LIBRO SESTO
Cosí dice piangendo e dà le briglie
a la flotta, ed alfin tocca
l'euboiche
spiagge di Cuma. Voltano le prore
a l'alto mar, poi l'ancora col
dente
tenace assicurava al fondo i
legni;
le curve poppe fanno siepe a riva.
Balzano ardenti i giovani sul lido
esperio; e chi sprizzar fa la
scintilla
ascosa entro la selce, e chi
percorre,
folte dimore de le fiere, i boschi
e i corsi addita de' trovati
fiumi.
Ma il pio Enea le vette, cui
presiede
l'alto Apollo, ricerca ed il
riposto
asilo, immensa grotta, de
l'augusta
Sibilla, a la qual dona il Delio
vate
larghezza e fiamma d'ispirata
mente
e le apre l'avvenir. Quelli già
sono
sotto il bosco di Trivia e a
l'aureo tetto.
Dedalo, è fama, Minos re fuggendo,
oso fidarsi al ciel su preste
penne,
nuotò per novo solco a le fredde
Orse
e su l'arce calcidica leggiero
a la fin si librò. Qui reso a
terra,
a te de l'ali consacrò il
remeggio,
o Febo, e vasto ti costrusse il
tempio.
Su la porta è d'Andrògëo la morte,
i Cecròpidi poi sforzati a darne
in pena ohimè! sette figliuoli
ogni anno:
ecco l'urna onde uscirono le
sorti.
Di contro alta sul mar la cnosia
terra
risponde: ivi
.....................................
..........................................................
mista biforme prole il
Minotauro,........
.............................................................
ivi quel faticoso avvolgimento
di casa; unico Dedalo risolse,
pietoso al grande amor de la
regina,
gl'inganni inestricabili, d'un
filo
le cieche orme reggendo. E tu gran
parte
in cosí gran lavoro, Icaro,
avresti,
se il dolor permetteva: i casi
tuoi
tentò due volte effigïar ne l'oro,
due volte cadder le paterne mani.
A tutto seguitando avrebbe volti
gli sguardi suoi, se, già mandato
innanzi,
Acate non mostravasi e con lui
di Febo e Trivia la sacerdotessa,
Deífobe di Glauco. Ella al re
dice:
«Non vuol tali spettacoli
quest'ora.
Meglio sarà sette giovenchi
offrire
da intatto armento, e tante giusta
il rito
scelte bidenti». Cosí detto a
Enea,
(né tardano essi al sacro cenno) i
Teucri
chiama al gran tempio la
sacerdotessa.
È l'ampio fianco de l'euboica rupe
cavato in antro, e cento larghe
entrate
v'adducon, cento porte, escono a
cento,
de la Sibilla oracoli, le voci.
S'era giunti a le soglie, ed essa
esclama
la vergine: «Tempo è di domandare
i fati; ecco, ecco il dio!».
Tra questo dire,
sul limitar, d'un tratto, non
eguale
né il volto né il color né le
rimase
composto il crin, ma di furor si
gonfia
il petto ansante ed il selvaggio
cuore:
par piú grande né voce ha di
mortale,
tocca dal soffio già del dio che
viene.
«Sei lento a' voti ed a le preci,
esclama,
o teucro Enea, sei lento? E pur non
prima
si schiuderan de l'ispirata casa
le grandi bocche». Cosí detto,
tacque.
Freddo un brivido corse a' Teucri
per le
dure ossa, e il re cosí prega dal
cuore:
«Febo, pio sempre al gran dolor di
Troia,
che il dardano di Paride reggesti
strale contro l'Eacide e la mano,
per tanti mari a grandi terre
opposti
entrai, te duce, e ne' profondi
seni
de' Massíli e al suol cinto da le
Sirti:
pure una volta raggiungiam le
sponde
de l'Italia fuggente, oh fin qui
noi
la troiana fortuna abbia seguiti!
Voi pure omai a la pergàmea gente
vi potete placar, Dei tutti e Dee
cui dispiacque Ilio e la superba
gloria
de la Troade. E tu, divina vate,
presaga d'avvenir, dammi (non
chiedo
regno indebito a' fati miei) che i
Teucri
si posino nel Lazio e le vaganti
perseguitate deità di Troia.
A Febo e a Trivia allor tutto di
marmo
un tempio e feste ordinerò dal
nome
di Febo. Ampio te pur sacrario
aspetta
ne' regni nostri: ivi porrò tue
sorti
e gli arcani destini a la mia
gente
svelati; e scelti avrai ministri,
o santa.
Sol non fidare a foglie i tuoi
presagi,
che non volin confusi in preda al
vento:
prego che parli tu».
Qui chiuse il labbro.
Ma non di Febo tollerante ancora
la profetessa erra per l'antro a
furia,
se possa il grande iddio scoter
dal seno:
quello viepiú, l'acerbo cuor domando,
preme la indocil bocca e al fren
la piega.
E de la casa omai le cento grandi
porte si spalancarono spontanee
e diffusero a l'aure il vaticinio:
«O uscito alfin dai gran rischi del
mare
– ma restano piú gravi in terra –,
i Teucri
al regno di Lavinio giungeranno,
– sgombra il dubbio dal cuor, – ma
vorranno anche
non esser giunti. Guerre, orrende
guerre
vedo e il Tebro spumar di molto
sangue.
Non Símoï né Xanto a te né l'oste
dorica verrà meno: un altro
Achille
già nato è al Lazio, anch'ei
figliuol di dea,
né contro a' Teucri mancherà mai
Giuno,
mentre supplice tu ne la
strettezza
quali non genti implorerai
d'Italia,
quali città? Causa di tanto danno
una sposa di nuovo ospite a'
Teucri,
di nuovo uno stranier talamo.
Tu non cedere a' mali, anzi piú
fiero
li affronta, per la via che tua
fortuna
ti darà. Primo t'apparecchia
scampo
una città, certo nol pensi,
greca».
Con tali detti la cumèa Sibilla
da l'antro sacro fiere ambagi
intuona
e rugge, d'ombre ravvolgendo il
vero:
cosí scote le briglie a la
fremente
e con gli sproni entro la punge
Apollo.
Quando allentò il furore e la
schiumosa
bocca fu cheta, prende a dir
l'eroe:
«Nuova, o vergine, a me né
inaspettata
faccia non è di mali alcuna: tutti
li pregustai, li consumai nel
cuore.
Prego sol: poi che qui dicon la
porta
del rege inferno e la palude buia
cui riversa Acheronte, a me sia
dato
a la presenza andar del padre mio:
la via m'insegna, il sacro adito
m'apri.
