LIBRO QUARTO
Ma la regina, di profondo affanno
pur dianzi vinta, la ferita in
cuore
nutre e si strugge di nascosta
fiamma.
Sempre il valore de l'eroe,
l'onore
de la gente ritorna al suo
pensiero;
ha fitti in seno il volto e le
parole,
né dà la passïon pace a le membra.
Il domani schiariva col febeo
lume le terre e avea di ciel
l'Aurora
l'umid'ombra cacciata; ella si
volge
fuor di sé quasi a la fedel
sorella:
«Anna sorella mia, quali mai sogni
mi turbano e mi affannano? Che
novo
ospite è questo che ci giunse in
casa?
quale aspetto! che forte cuor! che
braccio!
Credo ben io, né credo invan, che
stirpe
è degli Dei: i tralignanti accusa
lor viltà. Da che fati ahimè
sospinto!
quali narrava superate guerre!
Se nel mio cuore immobilmente
ferma
non fossi a ricusar nodo di nozze,
poi che morendo il primo amor
m'illuse;
se preso in odio il talamo e le
tede
già non avessi, fors'ell'era
questa
l'unica colpa cui ceduto avrei.
Anna, il confesserò, sí, dopo il
fato
del misero Sicheo mio sposo e il
sangue
di che il fratello empí la casa,
solo
questi m'ha scosso i sensi e il
cuor che trema:
conosco i segni de l'antica
fiamma.
Ma prima s'apra a me la terra cupa
e mi fulmini il gran Padre tra
l'ombre,
le pallide ombre e l'infinita
notte,
ch'io te, Pudore, o le tue leggi
offenda.
Quegli che primo a sé mi strinse,
il mio
amor se ne portò; quegli se
l'abbia
sepolto insieme».
Cosí disse, e in seno
il pianto le proruppe. Anna
risponde:
«O piú cara del giorno a la
sorella,
e tutta sfiorirai la giovinezza
da sola, senza i dolci figli,
senza
di Venere le gioie? E di ciò pensi
che si curi la cenere de' morti?
Sia, nel tuo lutto un dí non ti
piegava
sposo di Libia, e non di Tiro
prima;
Iarba disprezzasti e gli altri
duci
che ricca di trionfi Africa nutre:
resisterai anche a un gradito
amore?
Né ti sovviene in qual terren tu
vivi?
hai da una parte le città getúle,
stirpe guerriera, e i Númidi
sbrigliati
e l'inospita Sirti; le assetate
lande hai da l'altra ed il furor
barcèo
che largo inonda. E debbo dir le
guerre
imminenti da Tiro e la minaccia
del germano?
Auspici inver gli Dei, penso, e
arridente
Giunone, questo solco hanno tenuto
veleggiando l'iliache carene.
Quale vedrai questa città,
sorella,
qual sorger regno per connubio
tale!
de' Teucri amiche l'armi, ne
l'imprese
quanta grandeggerà punica gloria!
La grazia sol de' Numi implora e,
i riti
compiuti, a l'ospitalità ti dona;
trova cagioni a l'indugiar, nel
mentre
che il verno infuria ed Orïon
nemboso
sul mar, né sani sono i legni;
mentre
male i nembi si affrontano».
Con questi
detti d'immenso amor l'animo
accese,
diè speme al dubbio cuor, vinse il
ritegno.
Vanno da prima a' templi, e ad
ogni altare
e chiedon grazia: le scelte agne
di rito
a Cerere leggifera ed a Febo
immolano e a Lieo padre, su tutti
a Giuno ch'è de' nodi coniugali
protettrice. Bellissima Didone
versa una tazza con la propria
destra
fra le corna di candida giovenca,
o davanti agli Dei ed a le pingui
are si spazia; con le offerte
inizia
il giorno, e china sopra l'ostie
scisse
le palpitanti viscere consulta.
Oh misero pensier degl'indovini!
che fanno i voti e i templi a la
furente?
Fiamma divora l'intime midolle
intanto e muta in sen vive la
piaga.
Arde Dido infelice, e forsennata
scorre per tutta la città, qual
cerva
cui lunge incauta tra le macchie
in Creta
un pastore, incalzandola di
strali,
con un la colse e in lei lasciò
l'alato
dardo senza saperlo; e quella in
fuga
per le fratte e i dittèi balzi
dilegua,
ma la punta mortal fitta è nel fianco.
Or seco Enea per mezzo a' suoi
conduce,
gli mostra la sidonia floridezza
e pronta la città; prende a
parlare
ed a mezzo il parlar s'arresta: or
torna
col dí cadente a' soliti conviti
e chiede ancora udir le iliache
pene
e pende ancor del narrator dal
labbro.
Come poi son partiti e l'ora viene
che vela il lume suo scura la luna
e il sonno chiaman le cadenti
stelle,
sola si strugge ne le stanze vuote
e resta sui tappeti abbandonati.
Lontana lui lontano ascolta e
vede,
o vinta a la paterna somiglianza
gode di trattenersi Ascanio in
grembo,
se illuder possa il tormentoso
amore.
Non salgon piú le torri
incominciate;
non trattan l'arme i giovani, né
a' porti
sudano e a' forti arnesi de la
guerra:
pendon l'opre interrotte e le
minacce
vaste de' muri e i palchi alzati
al cielo.
