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Vincenzo Monti Poesie IntraText CT - Lettura del testo |
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CANTO TERZO
All’ardua cima del sereno Olimpo Risalía Giove intanto, e ad incontrarlo Accorrean presti e riverenti i numi Su le porte del cielo. In mezzo a tutti, In due schierate taciturne file, Maestoso egli passa; a quella guisa Che suol, calando al pallido occidente, Passar tra i verecondi astri minori D’Iperïone il luminoso figlio, Quando dall’arsa eclittica il gran carro Della luce ritira, e l’Ore ancelle Sciolgono dal timon bianco di spuma I fumanti cavalli. Ai sacri alberghi Dell’aurea reggia rispettosi i divi Accompagnâr l’onnipotente; e giunti Al grande limitar, per sè medesme Si spalancâr sui cardini di bronzo Le porte d’oro, che uno spirto move Intrinseco e possente: e tale intorno Nell’aprirsi mandâr cupo un ruggito, Che tutto ne tremò l’alto convesso. Ivi in parte segreta, a cui nessuno Non ardisce appressar degli altri eterni (Fuor che le meste e querule Preghiere, Che libere pel ciel scorrono, e al nume Portano i voti degli oppressi e il pianto), L’egioco padre in gran pensier s’assise Sovra il balzo d’Olimpo il più sublime. Contemplava di là giusto e pietoso De’ mortali gli affanni e le fatiche: Mirò d’Ausonia i campi, e la pontina Valle in orrendo pelago conversa; Mirò per tutto (miserabil vista!) Le sue tante cittadi, altre sommerse, Altre per forza di tremuoto svelte Dalle ondeggianti rupi, e la catena, Donde pendon la terra e il mar sospesi, Scuotersi ancora, ed oscillar commossa Dalla tremenda di Vulcan possanza. Ciò tutto contemplando in suo segreto, Non fu tardo a veder che tanto eccesso, Tanta rovina saría poco all’ira Della fiera consorte. In compagnia Del potente de’ fuochi egli la vide Verso la sacra selva incamminarsi, Ove Feronia nel maggior suo tempio Di vittime, d’incensi e di ghirlande Dalle genti latine avea tributo. Di Giuno ei quindi antivedendo il nuovo Scellerato disegno, a sè chiamato Di Maia il figlio, esecutor veloce De’ suoi cenni, gli fe’ queste parole: Nuove furie gelose, o mio fedele, Hanno turbato alla mia sposa il petto; E quai del suo rancor già sono usciti Senza misura lagrimosi effetti, Non t’è nascoso. Un simulacro avanza Dell’esule Feronia, un tempio solo Di tanti che già n’ebbe; e questo ancora Vuole al suolo adeguar la furibonda. Or che consiglio è il suo? Stolta, che tenta? Se rispettar le nostre ire non sanno Le sante cose in terra, e i monumenti Dell’umana pietà, chi de’ mortali Sarà che più n’adori, e nella nostra Divina qualità più ponga fede? Prendi adunque sul mar tirreno il volo, T’appresenta a Giunon carco de’ miei Forti comandi. Con le fiamme assalga, Se tanto è il suo disdegno, anco la selva (Ch’ella a ciò si prepara, e consentire Io le vo’ pur quest’ultima vendetta); Ma, se l’empia oserà stender la destra Alle sacre pareti, e vïolarne Il fatal simulacro, alla superba Tu superbo farai queste parole: Fisso è nel mio volere (e per la stigia Onda lo giuro) che l’achea contrada Lasciar debbano i numi, e nell’opima Itala terra stabilir più fermo, Più temuto il lor seggio. Io le catene Del mio padre Saturno ho già disciolte, E l’offesa obbliai, che mi costrinse A sbandirlo dal ciel. L’ospite suolo, Che ramingo l’accolse e ascoso il tenne, Sacro esser debbe, nè aver dato asilo Di Giove al genitor senza mercede. Dopo il beato Olimpo, in avvenire Sia dunque Italia degli dèi la stanza: E di là parta un dì quanto valore Della mente e del braccio in pace e in guerra Farà suggetto il mondo, e quanta insieme Civiltà, sapïenza