Lui tra le fiamme e l'incalzar de
l'armi
sottrassi su questi omeri e salvai
da la mischia: compagno al mio
viaggio
tutti i mari con me, tutte durava
le minacce del pelago e del cielo,
pur lasso, oltre le forze e la
fortuna
de la vecchiezza. E ben fu desso a
farmi
prego e cenno che a te, che a le
tue soglie
supplice mi rendessi. Or del
figliuolo
e del padre pietà deh! abbi, o
alma,
ché tutto puoi, e non inutilmente
Ecate ti prepose a' boschi averni.
Se Orfeo col suono de le tracie
corde
richiamar poté l'ombra de la
sposa,
se Polluce il fratel con morte
alterna
redense e va e vien per quella via
– debbo il gran Téseo ricordarti o
Alcide? –,
sono disceso anch'io dal sommo
Giove».
Con tali detti orava e stringea
l'are,
quando riprese a dir la
profetessa:
«Divin sangue, Anchisíade troiano,
facile è la discesa de l'Averno;
dí e notte il fosco Dite ha porta
schiusa:
ma il piè ritrarre e risalire al
sole,
questa è l'impresa e la fatica.
Pochi,
cui benigno amò Giove e acceso
ardire
a le stelle levò, nati da numi,
il poterono. In mezzo è tutto
selve,
e Cocíto fluendo le circonda
del grembo cupo. Ma se tanto
affetto,
se hai tanto ardore di nuotar due
volte
lo stigio lago, di veder due volte
il Tartaro, e a la folle opera
inclini,
odi le cose da compirsi avanti.
Si cela in un ombroso albero un
ramo,
d'oro le foglie e la flessibil
fronda,
a la Giunone inferna consacrato:
tutta la selva gli fa velo e
l'ombre
l'avvolgono nel rezzo de le valli.
Ma vietati i segreti di sotterra
sono a chiunque non ha colto prima
da l'albero l'aurícomo germoglio.
Questo come tributo suo la bella
Prosèrpina ordinò che le si rechi.
Spiccato l'un, non manca l'altro,
d'oro,
e di metallo egual nasce virgulto.
Dunque in alto ricercalo con gli
occhi
e ritrovato con la man lo spicca:
la seguirà da sé docile e pronto
se i destini ti chiamano,
altrimenti
vincerlo non potrai per forza
alcuna
né schiantarlo col duro ferro.
Inoltre
ti giace (ah tu nol sai!) morto un
amico
e di morte contamina la flotta
intiera, mentre tu sospeso chiedi
responsi a queste soglie. Al suo
riposo
lui rendi avanti e lo raccogli in
tomba.
Nere pecore adduci a prima
offerta.
Solo allora vedrai di Stige i
boschi
e il regno inaccessibile a' viventi».
Disse, e le labbra taciturna
chiuse.
Enea col volto mesto e fisso il
guardo
si parte da la grotta e volge in
cuore
gli ascosi eventi. Il fido Acate è
seco
tra simili pensier l'orme
segnando.
Di tante cose discorrean tra loro:
qual dicesse la vate amico estinto
ed insepolto. E videro Miseno,
come fûr presso, su l'asciutto
lido,
di morte immeritevole finito,
l'eolide Miseno, onde non altri
piú valse a scoter con la tromba i
prodi
e ad infiammar squillando la
battaglia.
Era stato al grand'Ettore compagno
e ad Ettore vicino entrava in
guerra
segnalato pel litüo e la lancia.
Poscia che Achille vincitor
spogliava
quello di vita, del dardanio Enea
il fortissimo eroe si pose a
fianco,
seguace a non minor virtú. Ma
intanto
che con sua cava conca introna il
mare,
folle, e squillando chiama in gara
i divi,
un rivale Triton che gli fu sopra,
se credere si vuol, tra le
scogliere
l'avea ne la spumosa onda sommerso.
Dunque tutti fremevano d'intorno
in gran compianto, e il pio Enea
su tutti.
Nessuno indugio, affrettano
piangendo
de la Sibilla gli ordini, e di
tronchi
formano a prova l'ara del sepolcro
eretto al ciel. Si va ne la
foresta
annosa, antri profondi de le
fiere:
precipitan le picëe, percosse
suonan da scuri l'elci; ficcan
cunei
ne' frassini alti e ne le scisse
roveri
e rotolano grandi orni da' monti.
Anch'esso Enea tra tali opere
primo
esorta i suoi d'eguali armi
fornito.
E col triste cuor suo ragiona
intanto,
guardando la foresta immensa, e
viene
augurando cosí: «Se ora
quell'aureo
ramo da l'albero apparisse a noi
in tanta selva! Poi che ver
purtroppo
di te parlò, Miseno, la
veggente!».
Appena detto avea, che due colombe
sotto gli occhi di lui venian
volando
dal cielo e sceser giú sul verde
suolo.
Riconosce il sovrano eroe gli
alati
materni e lieto prega: «Oh siate
guide,
se via c'è; dirigetemi per l'aria
ne' boschi ove fa ombra il ricco
ramo
al suol ferace. E tu ne l'ora
incerta
non mi mancar, divina madre». E
stette,
mirando qual dien segno, ove sien
volte.
E quelle ad avanzarsi pascolando
a voli che seguir potesse il
guardo.
Giunte a la bocca fetida d'Averno,
si sollevano rapide e, calando
per l'aër lieve, al desïato luogo
posan sul duplice albero, dal
quale
varia fulse tra' rami un'aura
d'oro.
Qual suole ne le selve al freddo
tempo
il vischio verdeggiar di fronda
nova,
cui non la pianta germina, e de'
flavi
germogli circuir gli agili tronchi;
era tale a veder su l'elce bruna
quell'oro frondeggiar, tale il
virgulto
al molle vento susurrava. Enea
l'afferra avido e spicca dal suo
nodo
e a la veggente vergine lo reca.
Non meno intanto su la riva i
Teucri
piangevano Miseno ed a l'infausta
salma rendean l'esequie. Una gran
pira
di pingue pino e rovere segata
costrusser prima; d'atre fronde i
lati
le intrecciano, le pongono davanti
il cipresso funerëo, e di sopra
la fregiano de l'armi luminose.
Parte i caldi lavacri appresta e i
rami
gorgoglianti a la vampa, e lui
gelato
lavano ed ungono. Il compianto
sorge:
adagian poi le membra piante e
sopra
gettano le purpuree vesti note.
S'accostarono al gran feretro
alcuni,
mesto ufficio, e le faci a mo' de'
padri
vi tenner sotto con la faccia
volta.
Insiem s'ardono i doni de
l'incenso,
le vivande e pioventi olio i
crateri.