Appena vide lei dal mal sí presa,
né ritegno, la fama a la follia,
la Saturnia di Giove amata
sposa
con questo ragionar Venere assale:
«Splendida lode in ver, trofei
superbi
tu col figliuolo tuo ne riportate:
meraviglioso e memorabil vanto,
per l'arte di due Dei vinta una
donna!
Già non mi sfugge che le nostre
mura
tu paventando, per sospette avevi
le case di Cartagine alta. E
quando
porrai fine? a che piú tanto
armeggiare?
Perché piuttosto non esercitiamo
eterna pace e nuzïali patti?
Già quello hai tu che avidamente
ambivi:
arde amorosa Dido e fino a l'ossa
bevve la frenesia. Dunque comune
questo popol reggiamo àuspici
eguali:
io non vieto obbedir frigio marito
e dare i Tirii a la tua destra in
dote».
A lei (ché falso favellar la
intese,
per istornare a' lidi de la Libia
d'Italia il regno) Venere rispose:
«Chi a ciò darebbe folle una
ripulsa
eleggendo di far con te la guerra?
sol che fortuna prosperi l'evento
qual tu dici – son io dubbia de'
fati –
e un'unica città Giove consenta
avere i Tirii e i profughi da
Troia
e mescolarsi ed allearsi in patto.
La moglie sei, e puoi tentar
pregando
il suo talento. Va', ti terrò
dietro».
Soggiunse allora la regal Giunone
«Mia sarà questa cura. Or di che
guisa
quello si possa adempiere che
preme,
ti mostrerò, m'ascolta, in breve.
Enea
e con lui l'amantissima Didone
si preparano andar ne' boschi a
caccia,
non appena domani il sol nascente
co' suoi raggi riveli l'universo.
Io di grandine misto un nero
nembo,
mentre le schiere a collocar le
reti
s'affannano, rovescerò su loro
e moverò tutto tonante il cielo.
Qua e là fuggiran gli altri, ne la
cupa
notte ravvolti: Dido e il teucro
duce
ripareranno a la spelonca stessa.
Quivi sarò: se il tuo piacer m'è
chiaro,
glie la unirò di stabile connubio
per sempre sua. Sarà quivi
Imeneo».
Annuí senza opporsi a la chiedente
e sorrise a le trame Citerèa.
L'Aurora intanto da l'Oceano è
sorta.
Vien da le porte col novello
raggio
la eletta gioventú. Là reti rade
e lacci e giavellotti a larga lama
e accorrono massíli cavalieri
e de' cani il sottil fiuto. A le
soglie
stanno i primi de' Peni ad
aspettare
la regina nel talamo indugiata:
e d'ostro e d'oro splendido un
destriero
impazïente morde il fren
schiumoso.
Ella si avanza alfin tra un gran
corteggio
in clamide sidonia ricamata
a' lembi: d'oro ha la faretra, in
oro
annodati i capelli, ed un
fermaglio
d'oro raccoglie la purpurea veste.
Ecco i frigi compagni anch'essi e
lieto
Giulo apparir: bellissimo su tutti
Enea procede e le due squadre
unisce.
Qual è Apollo allor che
l'invernale
Licia lasciando e i corsi de lo
Xanto
riede a veder la sua materna Delo
e desta i cori; misti a l'are
intorno
Cretesi e Dríopi fremono e dipinti
Agatirsi; pe' gioghi va del Cinto
esso e il fluente crin preme
composto
di pieghevole fronda e d'aureo
cerchio,
romba il turcasso agli omeri: non
meno
animoso di lui veniva Enea;
tanta è beltà nel nobile
sembiante.
Poi che si giunse agli alti monti
e a' covi
riposti, giú da' vertici sbalzate
corser pe' clivi le selvagge
capre;
e d'altra parte i cervi le radure
trasvolano e s'agglomerano in
frotte
polverose fuggendosi da' monti.
Il giovinetto Ascanio del suo vivo
polledro gode in grembo a le
vallate
ed ora questi in corsa or passa
quelli,
e agogna pur che tra l'imbelle
armento
o spumoso cinghial gli si
offerisca
o discenda nel pian fulvo leone.
Comincia intanto a conturbarsi il
cielo
d'immenso mormorar; grandine e
nembo
scoppiano quindi. I tirii
cacciatori
trepidi a caso e i giovani troiani
e il dardanio di Venere nipote
cercaron qua e là pe' campi asilo:
da' monti scrosciano i torrenti.
Dido
e il teucro duce a la spelonca
stessa
riparano. La Terra prima e Giuno
pronuba danno il segno: arsero
lampi
nel cielo consapevole al connubio;
su le rupi ulularono le Ninfe.
Quello il dí primo fu di morte, il
primo
forier de' mali: ché non ha
pensiero
Dido di ciò ch'altri ne vegga e
dica,
e piú non serba quell'amor nel
cuore
nascostamente, ma nozze lo chiama
e fa del nome a la sua colpa velo.
Subito per le gran città di Libia
la Fama va, la Fama, il piú veloce
che sia malanno; vigoreggia per la
mobilità e forze acquista andando.