e gentilezza Renderanno l’umana compagnia Dalle belve divisa, e minor poco Della divina. A secondar l’eccelso Proponimento mio già nello speco Della rupe cumea mugge d’Apollo La delfica cortina, ed esso il dio, Dimenticata la materna Delo, Ai dipinti Agatirsi ama preporre Del Soratte gli scalzi sacerdoti. Già la sorella sua di Cinto i gioghi Lieta abbandona, e le gargafie fonti, Del nemorense lago innamorata. Alle sorti di Licia han tolto il grido Le prenestine, e di Laurento i boschi Tacer già fanno le parlanti querce Della vinta Dodona. In su la spiaggia D’Anzio diletta Venere trasporta D’Amatunta i canestri, e Bacco e Vesta E Cerere e Minerva e il re dell’onde Son già numi latini. E alle latine D’Elide l’are già posposi io stesso, E sul Tarpeo recai dell’Ida i tuoni E le procelle. Perocchè maturo Già s’agita nell’urna il gran destino, Che glorïosa dee fondar sul Tebro La reina del mondo. Al sol bisbiglio Che di lei fanno i tripodi cumani, Tutta trema la terra: e già s’appressa D’Anchise il pio figliuol, seco adducendo D’Ilio i Penati, che faran nel Lazio La vendetta di Troia, e spezzeranno D’Agamennon lo scettro in Campidoglio. Cotal de’ Fati è il giro; e disvïarlo Tenta indarno Giunon: da Samo indarno Porta alla sua Cartago il cocchio e l’asta E l’argolico scudo, armi che un giorno Fian concedute con miglior fortuna Di Dardano ai nepoti, allor che Giuno Per quella stessa regïon, su cui Tanta mole di flutti ora sospinse, Placata scorrerà del Lazio i lidi. Ivi sull’ara Sospita le genti L’invocheranno; ed ella, il fianco adorna Delle pelli caprine, e dentro il fumo De’ lanuvini sagrificii avvolta, Tutti a mensa accorrà d’Ausonia i numi Cortesemente, e porgerà di pace A Feronia l’amplesso; onde già fatte Entrambe amiche, toccheran le tazze Propinando a vicenda, e in larghi sorsi L’obblio beran delle passate cose. Va dunque, e sì le parla. Il suo pensiero Volga in meglio l’altera, e alle sue stanze Rieda in Olimpo; chè l’andar vagando Più lungamente in terra io le divieto. E se niega obbedir, tu le rammenta Le incudi un giorno al suo calcagno appese; E dille che la man che ve le avvinse Non ha perduta la possanza antica. Disse; e Mercurio ad eseguir del padre Il precetto s’accinse. E pria l’alato Petaso al capo adatta ed alle piante I bei talari, ond’ei vola sublime Su la terra e sul mare, e la rattezza Passa de’ venti. Impugna indi l’avvinta Verga di serpi, prezïoso dono Del fatidico Apollo il dì che a lui L’argicida fratel cesse la lira: Con questa verga, tutta d’oro, in vita Ei richiama le morte alme, ed a Pluto Mena le vive, ed or sopore infonde Nell’umane pupille, ed or ne ’l toglie. Sì guernito, e con tal d’ali remeggio Spiccasi a volo. Occhio mortal non puote Seguitarne la foga; in men che il lampo Guizza e trapassa, egli è già sceso, e preme Il campano terreno, un dì nomato Campo flegrèo, famosa sepoltura De’ percossi Giganti. Intorno tutta Manda globi di fumo la pianura, Ed ogni globo dal gran petto esala D’un fulminato. A fronte alza il Vesevo Brullo il colmigno, ed al suo piè la dolce Lagrima di Lieo stillan le viti. Lieve lieve radendo il folgorato Terren di Maia il figlio e la marina Sorvolando, levossi all’erte cime Della balza circèa, che di Feronia Signoreggia la selva. Ivi fermossi, Qual uom che tempo al suo disegno aspetta: E, di là dechinando il guardo attento Al piano che s’avvalla spazïoso Fra l’ánsure dirupo ed il circèo, E tutto copre di Feronia il bosco, A quella volta acceleranti il passo Vide Giuno e Vulcano, armati entrambi D’orrende faci, ed anelanti a nuova Nefanda offesa. All’appressar di