Cadute poi le ceneri, la fiamma
finita, i resti e le suggenti
brage
aspersero di vino e l'ossa accolte
Corinèo chiuse in una urna di
bronzo.
Esso tre volte va con l'acqua pura
intorno per gli astanti
leggermente
rorandoli d'un ramo del benigno
ulivo e cosí tutti ebbe lustrati
e disse le novissime parole.
Ma il pio Enea di gran mole un
sepolcro
sovrappone a quel prode e l'armi
sue
e remo e tromba ne l'aërio monte,
che Miseno da quello oggi si
chiama
e il nome per i secoli propaga.
Appresso poi sollecito i precetti
compie de la Sibilla. Una spelonca
profonda fu che spaventosa s'apre,
scogliosa; la difendono il padule
nero e la tenebría de le foreste,
su la qual non potevano gli
uccelli
stendere il volo impunemente, tale
fiato si esala da la tetra gola
[onde dissero il luogo Aorno i
Grai].
Quattro giovenchi da le terga nere
prima vi trae la sacerdote, in
fronte
lor versa il vino, tra le corna a
sommo
un ciuffo strappa e, ritüal
primizia,
getta a' bracieri, alto Ècate,
invocando
e nel cielo e ne l'Erebo possente.
Altri i coltelli sottopone e il
caldo
sangue riceve ne le tazze. Enea
con la spada un'agnella d'atro
vello
immola de l'Eumenidi a la madre
e a la sua gran sorella, ed una
vacca
sterile a te, Prosèrpina. I
notturni
riti a lo stigio re quindi
principia
e intere ammucchia viscere di tori
sopra le fiamme, le ferventi fibre
di pingue olio spargendo.
Ed ecco, presso
al nascente chiaror del primo
sole,
muggir la terra sotto i piè, le
vette
cominciare a crollarsi de le
selve,
e per l'ombra ulular parver le
cagne
appressando la dea. «Lungi,
profani!
lungi di qui!» la profetessa
grida,
«e tenetevi fuor da tutto il
bosco.
E tu invadi la via, snuda la spada:
qui si vuol cuore, Enea, qui petto
saldo».
Detto cosí, si mise furïosa
per l'antro aperto, e a la sua
duce mossa
quei con securo piè move di pari.
Dèi che avete de l'anime l'impero,
e ombre mute e Caos e Flegetonte,
luoghi per la notte ampia
taciturni,
dir mi sia dato quel che udii, sia
dato
col voler vostro rivelar le cose
sotterra ne la tenebra sepolte.
Andavan sotto la solinga notte
scuri per l'ombra e per le case
vacue
di Dite e i vani regni: era un
andare
qual per l'incerta luna a luce
scarsa
ne' boschi, quando Giove ha chiuso
il cielo
nel buio e l'atra notte ha il
color tolto
a le cose.
Al vestibolo davanti,
su la bocca de l'Orco prima prima,
l'Affanno e le vendicatrici
Angosce
posero lor covil, v'hanno dimora
pallidi i Morbi e infausta la
Vecchiezza
e la Paura e mala consigliera
la Fame e l'Indigenza ontosa,
orrori
a vedere, e la Morte e la Miseria,
e, fratel de la Morte, evvi il
Sopore
ed i Piaceri de la mente falsi;
e su la soglia la Guerra omicida
e i ferrei de l'Eumenidi giacigli
e la Discordia pazza avvolta in
bende
sanguinose le chiome viperine.
Nel mezzo i rami e le vetuste
braccia
un olmo stende fosco, grande, e in
quello
esser si dice a torme i Sogni
vani,
sí che piú d'un ve n'ha sott'ogni
foglia.
Molti altri mostri di diverse
fiere,
i Centauri s'installano a le porte
e le Scille biformi e Briareo
centímano e la belva sibilante
di Lerna e la Chimera irta di
fiamme,
le Górgoni, le Arpie, l'uom dai
tre corpi.
Sobbalzando di subito spavento,
qui stringe Enea la spada ed a'
vegnenti
drizza la punta: e se la savia
duce
non l'ammonisse che le sono esíli
incorporee vite vagolanti
che paiono persona, irromperebbe
a percotere invan l'ombre col
ferro.
Di qui la via che mena a le
tartaree
acque de l'Acheronte. Pien di
melma
bolle con vasto vortice quel
flutto
e la molta in Cocito arena erutta.
Spaventoso nocchier tien la
riviera
Caronte, d'un'orrenda
squallidezza,
cui larga invade irta canizie il
mento,
s'apron gli occhi di fiamma, e da
le spalle
pende annodato lurido mantello.
Esso regge a la barca e remo e
vela;
su la ferrigna chiglia i corpi
porta,
vecchio, ma cruda ha il dio verde
vecchiezza.
Quivi a riva una gran folla correva,
donne e uomini, e corpi senza vita
di magnanimi eroi, e giovinetti
e vergini, e recati sotto gli
occhi
de' genitori adolescenti al rogo;
quante col primo freddo de
l'autunno
si spiccano ne' boschi e cadon
foglie,
o quanta da l'oceano a le spiagge
va nuvola d'uccelli, allor che il
gelo
oltre il mare li caccia a terre
apriche.
Stavan, pregando di passare i
primi,
e tendevan le mani per amore
de l'altra sponda, ma il nocchiero
arcigno
ora questi ora quei riceve e gli
altri
allontana e ricaccia da la riva.
Enea, sospeso e scosso a quel
tumulto,
«Dimmi, o vergine, dice, onde tal
ressa
al fiume? quale han l'anime desio?
per che divario queste son
respinte,
quelle solcan la livida palude?».
E breve a lui l'annosa profetessa:
«Nato d'Anchise, manifesta prole
degli Dei, l'alto stagno di Cocito
tu vedi e la palude stigia, il cui
nume temon gli Dei giurare invano.
Tutta questa che miri è la
meschina
turba insepolta, quel nocchier
Caronte,
quelli i sepolti che trasporta
l'onda.
Né prima è dato il buio greto e il
roco
flutto passar che abbian riposo
l'ossa.
Erran cento anni volitando intorno
a questi lidi, e finalmente
ammessi
rivedono gli stagni desïati».
Stette il figliuol d'Anchise e
tenne il passo,
tutto pensoso e in cuor commosso a
quella
gravosa sorte.
Quivi scorge mesti
e privi de l'estremo onor Leucaspi
e Oronte duce de la licia flotta,
che insiem da Troia pe' ventosi
mari
portati l'austro sopraffece,
d'acqua
avvolgendo la nave e i naviganti.