Piccola prima e pavida, si leva
poi alto a l'aure; sul terren
cammina
e il capo tra le nuvole nasconde.
Lei, narrano, la Terra genitrice
irritata de l'ira degli Dei,
lei di Ceo e d'Encelado sorella
ultima partorí, di piedi celere,
agile d'ali, orribil mostro e
grande;
che quante ha penne per il corpo,
tanti,
prodigio a dir, sott'esse ha
vigili occhi,
lingue e bocche le parlano
altrettante,
tanti dirizza orecchi. A notte
vola
tra terra e cielo stridula per
l'ombra,
né chiude al dolce sonno le
pupille;
il giorno o su' comignoli de'
tetti
siede spiando o de le torri in
cima,
ed assorda le gran città, tenace
del falso e reo, come del ver,
foriera.
Questa allora esultante rïempiva
le genti di molteplice ridire
e il fatto e il finto insieme
ricantava:
di teucra stirpe esser venuto
Enea,
e a lui non isdegnar la bella Dido
congiungersi; or concordi il verno
in gioia
quanto è lungo passar,
dimenticando
i regni, al vil talento
abbandonati.
Per le bocche la dea questa
vergogna
sparge: ad Iarba re dirige il volo
e gli desta co' detti incendio
d'ira.
Questi, nato ad Ammon da la rapita
Garamantide ninfa, ha posti a
Giove
cento per l'ampio regno eccelsi
templi,
cento are, e avea sacrato il vigil
fuoco,
scolte de' Numi eterne; ed il suol
pingue
del sangue de le vittime e le
soglie
de' svarïati serti floride. Egli,
sconvolto il cuore e acceso al
triste grido,
davanti a l'are, in mezzo a' Numi
santi,
supplice a Giove con le palme tese
dicono alzasse instante la
preghiera:
«Onnipotente Giove, a cui la maura
gente su' pinti letti convitata
liba l'onor lenèo, vedi tu questo?
ovver te fulminante, o genitore,
senza ragion temiamo e del terrore
son causa fuochi tra le nubi
occulti
e via con bruto murmure
striscianti?
Una donna, che profuga nel nostro
suolo esigua città fondò per oro,
e le diemmo ad arar terra e a
dettarvi
la legge, ricusò le nozze mie
e per signore accolse al regno
Enea.
Quel Paride, col suo non maschio
gregge,
sorretto il mento da meonia mitra
e il crin stillante, or la rapina
gode
e noi portiamo a' templi tuoi le
offerte
alimentando una credenza inane!».
Lui che cosí pregava a l'are
stretto
udí l'Onnipotente e torse gli
occhi
a le mura regali ed agli amanti
de la fama migliore ismemorati.
Poi si volge a Mercurio e sí
gl'ingiunge:
«Figlio, chiana gli zefiri e
volando
scendi: al dardanio duce che or
s'indugia
ne la tiria Cartagine e non guarda
piú le città concessegli dal fato,
parla e reca per l'aëre il mio
cenno.
Lui la madre bellissima non tale
ci promise – né due volte di mano
lo strappa a' Grai per questo –,
sí ben ch'egli
pregna di signorie, guerra
spirante
reggerebbe l'Italia, la prosapia
rivelerebbe che da Teucro scende
e darebbe la legge a l'universo.
Se non l'infiamma gloria di sí
grandi
cose né vuole accingersi a fatiche
per propria lode, Ascanio ei padre
froda
de le romane rocche? E che
disegna?
o per qual mai speranza tra nemica
gente dimora ed a l'ausonia prole
piú non riguarda né al lavinio
suolo?
Navighi! questo è tutto, e tu
l'annunzia».
Aveva detto. Quei si preparava
obbedir del gran Padre il cenno, e
prima
s'allaccia a' piè gli aurei
talari: a volo
questi su le marine e i continenti
il portano alto a par con l'aure
lievi.
Prende la verga poi: con questa
fuori
ei chiama l'ombre pallide da l'Orco,
altre nel triste Tartaro sommerge,
dà il sonno e leva, e chiude gli
occhi in morte.
Rompe or con essa i venti e tra le
nubi
torbide varca. E già tra 'l volo
scorge
il picco e i fianchi eccelsi del
rubesto
Atlante che sostenta il ciel col
capo,
d'Atlante che i pineti de la vetta
perennemente ha in nuvole ravvolti
e dal vento è battuto e da la
pioggia:
vien la neve a coprir gli omeri;
allora
scorron dal mento del vegliardo i
fiumi
e irrigidisce l'irta barba al
gelo.
Quivi stette librandosi su l'ali;
poi s'abbandonò tutto verso
l'onde,
simile a quell'augel che basso
vola
intorno a' lidi ed a' pescosi
scogli
radendo il mar: non altrimenti a
volo
tra terra e ciel verso il sabbioso
lido
de la Libia fendea l'aër, venendo
dal materno avo, la cillenia
prole.
Toccati appena con le alate piante
i tuguri, discerne Enea che
attende
a fondar torri e foggiar tetti.
Aveva
stellata spada di dïaspro biondo
e breve manto gli fulgea di tirio
murice da le spalle, opera e dono
che fatti aveva l'opulenta Dido
e divisati a fila d'oro i drappi.