quelle Vampe nemiche un lungo mise e cupo Gemito la foresta: augelli e fiere, A cui Natura, più che all’uom cortese, Presentimento diè quasi divino, Da subito terror compresi, i dolci Nidi e i covili abbandonâr stridendo E ululando smarriti, e senza legge D’ogni parte fuggendo. I primi incendi Eran già desti, e già di Giuno al cenno, Già la sua fida messaggera e ancella Verso Eolia battea preste le penne Con prego ai venti di soffiar gagliardi Dentro le fiamme, e promettendo pingui In nome della dea vittime e doni; Come il dì che d’Achille ai caldi voti, Del morto amico gli avvampâr la pira. Già stendendo venìa l’umida notte Sul volto della terra il negro velo, E in grembo al suo pastor Cinzia dormía; Quando i figli d’Astreo con gran fracasso Dall’ëolie spelonche sprigionati S’avventâr su l’incendio, e per la selva Senza freno lo sparsero. La vampa Esagitata rugge, e dalla quercia Si devolve su l’olmo e su l’abete: Crepita il lauro; e le loquaci chiome Stridono in capo al berecinzio pino, A sfidar nato su gli equorei campi D’Africo e d’Euro i tempestosi assalti. Già tutta la gran selva è un mar di foco E di terribil luce, a cui la notte Spavento accresce, e orribilmente splende Per lungo tratto la circèa marina; Simigliante al Sigeo, quando gli eletti Guerrier di Grecia del cavallo usciti In faville mandâr d’Ilio le torri, E atterrita la frigia onda si fea Specchio al rogo di Troia; miserando Di tanti eroi sepolcro e di tant’ire. All’orrendo spettacolo il feroce Cor di Giuno esultava; e impazïente Di vendicarsi al tutto (chè suprema Voluttà de’ potenti è la vendetta), Un divampante tizzo alto agitando E furïando, vola al gran delubro, Ch’unico avanza della sua nemica, Ferma in cor d’atterrarlo, incenerirlo, E spegnere con esso ogni vestigio Dell’abborrito culto. Armato ei pure D’empia face Vulcan seguía non tardo La fiera madre; e già le sacre soglie Calcano entrambi: dai commossi altari Già fugge la Pietà, fugge smarrita La fede avvolta nel suo bianco velo: Con vivo senso di terrore anch’esso Si commosse il tuo santo simulacro, O misera Feronia, e un doloroso Gemito mise (meraviglia a dirsi!), Quasi accusando d’empietade il cielo. Ma del figliuol di Maia, a ciò spedito, Non fu tarda l’aita in tanto estremo: E, come stella che alle notti estive Precipite labendo il cielo fende Di momentaneo solco, e va sì ratta, Che l’occhio appena nel passar l’avvisa; Non altrimenti il dio stretto nell’ali Il sereno trascorse, e rilucente Sul vestibolo sacro appresentossi. All’improvvisa sua comparsa il passo Stupefatti arrestâr Vulcano e Giuno, E si turbâr vedendosi di fronte Starsi ritto Mercurio, e imperïoso Contro il lor petto le temute serpi Chinar dell’aurea verga, e così dire: — Férmati, o diva; portator son io Di severa ambasciata. A te comanda L’onnipossente tuo consorte e sire Di gettar quelle faci, e invïolata Quest’effigie lasciar e queste mura. Riedi alle stanze dell’Olimpo, e tosto: Chè ti si vieta andar più lungamente Vagando in terra, e funestar di stragi Le contrade latine, a cui l’impero Promettono del mondo il fato e Giove. E di Giove e del fato a mano a mano Qui le aperse i voleri, e il tempo e il modo De’ futuri successi: e non diè fine All’austero parlar, che ricordolle Le incudi un giorno al suo calcagno appese, E il braccio punitor, che non avea Perduta ancora la possanza antica. Cadde il tizzo di mano a quegli accenti Al dio di Lenno, e tra le vampe e il fumo Si dileguò; nè disse addio, nè parve Aver mal fermo a pronta fuga il piede; Ma con torvo sembiante e disdegnoso Si ristette Giunon, chè rabbia e tema Le stringono la