Ed ecco che il piloto Palinuro
veniva, il qual nel libico
passaggio
pur ora, mentre guarda gli astri,
in mezzo
a l'onde da la poppa era caduto.
Come a stento tra tanta ombra lui
mesto
vide, primo gli parla: «O
Palinuro,
qual degli Dei ti tolse a noi e in
mezzo
a la marina ti sommerse? Dimmi,
ché, non trovato mai fallace
innanzi,
solo in questo responso mi deluse
Apollo, il qual te presagiva
immune
dal pelago dover giungere a' lidi
d'Ausonia. Or questa è la promessa
fede?»
E quegli: «Né di Febo la cortina
t'ingannò, Anchisíade condottiero,
né mi sommerse un dio ne la
marina:
ché per sorte il timon schiantato
a forza,
ch'io stringeva custode e
regolava,
precipitando trascinai con me.
Per le tempeste giuro ch'io non
ebbi
di me timor, ma che la nave tua,
spoglia de l'armi sue, scossa del
duce,
venisse meno in quel gonfiar de
l'onde.
Tre tempestose notti per l'immenso
mar mi spinse tra' flutti un fiero
vento:
solo al quarto mattin vidi
lontano,
su la cresta di un'onda alto,
l'Italia.
Io mi traea nuotando verso lei,
e già terra toccavo, se una gente
crudel me grave con le vesti
pregne,
e che i ronchi ghermía con mani
adunche,
non assaliva armata, in me
pensando,
stolta! una preda. Ora mi tiene il
flutto
e i venti mi percotono sul lido.
Dunque pel ciel ti prego e l'aure
azzurre,
per il tuo genitor, per le
speranze
del tuo fiorente Giulo, a questo
danno
strappami, o invitto: o coprimi di
terra,
ché il puoi, ed il Velín porto
ritrova;
ovvero, se via v'è, se te ne
mostra
la diva madre (senza numi, credo,
già non prendi a varcar tal fiume
e Stige),
porgi la destra al misero e mi porta
oltre l'acqua con te, sí che in
tranquilla
sede almeno da morto io mi
riposi».
Avea detto cosí, cosí riprese
la profetessa: «Donde, o Palinuro,
cotesta in te sí folle brama?
l'acque
stigie vedrai tu non sepolto e il
fiume
severo de l'Eumenidi e a la riva
senza cenno verrai? Non isperare
che i fati degli Dei pieghino a
prego.
Ma odi e nota, per conforto al
danno:
mossi i vicini da celesti segni
per le città tutto a l'intorno,
l'ossa
tue placheranno, le porranno in
tomba,
a la tomba faranno i riti, e il
luogo
eterno avrà di Palinuro il nome».
A questi detti si temprò
l'angoscia
e il duolo un tratto uscí dal
mesto cuore
di quella terra col suo nome gode.
Seguono dunque l'intrapresa via
accostandosi a l'acqua. Onde il
nocchiero
infernal non appena li ebbe scorti
movere verso il greto per la muta
selva il piede, si volge ad
assalirli
ed a rimproverar cosí: «Chiunque
sia tu che armato scendi al nostro
fiume,
dimmi di costí, dimmi a che ne
vieni,
e t'arresta. De l'ombre il luogo è
questo,
del sonno e de la notte soporosa:
non può vivi portar la stigia
barca.
Né davver mi allegrai d'avere accolto
Alcíde al passo, e non Tèseo e
Pirítoo,
benché figli di numi e forti eroi:
gettò quegli il guinzaglio al
guardïano
tartareo, il trasse tremante dal
soglio
stesso del re; rapir tentaron
questi
dal talamo di Dite la regina».
Breve rispose a ciò l'anfrisia
vate:
«Non tali insidie qui, lascia gli
sdegni,
né fanno forza l'armi. Il gran
portiere
latri eterno da l'antro ed
atterrisca
l'ombre esangui; Proserpina le
soglie
invïolata de lo zio possegga.
Enea troiano, il valoroso e pio,
scende a veder tra l'ombre ultime
il padre.
Se di simil pietà poco è la vista,
e tu conosci questo ramo!» E il
trae
da la veste. Quel cuor gonfio da
l'ira
si posa allor; non piú parole: ei
guata
il sacro dono del fatal virgulto,
qual gli apparia dopo gran tempo,
e volge
verso la riva la sua bruna prora.
Poi l'altre anime caccia che
sedeano
pe' lunghi banchi, libera la
tolda,
e ne la chiglia il grande Enea
riceve:
cigolò sotto il peso la contesta
carena e molto bevve del padule
per gli spiragli: al fin di là dal
fiume
sicuri espone la veggente e il
prode
su lo squallido fango e l'ulva
bigia.
Cerbero immane questi regni
introna
con latrato trifauce, in un covile
là di faccia sdraiato. A lui, che
vede
tutto arruffar già di serpenti il
collo,
getta la vate un'offa soporosa
di miele e lavorate farine. Esso
tre gole aprendo con rabbiosa fame
l'acceffa in aria e l'ampio dorso
allenta
distendendosi enorme in tutto
l'antro.
Sepolto il guardïano, occupa Enea
le soglie e passa rapido la sponda
di quell'acqua che piú non si
rivarca.
Quivi si udiron voci e un gran
vagire
e degl'infanti l'anime piangenti
su l'entrar primo, cui nuovi a la
dolce
vita strappò da la mammella il
nero
giorno ed in morte acerba li
sommerse.
Presso a loro i dannati per
ingiusta
accusa e spenti. Né già sono i
luoghi
senza sorteggio e giudice
assegnati:
indagator Minosse l'urna move,
esso la turba de' tacenti aduna
e vite e colpe apprende. Indi
vicine
i mesti hanno lor sedi che
illibati
si diedero la morte e fecer getto
de l'anima per odio de la luce.
Come or vorrian ne l'aëre superno
la povertà soffrire ed i travagli!
I decreti si oppongono e con
l'onda
li lega l'inamabile palude
e nove volte li ravvolge Stige.
Né lontano di lí s'aprono in ogni
parte i campi del pianto: han
questo nome.
I riposti sentieri accolgono ivi
quei che struggea miseramente
amore
e una selva di mirti li protegge:
li accompagna l'affanno ancora in
morte.
Quivi discerne Fedra e Procri e
mesta
Erífile che mostra le ferite
del crudel figlio ed Evadne e
Pasifae;
e va con lor Laödamía, va Cèneo,
un dí garzone, or femmina e di
nuovo
resa per fato ne la forma prima.
