urne abbeverate e colme; E quattro di maggior superbia e lena Da quattro parti sul soggetto piano, Svelte, atterrate le tremanti ripe, Con furor si devolvono. Spumosa E fragorosa la terribil piena Le capanne divora e i pingui cólti, E gli armenti e i pastori. E già le mura Delle cittadi assalta e le percote, Di cadaveri ingombra e della fatta Strage ne’ campi: già delle bastite Crollano i fianchi; già sfasciati piombano, E dan la porta all’inimico flutto. S’alza allora un compianto, un ululato Di vergini, di vegli e di fanciulli: Corrono ai templi; ed invocar Feronia E Feronia gridar odi piangenti Le smorte turbe; e non le udía la diva; Chè maggior diva il vieta. Essa, la fiera Moglie di Giove, di sua man riversa Dell’esule nemica i simulacri, Ne sovverte gli altari; e la soccorre Ministra al suo furor l’onda crudele Che tutte attorno le cittadi inghiotte. Tre ne leva sul corno infurïando Il veloce Ninfeo che lutulenti Spinse quel dì la prima volta i flutti, L’umil Trapunzio e Longula e Polusca: Tre la ferocia del possente Astura, L’opima Mucamite, e l’alta Ulubra, E la vetusta Satrico, a cui nulla Il nume valse della dia Matuta. E per te cadde, strepitoso Ufente, Pomezia, la più ricca e la più bella. Pianse il giogo circèo la sua caduta, E la pianser le ninfe, a cui commessa De’ suoi vaghi giardini era la cura. Il tremendo Amaseno avea frattanto Sotto i vortici suoi sepolti intorno I barbarici campi, e fatto un lago Della misera Ausonia, e l’alte mura D’Aurunca percotea, la più guerriera Delle volsche cittadi, e la più antica. Oltre gli anni di Dardano e Pelasgo La sua fama ascendeva, e degli Aurunci Venerevoli padri alto suonava E glorïoso fra le genti il grido. L’avea quel fier divelta e conquassata Dai fondamenti. Alle vicine rupi Traggonsi in salvo gli abitanti; e il fiume Li persegue mugghiando, e ne raggiunge Altri al tallone, e li travolve; ed altri, Che più pronti afferrâr già la montagna, Con l’immenso suo spruzzo li flagella, E di paura li fa bianchi in viso. Ben mille ne contorse entro i suoi gorghi Quell’orribile dio; ma di due soli, Timbro e Larina, il miserando fato Non tacerò, se a tanto il cor resiste, E pietoso il pensier non mi rifugge. Amavansi così quegl’infelici, Ch’altro mai tale non fu visto amore, E d’Imeneo già pronte eran le tede, E consentian gioiosi al casto affetto I genitori. Ahi brevi e false in terra Le speranze e le gioie! In riva al mare, Cui d’Anzio regge la Fortuna, avea Pochi dì prima all’afrodisia madre Porti i suoi voti il giovinetto amante, E abbracciato l’altar. Letta nel fato Del misero la sorte avea la diva; E della diva il santo simulacro Tremò, e sudante (maraviglia a dirsi!) Torse altrove il bel capo, e non sostenne Tanta pietà. Ma ben di Giuno il crudo Cor la sostenne: e la virtude umana Abbandonata si velò la fronte. Nella comun sventura erasi Timbro, Dopo molti in cercar la sua fedele Scórsi perigli, l’ultimo su l’erta Spinto in sicuro; e fra i dolenti amici Di Larina inchiedea; Larina intorno, Larina iva chiamando, e forsennato Con le man tese e co’ stillanti crini Per la balza scorrea; quando spumosa L’onda, che n’ebbe una pietà crudele, La morta salma gliene spinse al piede. Ahi vista! ahi, Timbro, che facesti allora? La raccolse quel misero, ed in braccio La si recò; nè pianse ei già, chè tanto Non permise il dolor, ma freddo e muto Pendè gran pezza sul funesto incarco, Poi mise un grido doloroso e disse: Così mi torni? e son questi gli amplessi Che mi dovevi? e questi i baci? e ch’io, Ch’io sopravviva?... E non seguì; ma stette Sovr’essa immoto con le luci alquanto; Poi sull’estinta abbandonossi, e i volti E le labbra confuse; e così stretto Si versò disperato entro dell’onda, Che li ravvolse, e sovra lor si chiuse.
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