Di subito l'assale: «Or tu lavori
a' fondamenti di Cartagine alta
e tutto moglie la città fai bella,
oh immemore del regno e di tue
cose!
Esso dal chiaro Olimpo a te mi
manda
il Re de' Numi che ad arbitrio suo
volge il cielo e la terra, esso
m'ingiunge
che per l'aëre il suo cenno ti
rechi.
Tu che disegni? per qual mai
speranza
stai neghittoso in libico paese?
Se non ti punge gloria di sí
grandi
cose né ordisci a lode tua
fatiche,
guarda Ascanio crescente e le
speranze
di Giulo erede, cui dovuto il
regno
è de l'Italia e la romana terra».
Detto che in tal sentenza ebbe
Cillenio,
sfuggí tra il dir cosí gli occhi
mortali
e dileguò ne l'aëre lontano.
Ammutí di sé fuori a quell'aspetto
Enea; rabbrividí, ritti i capelli,
ne le fauci la voce. Via fuggire
anela e abbandonar le dolci terre,
percosso a l'alto ammonimento e al
cenno.
Ahi! che farà? con che parole
osare
mettersi intorno a la regina
ardente?
qual principio trovar? E il suo
pensiero
or qua or là rapido ei volge e in
ogni
parte l'invia per tutte le
vicende.
Ondeggiando cosí, migliore avviso
questo gli parve: Mnèstëo e
Sergesto
chiama e il forte Seresto; armino cheti
la flotta, e i soci adunino a la
riva,
preparin tutto, e de la cosa nova
la ragione dissimulino; ed esso,
da che l'ottima Dido è ignara e
rotto
non teme un tanto amor, vedrà le
vie
e la piú facile ora a favellarle,
e ogni destro che paia. Alacri e
lieti
tutti ascoltano e adempiono i
comandi.
Ma la regina presentí le trame
(e chi potrebbe eludere un
amante?)
e le mosse a venir prima sorprese,
già inquïeta a' bei giorni. E
l'empia Fama
riferí parimente a l'amorosa
la flotta pronta e prossimo il
salpare.
Smania, e le cadde il cuor; in
furia e in foco
erra per tutta la città, qual
tíade
che balza, mossi appena i sacri
arredi,
quando al grido di Bacco ogni
terz'anno
stimolan l'orgie e clamoroso a
notte
il Citerone chiama a sé.
Con queste
voci in fine ad Enea parla la
prima:
«Anche dissimular sí nero eccesso,
o perfido, speravi e da la mia
terra occulto partir? Né l'amor
nostro
né la destra un dí porta e non ti
arresta
Dido che ne morrà di crudel morte?
Sotto gli astri invernali armi la
flotta
e al soffio aquilonar levi le
antenne,
crudele! E che? se tu or fossi
volto
non a terre d'altrui né a case
ignote,
ma stesse ancor l'antica Troia, a
Troia
veleggeresti per l'ondoso mare?
E fuggi me? Per questo pianto e
per la
tua destra (poi che nulla altro
lasciai
a me misera io stessa), per il
nostro
connubio, pe' cominciati imenei,
se qualche bene ti fec'io, se
nulla
ti fu caro di me, pietà di questa
casa crollante! e un tal pensier,
ti prego,
se luogo resta di pregar, deponi.
M'odian per cagion tua le genti
libie
e i tiranni de' Nomadi, ho nemici
i Tirii; ancor per te spento è il
pudore
e la fama di un dí, sola per cui
ero a le stelle. A chi me
moribonda,
ospite, lasci? nome unico omai
che riman del consorte. A che
vivrei?
fin che la mia città strugga il
fratello
Pigmalïon? fin che il getúlo Iarba
schiava mi tragga? Avessi avuta
almeno
di te pria de la fuga alcuna
prole,
ed uno mi scherzasse ne la reggia
pargolo Enea, che pure a le
sembianze
ti richiamasse, non del tutto
allora
mi sentirei delusa e abbandonata».
Avea detto. Pe' moniti di Giove
immobili teneva ei le pupille
ed a forza nel cuor premea
l'affanno.
Breve risponde alfine: «Io te,
regina,
sempre confesserò meriti avere
quanti a parole noverarne puoi,
e caro avrò di ricordarmi Elisa
fin ch'io ricordi me, fin che mi
regge
l'anima queste membra. Per la
causa
poco dirò. Già non sperai di
furto,
non te lo figurar, prender la
fuga,
né mai proffersi maritali tede
o venni per tal nodo. Io, se a me
il fato
viver co' miei auspici consentisse
e secondar spontanëo l'affetto,
prima vorrei ne la città troiana
e co' dolci restar resti de' miei:
durerebbero i tetti alti di Priamo
ed io rifatta avrei Pergamo a'
vinti.
Ora Apollo grinèo m'addita invece
l'Italia grande, Italia a me le
licie
sorti: questo l'amor, questa è la
patria.
Se l'arce di Cartagine e la vista
d'afra città sorride a te fenicia,
ne l'ausonio terreno e perché
vieti
posare i Teucri? è lecito anche a
noi
cercar stranieri regni. Quante
volte
cinge la notte in velo umido il
mondo,
quante volte si accendono le
stelle,
m'avverte in sogno e m'atterrisce
offesa
l'ombra del padre, Anchise; e
Ascanio mio
e la iattura del diletto capo
cui del regno fatal d'Esperia
privo.