Fresca de la ferita in mezzo a
quelle
la fenicia Didone errava per la
gran selva. Come prima il teucro eroe
le fu presso e per l'ombre la
conobbe
oscura, quale alcun vede la luna
o si crede vederla al novo mese
sorger tra nubi, non contenne il
pianto
e con tenero amor le si rivolse:
«Infelice Didone, annunzio vero
dunque mi giunse ch'eri morta e
corsa
di tua mano a la fine! Ah fui
cagione
de la tua morte! Per le stelle
giuro,
per i Celesti, o se altro
giuramento
nel cupo mondo vale, io di mal
cuore,
o regina, dal tuo lido partii.
Ma i voleri de' Numi ed i lor
cenni
mi sospinsero, come or per
quest'ombre
e lo squallore de la notte
immensa:
né credere io potea col mio
partire
darti tanto dolore. Arresta il
passo,
e non sottrarti al guardo mio. Chi
fuggi?
l'ultima volta che ti parlo è
questa».
Con tali detti Enea l'ardente cuore
leniva e bieco riguardante, e al
pianto
l'inteneriva: quella a terra fissi
gli occhi teneva in altra parte
volta,
né piú si muta a quel parlar nel
viso
che se aspra selce o sia marpesia
punta.
Alfin via si spiccò, sparve nemica
tra l'ombrifera selva ove lo sposo
primo a l'affetto suo Sicheo
risponde
e la eguaglia d'amor.
Ma pur pensoso
del duro caso Enea lungi la segue
col pianto e la commisera
fuggente.
Indi segue il fatal vïaggio. E
omai
ne' campi erano estremi ove
appartati
gl'incliti in guerra si radunano.
Ivi
Tídeo gli viene incontro e il
prode in armi
Partenopeo, la pallida sembianza
di Adrasto insiem, ivi i compianti
al mondo
Dardanidi caduti ne la guerra.
Sospirò nel guardarli in lunga schiera
tutti, Glauco e Tersíloco e
Medonte,
d'Antènore i tre figli e Polibéte
sacro a Cerere, e Idèo che ancora
il carro,
ancora l'armi ritenea. Frequenti
gli son l'anime intorno a destra e
a manca,
né averlo visto è assai, piace
indugiare
e andar di pari e chiedere a che
venga.
Ma i principi de' Danai e le
falangi
agamennonie come vider prima
l'eroe per l'ombra e l'armi luminose,
a smarrirsi di subita paura,
chi volto in fuga come un dí a le
navi
e chi levando una voce sottile,
ma il grido manca tra le labbra
schiuse.
E vide là con la persona a brani
Deífobo di Priamo, crudelmente
mutilo il viso, il viso e le due
mani,
devastate le tempie senza orecchi,
e tronco il naso con deforme
piaga.
Sí che a stento il conobbe
vergognoso
che tentava celar suo reo
supplizio,
e gli si volse con la nota voce:
«Valoroso Deífobo, progenie
del gran sangue di Teucro, e chi
mai volle,
chi poté far di te simile strazio?
La fama mi recò che ne l'estrema
notte tu stanco de' Pelasghi
uccisi
cadevi in mucchio di confusa
strage.
Su la proda retèa tumulo vuoto
allor ti eressi ed a gran voce i
Mani
chiamai tre volte; là son l'armi e
il nome:
ma te, amico, non potei vedere
né in terren patrio sul partir
comporre».
Il Priàmide a ciò: «Tu non
lasciasti,
amico, nulla, tu rendesti tutto
a Deífobo e a l'ombra del suo
frale.
Ma i fati miei ed il delitto
atroce
de la Spartana m'han ridotto a
questo
orrore, questi segni ella
m'impresse.
Come l'ultima notte in falsa gioia
passammo, sai; ben ricordarlo è
forza.
Quando il fatal cavallo col suo
salto
fu di Pergamo in vetta e pregno
espose
gli armati fanti, ella fingendo un
coro
chiamò le frigie a l'evoè de
l'orgia;
teneva essa nel mezzo una gran
fiamma
e i Danäi da l'arce alta chiamava.
Da le fatiche me vinto e dal sonno
ebbe l'infausto talamo, e
m'avvolse
abbandonato una dolce quïete,
a la placida morte somigliante.
L'egregia moglie tutte l'armi
intanto
leva di casa, e avea dal capezzale
sottratta la fedel mia spada; e
chiama
Menelao spalancandogli l'entrare,
sicura già che ciò sarebbe pegno
prezïoso a l'amante e avrebbe
forse
spento il ricordo de l'oltraggio
antico.
A che m'indugio? Invadono la
stanza;
gli vien compagno, consiglier
d'infamia,
l'Eolide. Innovate, o Dei, lo
scempio
pei Greci! se con pia bocca il
richiedo.
Ma quali casi te, dimmi a vicenda,
qui vivo abbiano addotto. Per
errori
vieni del mar o per divin consiglio?
e in quale angustia sei, da
visitare
le tristi senza sol pallide
case?».
Tra gli alterni parlari avea
l'Aurora
de l'etereo sentier varcato il
mezzo
con le rosee quadrighe, e forse tutta
spendevano cosí l'ora concessa,
ma la duce ammoní, ma la Sibilla
breve parlò: «La notte appressa,
Enea,
e noi passiamo lagrimando il
tempo.
Il luogo è qui che in due la via
si parte:
la destra che del gran Dite
s'affretta
a la città, per questa è il nostro
elisio
vïaggio; la sinistra de' malvagi
le pene adempie e al reo Tartaro
adduce».
Deífobo a l'incontro: «Sii pietosa,
o gran sacerdotessa; andrò, la
schiera
rifarò piena e tornerò nel buio.
Va', gloria nostra, va', con
miglior fato».
Tanto disse, e tra 'l dir si volse
indietro.
Enea riguarda e d'improvviso vede
gran città sotto una rupe a
sinistra,
cerchiata di tre mura, e intorno
fiume
fiammeggiante il tartareo
Flegetonte
e travolgente romorosi massi.
In faccia è una gran porta e tutto
acciaio
colonne cui schiantar non forza
d'uomo
né potrebbe de' Superi la guerra.
Ferrea una torre sorge in alto, e
assisa
Tisífone con manto sanguinoso
al vestibolo veglia e notte e
giorno.
Indi sospiri e suon d'aspre
percosse
e strider ferro e strascicar
catene
s'udia. Ristette sbigottito Enea
in orecchi a lo strepito. «Che
colpe
sono? o vergine, parla: e di che
pene
soffrono? qual tumulto è che si
leva?».
E cosí prese a dir la profetessa:
«Duce inclito de' Teucri, a nessun
pio
dato è calcar la scellerata
soglia:
pur, quando mi prepose a' boschi
averni,
Ecate stessa mi mostrò le pene
divine e le mi fe' percorrer
tutte.