mente; e par tra’ ferri La generosa belva che gli orrendi Occhi travolve, e il correttor flagello Fa tremar nella man del suo custode. Senza dir motto alfin volse le spalle, E rotando in partir la face in alto, Con quanta più poteo forza la spinse: Vola il ramo infiammato, e di sanguigna Luce un grand’arco con immensa riga Segna per l’etra taciturno e scuro. Il sidicino montanar v’affisse Stupido il guardo, e sbigottissi, e un gelo Corse per l’ossa al pescator d’Amsanto, Quando sul capo ruinar sel vide, E cader sibilando nella valle, Ove suona rumor di fama antica, Che del puzzo mortal, che ancor v’esala, L’aria e l’onde corruppe, ed un orrendo Spiraglio aperse, che conduce a Dite. Come allor che su i nostri occhi Morféo Sparger ricusa la letea rugiada, D’ogni parte la mente va veloce, E fugge e torna e slanciasi in un punto Dall’aurora all’occaso, e dalla terra Alla sfera di Giove e di Saturno; Con tal prestezza si sospinse al cielo La ritrosa Giunon. L’Ore custodi Delle soglie d’empiro incontanente Alla reina degli dèi le porte Spalancâr dell’Olimpo, e la bionda Ebe, Ilare il volto, e l’abito succinta, Le corse incontro con la tazza in mano Del nèttare celeste; ed ella un sorso Nè pur gustò dell’immortal bevanda; Chè troppo d’amarezza e di rammarco Avea l’anima piena. Onde con gli occhi In giù rivolti e d’allegrezza privi, Nè a verun degli dèi, che surti in piedi Erano, al suo passar, fatto un saluto, Il passo accelerò verso i recessi Del talamo divino; ed ivi entrata, Serrò le porte rilucenti, e tutte Ne furo escluse le fedeli ancelle. Poichè sola rimase, al suo dispetto Abbandonossi; lacerò le bende, Ruppe armille e monili, e gettò lunge La clamide regal che di sua mano Tessè Minerva, e d’auree frange il lembo Circondato n’avea. Nè tu sicura Da’ suoi furori andar potesti, o sacra Alla beltade, inaccessibil ara, Che non hai nome in cielo, e tra’ mortali Da barbarico accento lo traesti, Cui le Muse abborrîr. Cieca di sdegno Ti ricercò la dea: cadde, e si franse Con diverso fragor l’ampio cristallo, Che in mezzo dell’altar sorgea sovrano Maestoso e superbo; e in un confusi N’andâr sossopra i vasi d’oro e l’urne Degli aromi celesti e de’ profumi, Onde tal si diffuse una fragranza, Che tutta empiea la casa e il vasto Olimpo. Mentre così l’ire gelose in cielo Disacerba Giunon, quai sono in terra Di Feronia le lagrime, i sospiri? Ditelo, d’Elicona alme fanciulle, Voi che l’opere tutte e i pensier anco De’ mortali sapete e degli dei. Poi che si vide l’infelice in bando Cacciata dal natío dolce terreno, D’are priva e d’onori, e dallo stesso (Ahi sconoscenza!), dallo stesso Giove Lasciata in abbandono, ella dolente Verso i boschi di Trivia incamminossi, E ad or ad or volgea lo sguardo indietro, E sospirava. Sul piè stanco alfine Mal si reggendo, e dalla lunga via, E più dal duolo abbattuta e cadente, Sotto un’elce s’assise: ivi facendo Al volto letto d’ambedue le palme, Tutta con esse si coprì la fronte, E nascose le lagrime, che mute Le bagnavan le gote, e le sapea Solo il terren, che le bevea pietoso. In quel misero stato la ravvolse Dell’ombre sue la notte, e in sul mattino Il sol la ritrovò sparsa le chiome, E di gelo grondante e di pruina; Perocchè per dolor posta in non cale La sua celeste dignitade avea, Onde al corpo divin l’aure notturne Ingiurïose e irriverenti furo, Siccome a membra di mortal natura. Lica intanto, di povero terreno Più povero cultor, dal letticciuolo Era surto con l’alba, e del suo campo Visitando venía le orrende piaghe, Che fatte avean la pioggia, il ghiaccio, il vento Agli arboscelli, ai solchi ed alle