Or anche il messaggero degli Dei
invïato da Giove stesso, il giuro
per le nostre due vite, m'ha
recato
rapido giú per l'aëre il comando:
ben io lo vidi in chiara luce il
dio
entrar le mura e bevvi la sua voce
con questi orecchi. Lascia di
turbare
me fieramente e te col tuo
lamento:
non spontaneo l'Italia cerco».
Lui che cosí dicea guardava
obliqua
inquïete rotando le pupille
e lo percorre con lo sguardo muto
tuttoquanto, e cosí prorompe
accesa:
«Né tua madre una dea né de la
stirpe
Dardano è autore, o perfido: il
selvaggio
Caucaso ti creò da l'aspre rupi
e ti dieder la poppa ircane tigri.
Perché dissimular? peggio che
attendo?
Sospirò forse o al pianto mio si
volse?
Lagrimò vinto o compatí l'amante?
Quale eccesso è maggior? Ah che
oramai
né la massima Giuno né il Saturnio
padre riguarda a ciò con occhi
giusti.
Morta al mondo è la fé. Naufrago,
nudo
lo raccolsi e del regno il posi a
parte,
folle!; strappai da morte la
dispersa
flotta, i compagni. Ah che il furor
m'invade!
Ora l'augure Apollo, ora le licie
sorti, da Giove stesso ora invïato
il messaggero degli Dei gli reca
per l'aure abominevole comando!
Hanno i Superi inver questo
pensiero,
questo zelo li affanna in lor
quïete!
Te non trattengo né il tuo dir
confondo.
Va', segui Italia al vento e cerca
il regno
per l'onde. Oh spero, se i pietosi
Numi
possono ancor, che degli scogli in
mezzo
troverai tuo supplizio e a nome
Dido
sovente chiamerai. Con faci
infauste
ti seguirò lontana e, quando sole
la fredda morte lascerà le membra,
ombra ti sarò presso in ogni
luogo.
Darai, empio, la pena: udrò
l'annunzio,
l'udrò venire a me giú tra i
sepolti».
Rompe il colloquio in questo dire
e affranta
fugge il dí, si rivolge e toglie
al guardo,
lasciandolo tra pavido e sospeso
che molto volea dir. Venuta meno
le ancelle la riportano al
marmoreo
talamo, ivi l'adagian su le
coltri.
Ma il pio Enea, benché la dolorosa
brami di consolar con sue parole,
afflitto e il cuor d'amore
intenerito,
pure ubbidisce al cenno degli Dei
e torna a' suoi che piú
volonterosi
traggon per tutto il lido in mar
le navi.
Galleggia l'unta chiglia, e da le
selve
portan remi frascosi e legni
grezzi
per fretta de la fuga.
Migrar li vedi e da le vie fluire;
e come allor che un gran mucchio
di farro
saccheggiano pensose de l'inverno
le formiche e ripongon ne la casa,
va per le terre il bruno stuol, la
preda
convogliano in sottil solco tra
l'erba,
altre per forza d'omeri sospingono
i grossi grani, altre a tener le
file
strette e vive; tutt'opera è il
sentiero.
Quale a tal vista era il tuo
cuore, o Dido,
quali i sospiri, mentre l'ampia
riva
contemplavi gremir da l'alta rocca
e tutto sotto a te fervere il mare
d'immensa alacrità? Spietato
Amore,
a che non sforzi tu gli umani
petti?
Ella è sforzata di tornare a'
pianti,
di tornare a tentar con le
preghiere
e l'orgoglio sommettere a l'amore,
supplice, sí che nulla d'intentato
inutilmente moritura ometta.
«Anna, la fretta vedi in tutto il
lido:
sono concorsi d'ogni parte; omai
chiama la vela l'aure, e i
naviganti
ilari coronarono le poppe.
Se aspettarmi potei sí gran
dolore,
e soffrirlo potrò, sorella. Pure
di ciò compiaci, o Anna,
l'infelice;
ché te sola quel perfido onorava,
ti confidava i sentimenti arcani,
sola le vie sapevi ed i momenti
d'avvicinarlo. Va', sorella, e
parla
al nemico superbo supplicando.
Non io co' Greci in Aulide giurai
strugger la teucra gente e non
mandai
a Pergamo la flotta, né d'Anchise
il cenere turbai e l'ombra. Al mio
pregar perché dure l'orecchie
serra?
dove corre? Quest'ultimo conceda
dono a la mesta amante: aspetti
l'ora
buona al viaggio ed i propizi
venti.
Le antiche nozze ch'ei tradí non
chiedo
piú, né che privo ei sia del Lazio
bello
e lasci il regno: un tempo vano io
chiedo,
una tregua al furor, fin che la
mia
fortuna insegni a me vinta
soffrire.
Quest'ultima (oh pietà de la
sorella!)
grazia domando; e s'ei me la concede,
la renderò cresciuta de la morte».
Cosí pregava, e tal pianto recando
va e vien l'infelicissima sorella.