Radamanto di Cnoso ha questi regni
durissimi: ei condanna, ode le
colpe,
e sforza a quelle rivelar che,
lieto
altri d'un vano eludere, produsse
a l'ora de la morte inespïate.
Subitamente armata di flagello
balza a ghermire i rei la
punitrice
Tisífone e, protesi con la manca
i torvi serpi, chiama le sorelle.
Allor su l'aspro cardine stridenti
s'apron le porte maledette. Vedi
qual guardia è su l'entrare e in
quale aspetto?
Dentro dimora piú crudele, enorme
con le cinquanta nere gole,
l'Idra.
Viene il Tartaro alfin che si
sprofonda
tanto due volte, quanto sale il
guardo
fino a la faccia del celeste
Olimpo.
Là, de la Terra antico parto, a
l'imo
son gettati i Titani fulminati;
i due Aloídi là vidi giganti
che alzâr le mani a lacerare il
cielo,
a cacciar Giove da' superni regni.
Anche Salmonèo vidi che l'acerba
pena pagò, mentre di Giove i
fuochi
iva imitando e i fremiti d'Olimpo.
Ei con quattro cavalli ed
isquassando
una fiaccola via pe 'l suol de'
Grai
e la città ch'è a l'Elide nel
mezzo
trïonfava e adorato esser voleva:
stolto, che i nembi contraffare e
il fulmine
osò non imitabile co 'l bronzo
e lo sfrenato scalpito sonante.
Ma il Padre onnipotente di tra i
folti
nuvoli il dardo gli avventò, non
faci
già né baglior di fumiganti tede,
e lo travolse vorticoso a l'imo.
Tizio del pari si vedeva, figlio
de la Terra comun madre, disteso
per nove interi iugeri le membra:
grande avvoltoio con l'adunco
rostro
morsecchiandogli il fegato
immortale
e le viscere fertili a le pene
adocchia il pasto e gli abita
entro il petto,
né a le fibre rinate è tregua mai.
A che parlar de' Làpiti, d'Issíone
e di Pirítoo, sopra i quali
penzola
un macigno caduco e par che cada?
Risplendono aurei piè di genïali
alti letti e imbandite avanti agli
occhi
vivande con regal magnificenza,
ma la Furia maggior s'acquatta
presso
e le mani accostar vieta a le
mense
e con la face levasi e con l'urlo.
Quivi color che in vita ebbero in
odio
i lor fratelli o percossero il
padre
o frode ordirono al cliente o soli
il tesoro abbracciarono adunato
senza a' suoi farne parte (e piú
son questi)
o furon morti in adulterio od armi
seguitarono ingiuste e de' signori
la fede vïolarono, prigioni
aspettano la pena. Oh! non cercare
saper qual pena, o qual norma e
fortuna
sommerse in pianto le misere
genti.
Voltano altri un gran sasso, o
stretti a' raggi
pendon di ruote: siede l'infelice
Teseo e in eterno sederà; per
l'ombre
Flegia sventuratissimo a gran voce
grida a tutti: – Imparate da
l'esempio
seguir giustizia e non spregiar
gli Dei –.
Vendé per oro altri la patria e
fiero
signor le impose, fe' leggi e
disfece
a prezzo; assalse de la figlia il
talamo
altri e vietate nozze; ardiron
tutti
nefanda colpa e fu l'ardir
compiuto.
Se cento lingue in cento bocche
avessi
e ferrea voce, non potrei le forme
tutte abbracciare de' misfatti,
tutte
ad una ad una nominar le pene».
Poi che di Febo la ministra annosa
ebbe detto cosí, «Su via,
soggiunge,
il cammino e il proposito
compisci.
Affrettiam. Fatte a' fuochi de'
Ciclòpi
veggo le mura e l'arco de la porta
ov'è prescritto a noi di porre il
dono».
Aveva detto e pe' sentieri opachi
superano di pari l'intervallo
fino a la soglia. Vi s'accosta
Enea,
ad un'acqua corrente si deterge
e davanti a la porta il ramo
affigge.
Ciò fatto alfin, resa a la Dea
l'offerta,
giunsero a' luoghi lieti ed agli
ameni
verzieri de le selve fortunate
e a le sedi felici. Un ciel piú
largo
qui veste i campi di purpurea
luce;
mirano un loro sole e loro stelle.
Ne l'erbose palestre esercitarsi
parte gode e lottare in fulva
arena,
parte co' piè batte le danze e
canta.
Anch'esso il Tracio sacerdote in
lunga
veste a la melodia tempera il
vario
suon de le sette voci, or con le
dita
toccandole or col pettine
d'avorio.
Quivi è di Teucro la progenie
antica,
splendidi figli, generosi eroi,
a miglior tempo nati, e Ilo e
Assàraco
e Dardano progenitor di Troia.
L'arme in disparte e i vuoti carri
mira;
l'arme son fitte a terra, e
sciolti e vaghi
pascolano i cavalli per il prato.
L'amor ch'ebbero vivi a' carri e a
l'armi,
l'uso di pascer fulgidi cavalli,
li accompagna cosí dopo il
sepolcro.
Ecco a destra e a sinistra ne
discerne
a banchettar tra 'l verde altri o
cantare
in coro giocondissimo peana
tra l'odorosa selva degli allori,
onde di sopra immenso in mezzo a
selve
il fiume de l'Erídano si volve.
Ivi la schiera che patí ferite
pugnando per la patria, e i
sacerdoti
che vissero illibati, e i vati
buoni
che parole dicean degne di Febo,
o quelli che abbellirono la vita
trovando l'arti, e quei che per
ben fare
lasciarono di sé memori gli altri;
tutti una nivea benda hanno a la
fronte.
A lor dintorno sparsi la Sibilla
cosí si volse ed a Museo su tutti
(ché intorno a lui è un popolo e
il sogguarda
emergente con gli alti òmeri):
«Dite,
felici anime, dinne, ottimo vate:
Anchise ov'è? Qual regïon
l'accoglie?
Per lui venimmo e traversammo i
fiumi
paurosi de l'Erebo». L'eroe
breve cosí le rese la risposta:
«Nessuno ha luogo certo; abitiam
l'ombre
de' boschi e per i grembi de le
rive
andiamo e i prati freschi di
ruscelli.
Ma voi, se cosí porta in cuor
l'affetto,
questo giogo varcate, e dopo
questo
vi porrò per agevole sentiero».
Disse e davanti mosse il piede, e
i campi
luminosi da l'alto addita: quindi
abbandonano i vertici del colle.