viti. Lungo il calle passando, ove la diva In quell’atto sedea, da meraviglia Tocco, e più da pietà, chè fra le selve Meglio che in mezzo alle cittadi alberga, S’appressò palpitando, e la giacente Non conoscendo (chè a mortal pupilla Difficil cosa è il ravvisar gli dei), Ma in lei della contrada argomentando Una ninfa smarrita: O tu, chi sei, Chi sei, (le disse), che sì care e belle Hai le sembianze e dolor tanto in volto? Per chi son queste lagrime? t’ha forse Priva il ciel della madre o del fratello O dell’amato sposo? chè son questi Certo i primi de’ mali, onde sovente Giove n’affligge. Ma del tuo cordoglio Qual si sia la cagion, prendi conforto, E pazïenza opponi alle sventure Che ne mandano i numi: essi nemici Nostri non son; ma col rigor talvolta Correggono i più cari. Alzati, o donna; Vieni, e t’adagia nella mia capanna, Che non è lungi; e le forze languenti Ivi di qualche cibo e di riposo Ristorerai. La mia consorte poscia Di tutto l’uopo ti sarà cortese; Ch’ella è prudente, e degli afflitti amica, E qual figlia ambedue cara t’avremo. Alle parole del villan pietoso S’intenerì la diva, e in cor sentissi La doglia mitigar, tanta fra’ boschi Gentilezza trovando e cortesia. Levossi in piedi, ed ei le resse il fianco, E la sostenne con la man callosa. Nell’appressarsi, nel toccar ch’ei fece Il divin vestimento, un brividío, Un palpito lo prese, un cotal misto Di rispetto, d’affetto e di paura, Che parve uscir dei sensi, e su le labbra La voce gli morì. Quindi il sentiero Prese in ver la capanna, e il fido cane Nel mezzo del cortil gli corse incontro: Volea latrar; ma sollevando il muso, E attonite rizzando ambe le orecchie, Guardolla, e muto su l’impressa arena Ne fiutò le vestigia. In questo mentre Alla cara sua moglie Teletusa Il buon Lica dicea: Presto sul desco Spiega un candido lino, e passe ulive Récavi e pomi e grappoli, che salvi Dal morso abbiam dell’aspro verno, e un nappo Di soave lambrusca, e s’altro in serbo Tieni di meglio; chè mostrarci è d’uopo Come più puossi liberali a questa Peregrina infelice. — Allor spedita Teletusa si mosse, e in un momento Di cibo rustical coperse il desco, Ed invitò la dea, la quale assisa Sul limitar si stava, e immota e grave L’infinito suo duol premea nel petto; Nè già tenne l’invito, chè mortale Corruttibil vivanda non confassi A palato immortal; ma ben di trito Odoroso puleggio e di farina D’acqua commisti una bevanda chiese, Grata al labbro de’ numi, e l’ebbe in conto Di sacra libagion. Forte di questo Meravigliossi Teletusa, e, fiso Di Feronia il sembiante esaminando (Poichè al sesso minor diero gli dèi Curïose pupille, e accorgimento Quasi divin), sospetto alto la prese, Che si tenesse in quelle forme occulta Cosa più che terrena. Onde in disparte Tratto il marito, il suo timor gli espose, E creduta ne fu; chè facilmente Cuor semplice ed onesto è persuaso. Allor Lica narrò quel che poc’anzi Assalito l’avea strano tumulto, Quando a sorgere in piè le porse aita, E con la mano le soffolse il fianco. Poi, seguendo, di Bauci e Filemone Rammentâr l’avventura, e quel che udito Da’ vecchi padri avean, siccome ascoso Fra lor nelle capanne e nelle selve Stette a lungo Saturno, e nol conobbe Altri che Giano. In cotal dubbio errando, Si ritrassero entrambi, e lasciâr sola La taciturna diva. Ella dal seggio Si tolse allora; e due e tre volte scórse Pensierosa la stanza, e poi di nuovo Sospirando s’assise, e in questi accenti Al suo fiero dolor le porte aperse: Donde prima degg’io, Giove crudele, Il mio lamento incominciar? Già tempo Fu che, superba del tuo amor, chiamarmi Potei felice ed