Ma né per pianti ei movesi né voce
è che lo pieghi: stanno contro i
fati
e un dio gli serra placidi gli
orecchi.
Come qualor nel secolar vigore
salda una querce a gara i soffi
alpini
or di qua or di là tentan
scalzare,
giú dal tronco che cigola agitato
l'alte fronde cospargono il
terreno,
essa a la rupe sta, le vette al
cielo
stendendo, quanto le radici a
l'Orco:
l'eroe cosí percosso e ripercosso
è da le voci e stretto il cuor
d'affanno;
ferma è la mente e vano scorre il
pianto.
Vinta da' fati allor Dido infelice
morte chiama, la vista odia del
cielo.
A far che nel proposito s'accenda
e fugga il dí, mentre poneva
offerte
su gl'incensati altari, orrendo a
dire!
vide il liquor sacrato farsi nero
e il vin che si mescea torbido
sangue.
Vide, e a nïun, né a la sorella
stessa,
lo rivelò. Fu ne la reggia inoltre
marmoreo tempio del marito antico,
cui venerava con devoto culto,
di velli nivei e vaghi serti
cinto.
Indi parvero udirsi voci e come
un chiamar del consorte, mentre
scura
tenea il mondo la notte, e
solitario
spesso col grido lúgubre lagnarsi
il gufo da' comignoli allungando
le note in pianto. Molti ancor
presagi
di prischi vati colmano d'orrore.
Esso ne' sogni Enea fiero persegue
la folle; e sempre esser lasciata
sola,
sempre le par senza compagni
andare
per lunga via, e nel deserto suolo
cercare i Tirii. Tal demente
Pènteo
rimira de l'Eumenidi la turba
e due soli apparire e doppia Tebe;
o per le scene Oreste agamennonio
quando incalzato fugge da la madre
di faci armata e d'atre serpi, e
ultrici
sul limitare seggono le Furie.
Dunque per troppo duol volta in
furore
e ferma di morire, il tempo e il
modo
tra sé divisa e, a la mesta
sorella
volgendosi, il pensier col volto
cela
e rasserena la speranza in fronte.
«Ho trovata la via, – germana,
godi
con la sorella, – che mi renda lui
ovver che da lui me liberi amante.
Tra 'l confin de l'Oceano e il sol
cadente
degli Etiopi è l'ultimo paese,
ove il massimo Atlante in su le
spalle
gira la volta d'astri ardenti
fitta.
Sacerdotessa di massíla gente
indi mostra mi fu, custode al
tempio
de l'Esperidi, che il suo pasto
dava
al drago e sacri su la pianta i
rami
serbava, insiem col rugiadoso
miele
sonnifero papavero spargendo.
Ella si vanta liberare i cuori
con gli incanti a sua voglia ed
altri invece
stringer d'amore, fermar l'acque
a' fiumi
e far tornar le stelle indietro.
L'ombre
a notte sveglia: sotto i piè
mugghiare
vedrai la terra e scendere da'
monti
gli orni. Giuro agli Dei, cara
germana,
a te e al dolce capo tuo, che
accinta
di mal cuore mi sono a magiche
arti.
Or tu segreta ne le interne stanze
innalza a l'aure un rogo, e l'armi
sue
che lasciò l'empio al talamo
sospese,
e l'altre cose e il letto
coniugale
che mi perdé, si gettin sopra:
vuole
incenerito la sacerdotessa
ogni ricordo del crudel
guerriero».
Cosí detto si tace ed il pallore
le invade il volto. Non per questo
crede
Anna che la germana con le nuove
cerimonie pensier veli ferale,
né tutto abbraccia in mente
quell'incendio
o teme piú che in morte di Sicheo.
Dunque gli ordini adempie.
Ma ne l'intima reggia la regina,
gran rogo eretto al ciel di pino e
d'elce,
stende il luogo di serti e
l'incorona
di fronda funeral: sopravi, vesti
e la spada lasciatale e l'effigie
sul letto pone, conscia del
futuro.
Sorgono l'are intorno, e sciolti i
crini
tonante invoca la sacerdotessa
trecento dèi, e l'Erebo ed il Caos
e la trigemina Ecate, tre visi
de la vergin Dïana; e sparse avea
l'acque del fonte Averno simulate,
e adopra le mietute erbe a la luna
con falce bronzea, rigogliose e
piene
d'atro veleno, adopera l'amore
spicco di fronte al polledrin che
nasce
e pretolto a la madre.
Essa, il farro; e con pie mani,
agli altari
presso, l'un piè senza legami, in
veste
succinta, chiama moritura i Numi
e gli astri consci del destino, e
prega
se v'ha dio protettor memore e
giusto
degli amanti cui mal risponde
amore.
Era notte, e godean stanchi il
tranquillo
sopore i vivi per la terra; cheti
eran fatti le selve e il fiero
mare,
ne l'ora che si volgono le stelle
a mezzo il corso, che ogni campo
tace;
le greggi e i pinti uccelli, e
quanti han vita
tra le belle acque chiare e gli
aspri dumi,
ne l'amplesso del sonno e del
silenzio
[lenían gli affanni ed obliosi i
cuori].