Ma il padre Anchise in seno a la
convalle
verde le raccolte anime, che al
sole
dovean salire, con attenta cura
mirava e tutte andava rassegnando
de' suoi le schiere ed i nipoti
cari,
lor fati e lor fortune, indoli e
imprese.
Com'egli vide per i prati Enea
venirgli incontro, coralmente
stese
le due palme e gli corser per le
guance
le lagrime e dal labbro le parole:
«Venisti alfin, e la pietà che il
padre
da te si attese vinse il cammin
duro:
m'è concesso veder, figlio, il tuo
viso
e rinnovare i soliti colloqui.
Questo io credeva, questo ebbi per
certo
contando l'ore, né il mio cuor
m'illuse.
Per quante io terre te, per quanti
mari
corso ricevo! tra perigli quanti
sbattuto, o figlio! come fui
sgomento
che ti nocesse il regno de la
Libia!».
E quegli: «O padre, l'ombra tua,
la tua
ombra dolente col mostrarsi spesso
mi sforzò di venire a queste sedi.
Nel Tirreno è su l'ancore la
flotta.
Porgi deh padre, porgimi la mano
e non sottrarti da l'amplesso
mio».
Cosí diceva e l'inondava il
pianto.
Tre volte allor tentò de le sue
braccia
cingergli il collo, tre l'ombra
invan cinta
sfuggí le mani, pari a lievi venti
e similissima a un alato sogno.
Intanto Enea ne la riposta valle
vede in disparte un bosco e
susurranti
selvatici virgulti e il letèo
fiume
nuotare avanti a le placide case.
Volavano ivi intorno ombre
infinite:
e come quando a la serena estate
ne' prati in varii fior posano
l'api
od a candidi gigli errano intorno,
sembra tutto un ronzio quella
campagna.
A la súbita vista trasalisce
e le cose ricerca inconscio Enea,
quale fiume sia dunque e quali
genti
colmino sí molteplici le rive.
Il padre Anchise allor: «L'anime a
cui novelli corpi spettano per
fato
a la corrente bevono di Lete
tranquille linfe e lunghe
oblivïoni.
Ben queste a te narrar e offrirti
al guardo,
questa de' miei progenie
annoverarti
da gran tempo desio, sí che tu
meglio
goda con me de la raggiunta
Italia».
«O padre, e si dee credere che
alcuna
anima su da qui risalga a l'aure
e torni a' lenti corpi? oh le
infelici
qual provano del dí sí fiera
brama?»
«Io tel dirò, né ti terrò sospeso,
o figlio mio».
Cosí riprende Anchise
e rivela per ordine le cose.
«Primieramente il ciel, le terre,
i campi
fluidi e il lucente globo de la
luna
e il titanio astro entro uno
spirto nutre
e una mente pe' membri sparsa
avviva
tutta la mole e al gran corpo si
mesce.
La stirpe indi è degli uomini e
de' bruti,
le vite degli alati, e quanti
mostri
sotto il marmoreo piano il mar
produce.
Vivida una scintilla, una celeste
origine que' germi hanno, per
quanto
nocivo non li grava il corpo e
ottunde
terreno frale e moriture membra.
Di qui tema e desio, dolore e
gioia
in lor, né sanno piú scernere il
cielo
chiusi ne l'ombra di carcere
cieco.
E allora pur che con l'estremo
raggio
la vita li lasciò, non tutto il
male
per i miseri e non dileguan tutti
i corporëi vizi, ché profonda -
mente in copia ed a lungo
concresciuti
forza è che abbian mirabile
rigoglio.
Dunque sono da pene esercitati
e soddisfanno de' peccati antichi.
Sospese a la balía de' lievi venti
s'espongono talune anime, ad altre
sotto ad un vasto vortice
l'impressa
colpa si lava o la si brucia al
fuoco:
soffriam ciascuno l'ombra sua.
Siam quindi
avvïati per l'ampio Elisio, e
pochi
ne' lieti campi dimoriam, se prima
un lungo dí, pieno del tempo il
giro,
non tolse la contratta macchia e
puro
lascia il senso celeste e la
favilla
di quel semplice soffio. Tutte
queste,
poi che volser di mille anni la
ruota,
presso al fiume di Lete èvoca Iddio,
cosí che, fatte immemori, di nuovo
escan del cielo a riveder la volta
e rientrar s'invoglino ne' corpi».
Poi ch'ebbe detto, Anchise il suo
figliuolo
e la Sibilla insiem conduce in mezzo
de l'adunata risonante turba,
e sale un balzo, onde potesse
tutte
vedersi avanti quelle folte
schiere
e de' vegnenti ravvisare i volti.
«Su via, qual gloria a la dardania
stirpe
s'aspetti in avvenir, quali nepoti
da l'italico ceppo, anime chiare
che fioriranno un dí nel nostro
nome,
dirò, te de' tuoi fati
ammaestrando.
Quegli, il vedi, che giovine si
appoggia
a l'asta pura, tien per sorte il
luogo
piú prossimo a la luce e primo a
l'aure
misto uscirà d'italo sangue,
Silvio,
albano nome e tua tardiva prole,
che in selve a te longevo la
consorte
Lavinia produrrà, re di re padre,
onde la nostra schiatta su la
Lunga
Alba dominerà. Quel suo vicino
è Proca fregio de la teucra gente,
e Capi e Numitor e Silvio Enea
che nel nome ed insiem pietoso e
prode
rinnovellerà te, come riceva
lo scettro d'Alba. Quali
giovinezze!
e quanto, guarda, raggiano di
forza!
ombrati di civil quercia le
tempie.
Questi Nomento e Gabi e di Fidene
la città, questi l'arci collatine
ti porranno su' vertici e Pomezio
ed il Castello d'Inuo e Bola e
Cora,
allora nomi, or terre senza nome.
Indi si aggiungerà compagno a
l'avo
Romolo di Mavorte, e a lui del
sangue
di Assàraco Ilia sarà madre. Vedi
come sul capo eretti ha due
cimieri
e il padre già di deïtà lo
impronta?
Ecco, figliuol, che per gli
auspíci suoi
adeguerà quella famosa Roma
l'impero al mondo e l'animo a
l'Olimpo,
unica sette colli in sé
cerchiando,
fiera di forti genitrice: quale
innanzi vien la berecinta madre
per le frigie città turrita in
cocchio,
lieta del parto degli Dei, ben
cento
abbracciando nepoti e tuttiquanti
dominatori eterni de le sfere.
Or qua piega gli sguardi, a questa
gente
de' tuoi Romani. È qui Cesare e
tutta
la prosapia di Giulo, destinata
sotto l'ampia ad uscir volta del
cielo.