onorata e diva. Or eccomi deserta; e non mi resta Che questo sol di non poter morire Privilegio infelice. E fino a quando Alla fierezza della tua consorte Esporrai questa fronte? Il premio è questo De’ concessi imenei? Questi gli onori E le tante in Ausonia are promesse, Onde speme mi desti che la prima Mi sarei stata delle dee latine? Tu m’ingannasti: l’ultima son io Degl’immortali, ahi! lassa! e non mi fêro Illustre e chiara, che le mie sventure. Rendimi, ingrato, rendimi alla morte, Alla qual mi togliesti. Entro quell’onde Concedimi perir, che la tua Giuno Sul mio regno sospinse, o ch’io ritrovi Agli arsi boschi in mezzo e alle ruine De’ miei templi abbattuti il mio sepolcro. Così la diva lamentossi, e tacque. Era la notte, e d’ogni parte i venti E l’onde e gli animanti avean riposo, Fuorché l’insetto che ne’ rozzi alberghi A canto al focolar molce con lungo Sonnifero stridor l’ombra notturna; E Filomena nella siepe ascosa Va iterando le sue dolci querele. In quel silenzio universale anch’essa Adagiossi la dea vinta dal sonno; Che dopo il lagrimar sempre sugli occhi Dolcissimo discende, e la sua verga Le pupille celesti anco sommette. Quando il gran padre degli dei, che udito Dell’amica dolente il pianto avea, A lei tacito venne; e poi che stette Del letto alquanto su la sponda assiso, Di quel volto sì caro addormentato La beltà contemplando, alfin la mano Leggermente le scosse, e nell’orecchio Bisbigliando soave: O mia diletta, Svégliati, disse, svégliati; son io Che ti chiamo; son Giove. A questa voce Il sonno l’abbandona, apre le luci, E stupefatta si ritrova in braccio Del gran figliuolo di Saturno. Ed egli Riconfortala in pria con un sorriso Che di dolcezza avria spetrati i monti, Ed acchetato il mar quando è in fortuna; Poscia in tal modo a ragionar le prese: Calma il duolo, Feronia; immoti e saldi Stanno i tuoi fati e le promesse mie; Nè ingannator son io, nè si cancella Mai sillaba di Giove. Ma profonde Sono le vie del mio pensiero, e aperta A me solo de’ fati è la cortina. Non lagrimar sul tuo perduto impero: Tempo verrà, che largamente reso Tel vedrai, non temerne, e i muti altari E le cittadi e i campi e le pianure Dai ruderi e dall’onde e dalla polve Sorger più belle e numerose e colte. D’Italia in questo i più lodati eroi Porran l’opra e l’ingegno. Io non ti nomo Che i più famosi; e in prima Appio, che in mezzo Spingerà delle torbide Pontine Delle vie la regina. Indi Cetego: Indi il possente fortunato Augusto Esecutor della paterna idea; Al cui tempo felice un venosino Cantor sublime ne’ tuoi fonti il volto Laverassi e le mani; e tu di questo Orgogliosa n’andrai più che l’Anfriso, Già lavacro d’Apollo. Ecco venirne Poscia il lume de’ regi, il pio Traiano Che, domata con l’armi Asia ed Europa, Col senno domerà la tua palude; E le partiche spade e le tedesche In vomeri cangiate impiagheranno, Meglio d’assai che de’ Romani il petto, Le glebe pometine. E qui trecento Giri ti volve d’abbondanza il sole, E di placido regno, infin che il goto Furor d’Italia guasterà la faccia. Da boreal tempesta la ruina Scenderà de’ tuoi campi; ma del pari Un’alma boreal, calda e ripiena Del valor d’occidente, al tuo bel regno Porterà la salute. E poi di nuovo (Chè tal de’ fati è il corso) alto squallore Lo coprirà; nè zelo, arte o possanza Di sommi sacerdoti all’onor primo Interamente il renderan; chè l’opra Immortal, glorïosa ed infinita Ad un più grande eroe serba il destino. Lo díran Pio le genti e di quel nome Sesto sarà. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . |
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