Ma non, piena d'angoscia, la Fenicia,
e mai non piega al sonno e non
accoglie
negli occhi o in sen la notte: il
dolor cresce
ed imperversa risorgendo amore
ondeggiante negl'impeti de l'ira.
Cosí sta, cosí volge ella in sé
stessa
«Ed or che fo? Schernita, i
pretendenti
ritenterò di prima ed il connubio
de' Nomadi ambirò supplice, quelli
che tante volte già sprezzai
mariti?
Seguirò dunque i legni iliaci ed
ogni
cenno de' Teucri? perché inver
godere
debbo d'averli salvi e viva è in
loro
la ricordanza del ben far ch'io
feci!
E, poni ch'io volessi, e chi mi
lascia
odïata salir le prore altere?
Non sai, meschina, oh ancor non
sai le frodi
de la progenie laömedontèa?
Che dunque? mi unirei sola
fuggiasca
a' marinari glorïanti, o tutte
trarrei con me de' Tirii miei le
schiere,
e, staccatili appena da Sidone,
li spingerei sul pelago di nuovo,
farei le vele al vento aprir? Su,
muori,
ché il meritasti, e il duol caccia
col ferro.
Tu dal mio pianto vinta, tu la
prima
fai cader su la forsennata questi
mali, germana, e l'offri a
l'inimico.
Non mi fu dato senza nozze e colpa
viver la vita, a guisa d'una fiera,
e star lontana da sí fatte pene;
non tenni fede al cener di
Sicheo».
Sí grandi ella dal cuor mettea
lamenti.
Su l'alta poppa, fermo di salpare
e già preste le cose, Enea
dormiva.
Nel sonno a lui l'imagine si
offerse
del dio tornante ne l'aspetto
istesso
e di nuovo cosí parve ammonire,
Mercurio in tutto, a la voce, al
candore,
al biondo crine, al fior di
giovinezza:
«O figlio de la Dea, puoi darti al sonno
in tal frangente? folle, e non
t'accorgi
che pericoli poi ti sono intorno,
né i zefiri spirare odi propizi?
Ella atroci nel cuor volge disegni,
deliberata di morir, e ondeggia
in vario impeto d'ire. E tu non
fuggi
precipitoso mentre n'hai potere?
Or or di navi pullulare il mare
e fiere scintillar faci vedrai,
vedrai la riva in un baglior di
fiamme,
se te lento l'aurora in questo
lido
ritroverà. Su via, rompi
gl'indugi.
Femmina è varia cosa e mobil
sempre».
Cosí detto, a la notte si confuse.
Scosso da l'improvvisa visïone
Enea dal sonno balza e sprona i
suoi
«Precipitosi vi levate, o prodi,
a remigare, a inalberar le vele.
Di nuovo ecco ci esorta un dio,
mandato
da l'aër sommo, ad affrettar la
fuga
ed a tagliar le attorte funi. O
santo
degli Dei, qual tu sia, ti
seguitiamo
ed al cenno obbediam festanti
ancora.
Ci assisti e aiuta placido, e le
stelle
volgine in cielo amiche». E disse
e snuda
la fulminëa spada percotendo
i legami. Un ardore insieme è in
tutti:
afferrano ed accorrono; han
lasciato
la riva, sotto a' legni il mar
dispare,
torcon le spume e radono
l'azzurro.
E già spargea di nova luce il
mondo
la prima Aurora fuor del croceo
letto
di Titon. La regina appena vide
da le vedette imbiancar l'aria e a
piene
vele la flotta allontanar, né a
riva
né piú restarsi remigante in
porto,
tre volte e quattro il bel seno
percosse
e il biondo crin strappandosi «Deh
Giove!
se n'andrà dunque, grida, e preso
a scherno
il nostro regno avrà questo
straniero?
Non brandiranno l'armi ad
inseguirlo
da tutta la città? non
strapperanno
le navi agli arsenali? Oh qua le
fiamme
presto, gli strali qua! date ne'
remi!....
Che dico? e dove son? qual follia
nova?
Dido infelice, or te l'empiezza
offende?
Allor dovea, quando gli scettri
offrivi.
Oh qual braccio, qual cuor l'uom
che si vanta
portar seco i Penati de la patria
e su le spalle il vecchio padre
stanco!
No 'l poteva io mettere in brani,
e in mare
gittarlo? e trucidar sua gente, il
suo
Ascanio stesso ed imbandirlo al
padre?
Ma dubbia de la lotta era la
sorte:
fosse; di chi temere io moritura?
Portato avrei nel campo i tizzi,
empiti
di bragia i banchi, il figlio e il
padre e il seme
spento, e gittata sopra lor me
stessa.
Sole che tutte l'opere del mondo
fiammante scorri, e tu di queste
angosce,
Giuno, fomite e conscia; Ecate, a
notte
per la città ne' trivii ululata,
e Furie ultrici e Dei de la
morente
Elisa, date ascolto, contro gli
empi
deh! rivolgete il provocato nume
ed esaudite le nostre preghiere.
Se necessario è ch'entri in porto e
approdi
lo scellerato, e questo chiede il
fato
di Giove, questo è termin fisso,
almeno
dal guerreggiar d'una animosa
gente
stremato, in bando dal paese,
lungi
da l'amplesso di Giulo, aiuto
implori
e vegga morti misere de' suoi;
e poi che a leggi di gravosa pace
reso si sia, non goda il regno e
non la
dolce luce, ma cada anzi il suo
giorno
e senza sepoltura in un deserto.