È questi, è l'uom che a te
promettere odi
sí spesso, Augusto Cesare,
germoglio
del Divo, che l'età de l'oro al
Lazio
rifarà per le terre un dí regnate
da Saturno, e dilaterà l'impero
sui Garamanti e gl'Indi: oltre le
stelle
giace la terra, oltre le vie de
l'anno
e del sol, ove regge aërio Atlante
su gli òmeri il girar degli astri
ardenti.
Per l'avvento di lui fin d'ora il
caspio
regno trema e il meotico paese
di responsi divini, e perturbate
del settemplice Nilo erran le
bocche.
Né Alcide in vero tanto mondo
corse,
benché ferí la cerva piè-di-bronzo
e tranquillò le selve d'Erimanto
e fe' tutta tremar Lerna con
l'arco,
né il trionfante Libero che volge
le redini di pampino guidando
da Nisa giú le apparigliate tigri.
E dubitiamo ancor di propagare
il valor con le imprese, o v'è
paura
che ci vieti posare in suol
d'Ausonia?
Ma là presso chi è, cinto de' rami
de l'olivo, che porta i sacri
arredi?
Conosco il crine ed il canuto
mento
del re romano che la città prima
con leggi fermerà, mandato al
soglio
da la piccola sua povera Curi.
Gli sottentrerà Tullo, e la quïete
scoterà de la patria, gli
allentati
cuori a l'armi movendo e le
falangi
già da' trionfi disavvezze. Il
segue
Anco piú baldanzoso e che già
troppo
mostra goder de l'aure popolari.
I re Tarquini e l'anima superba
vuoi pur vedere e del vendicatore
Bruto i recuperati fasci? Ei primo
di console l'impero e le severe
scuri riceverà; padre i figliuoli,
a nuova guerra intesi, per la
bella
libertà chiamerà sotto la pena.
Infelice! per quanto i discendenti
l'ammireranno: vincerà l'amore
di patria e l'infinito ardor di
gloria.
I Deci e i Drusi ancor discosto
guarda
e Torquato severo per la scure
e Camillo tornante co' vessilli.
Quelle due poi che in eguali arme
vedi
splendere ora concordi anime a
l'ombra,
oh qual tra loro dolorosa guerra,
sórte che siano al lume de la
vita,
quante susciteranno e schiere e
stragi,
da' varchi alpini il suocero e da
l'arci
di Monèco scendendo, e fatto forte
il genero d'opposti orïentali!
No, figli, il cuor non avvezzate a
guerre
sí fiere, e non volgete il bel
vigore
contro il sen de la patria. E tu
deh! primo
cessa, che da l'Olimpo origin
prendi,
tu getta l'armi, sangue mio!
Quei spingerà su l'alto
Campidoglio
vincitor di Corinto la quadriga,
insigne per gli spenti Achivi.
Quegli
Argo e Micene agamennonia e
anch'esso
abbatterà l'Eacide disceso
dal fortissimo Achille, vendicando
gli avi di Troia e il tempio di
Minerva.
E in silenzio chi te, grande
Catone,
o lascerebbe te, Cosso? o di
Gracco
la prole, o i due, due fulmini di
guerra,
Scipíadi, strage de la Libia, o il
forte
in povertà Fabrizio, o te,
Serrano,
che semini il tuo solco? Ove me
stanco,
Fabii, traete? Il Massimo tu sei,
solo che a noi tardando salvi
Roma.
Foggeranno altri gli spiranti
bronzi
con piú mollezza, il credo,
trarran vivi
dal marmo i volti; a perorar le
cause
migliori, a disegnar con verga il
corso
degli astri, a dire il sorger de le
stelle:
tu con l'impero i popoli governa,
Romano, queste saran l'arti tue,
ed a la pace norma dà, clemenza
ai sommessi e sterminio dei
superbi».
Cosí diceva Anchise, e agli
ammiranti
soggiunge: «Vedi come vien
Marcello
superbo de le spoglie opime e a
tutti
vincitore sovrasta. In gran
fortuna
ei terrà salde le romane cose,
prostrerà cavalcando i Peni e il
Gallo
ribelle, ed a Quirino padre il
terzo
da' suoi nemici appenderà trofeo».
Allora Enea (ché gli vedeva
insieme
un giovin bello di sembianza e
d'armi,
ma con la fronte scura e gli occhi
bassi)
«Padre, e quegli chi è che sí
accompagna
l'eroe? suo figlio o alcun de
l'alta gesta
de' nipoti? Qual premer di seguaci
intorno gli è! quanta grandezza in
lui!
Ma triste notte gli ravvolge il
capo».
Il padre Anchise allor con
lagrimose
ciglia «Oh, dice, figliuol, non
domandare
un cordoglio acerbissimo de' tuoi.
I fati al mondo il mostreranno
solo
e piú nol patiranno vivo. Troppo
forte a voi parve la romana
stirpe,
o Celesti, se fermo avea tal dono.
Quanti sospiri d'uomini quel Campo
spargerà ne la gran città di
Marte!
e quale funeral, Tebro, vedrai
oltrescorrendo al tumulo recente!
Non giovinetto de l'iliaca gente
a sí alto sperar leverà gli avi
latini, né già mai d'altro
germoglio
avrà tal vanto la romulea terra.
Oh sua pietà! sua fede antica! e
invitta
destra a la guerra! Impunemente a
lui
non si sarebbe offerto in armi
alcuno,
sia che pedone entrasse in campo,
o sia
che a spumoso destrier pungesse i
fianchi.
Ahi! misero fanciullo, ove tu
possa
sforzare i fati, tu sarai
Marcello.
Lasciatemi che gigli a piene mani,
purpurei fiori, sparga, e almen di
questo
nembo l'anima avvolga del nipote,
con inane tributo».
Cosí vanno
per quella intorno regïon ne'
vasti
campi de l'aria e passano ogni
cosa.
Poi che Anchise per tutto addusse
il figlio
e l'animo gli accese de l'amore
de la sorgente fama, indi le
guerre
che avrà gli narra, il popolo
laurente
e la città gli mostra di Latino,
e come ogni cimento o sfugga o
sfidi.
Sono del Sonno due le porte, l'una
è, dicono, di corno, onde si dona
agevole a le vere ombre l'uscita,
lucida l'altra e candida di
avorio,
ma falsi al ciel ne invia sogni l'Averno.
Poi ch'ebbe allor tali discorsi
Anchise
al figlio vòlti e a la Sibilla, e
fuori
messili per l'eburnea porta,
quegli
a le navi s'affretta e a' suoi si
rende.
Poi, costeggiando, al porto di
Gaeta
dirige il solco: l'àncora da prora
si getta in mar; stanno le poppe a
riva.
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