Questo io domando, questa voce
estrema
spargo col sangue. Voi la razza
poi,
o Tirii, tutta la razza futura
con l'odio perseguitela, e sí
degno
mandate al nostro cenere tributo.
Nessuno amor tra i popoli né patto
sorgi un da l'ossa mie
vendicatore,
incalzando i dardanidi coloni
con foco e ferro, adesso, un
giorno, in ogni
tempo che forza assista. I lidi a'
lidi
avversi, il mare al mare e l'armi
a l'armi
impreco: pugnino i presenti e i
posteri».
In questo dir, tutta agitata in
cuore,
cerca il piú presto romper
l'odïosa
luce. Però breve si volge a Barce
nutrice di Sicheo (ché ne l'antica
patria cenere bruna era la sua):
«Fammi, buona nutrice, la sorella
Anna venir: di' che si terga a
l'acqua
corrente e qui con sé súbito porti
l'agne e l'espïazioni ch'io le
dissi;
cosí venga, e tu pur mettiti in
capo
devote bende. Voglio a Giove
Stigio
l'olocausto compir che ben disposi
segnando un fine a questi affanni,
e dare
al fuoco il rogo del troiano».
Dice;
e quella con senil fretta s'è
mossa.
Trepida allor e ne l'impresa
atroce
Dido ardente, rotando occhi
sanguigni,
sparsa di macchie le frementi
gote,
pallida già de la futura morte,
nel cuore irrompe de la casa, in
cima
al rogo sale furibonda e snuda,
dono non chiesto a ciò, la teucra
spada.
Poi che le iliache vesti e il noto
letto
mirò, sospesa in pianto ed in
pensiero
un istante, piegò su quella coltre
e disse le novissime parole:
«O dolci spoglie mentre a' fati e
a Dio
piaceva, ricevete questa vita
e da tanto dolor mi liberate.
Vissi, e il cammino che mi diè
fortuna
percorsi; or grande l'ombra mia
sotterra
andrà: superba una città fondai,
mie mura vidi; vendicai lo sposo
e al nemico fratello inflissi
pena.
Avventurata, ahi troppo
avventurata,
sol che mai tocco non avesser
prore
dardanie il nostro lido!» Indi
premendo
il suo viso a la coltrice «Morremo
invendicate, dice, e pur moriamo.
Cosí, cosí voglio ire a l'ombre.
Miri
questa vampa dal mar l'empio
troiano;
l'augurio abbia con sé de la mia
morte».
Avea detto, e tra il dire abbandonata
su la punta la vedono le ancelle
con la spada e le mani sanguinose.
Sale il grido a le volte alte; la Fama
per la città commossa si propaga:
pianti, sospiri e femminili strida
scuoton la reggia, e l'aëre
risuona
d'un immenso dolor, non altrimenti
che se rovini da' nemici invasa
tutta Cartagine o l'antica Tiro
e furenti sormontino le fiamme
degli uomini le case e degli Dei.
Udí gelando la sorella e a corsa,
con l'ugne in faccia e fieri pugni
al seno,
rompe la folla e chiama la
morente:
«Era questo, germana? e
m'ingannavi?
m'apparecchiavan questo il rogo e
i fuochi
e l'are? Di che pria deserta
piango?
Non mi volesti per compagna in
morte?
m'avessi tu chiamata al fato
istesso;
uno stesso dolore, una stessa ora
trafitte entrambe avrebbe. E con
le mie
mani operai, chiamai con la mia
voce
i patrii Dei, per poi crudel
lasciarti
cosí sola a morir! Te e me,
sorella,
hai spento e tutto il popolo e i sidonii
padri e la tua città. Fate ch'io
lavi
con l'acque la ferita, e se un
estremo
alito spira, con le labbra il
colga».
Cosí dicendo avea saliti i gradi
tutti ed al sen tra le braccia
stringea
la moribonda sorella piangendo
e tergea con la veste il bruno
fiotto.
Quella, tentando sollevare i gravi
occhi, ricade giú; profonda in
petto
geme e stride la piaga. Per tre volte
sul gomito a fatica si levò,
per tre volte ricadde su la
coltre,
e verso il ciel con le pupille
erranti
cercò la luce e sospirò a vederla.
Allor pietosa Giuno onnipotente
del lungo duol, de la difficil
morte,
Iri mandò giú da l'Olimpo a
sciorre
l'alma lottante e l'avvincenti
membra.
Ché, non per fato o meritata fine
quella morendo, ma per troppo
amore
súbito forsennata anzi il suo
giorno,
Prosèrpina non anche il biondo
crine
svelto le aveva e lei data a
l'Averno.
Dunque Iride pe 'l ciel con fulve
penne
rorida, mille contro al sol colori
svarïati traendo, a terra vola
e sul suo capo si ristette:
«Questo
io comandata porto a Dite sacro
e te disciolgo da coteste membra».
Cosí dice, ed il crine con la
destra
svelle: ad un punto andò tutto il
calore
sperso e tra i venti rifuggí la
vita.
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