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Eneide

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  • LIBRO SESTO
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LIBRO SESTO

 

Cosí dice piangendo e le briglie

a la flotta, ed alfin tocca l'euboiche

spiagge di Cuma. Voltano le prore

a l'alto mar, poi l'ancora col dente

tenace assicurava al fondo i legni;

le curve poppe fanno siepe a riva.

Balzano ardenti i giovani sul lido

esperio; e chi sprizzar fa la scintilla

ascosa entro la selce, e chi percorre,

folte dimore de le fiere, i boschi

e i corsi addita de' trovati fiumi.

Ma il pio Enea le vette, cui presiede

l'alto Apollo, ricerca ed il riposto

asilo, immensa grotta, de l'augusta

Sibilla, a la qual dona il Delio vate

larghezza e fiamma d'ispirata mente

e le apre l'avvenir. Quelli già sono

sotto il bosco di Trivia e a l'aureo tetto.

Dedalo, è fama, Minos re fuggendo,

oso fidarsi al ciel su preste penne,

nuotò per novo solco a le fredde Orse

e su l'arce calcidica leggiero

a la fin si librò. Qui reso a terra,

a te de l'ali consacrò il remeggio,

o Febo, e vasto ti costrusse il tempio.

Su la porta è d'Andrògëo la morte,

i Cecròpidi poi sforzati a darne

in pena ohimè! sette figliuoli ogni anno:

ecco l'urna onde uscirono le sorti.

Di contro alta sul mar la cnosia terra

risponde: ivi .....................................

..........................................................

mista biforme prole il Minotauro,........

.............................................................

ivi quel faticoso avvolgimento

di casa; unico Dedalo risolse,

pietoso al grande amor de la regina,

gl'inganni inestricabili, d'un filo

le cieche orme reggendo. E tu gran parte

in cosí gran lavoro, Icaro, avresti,

se il dolor permetteva: i casi tuoi

tentò due volte effigïar ne l'oro,

due volte cadder le paterne mani.

A tutto seguitando avrebbe volti

gli sguardi suoi, se, già mandato innanzi,

Acate non mostravasi e con lui

di Febo e Trivia la sacerdotessa,

Deífobe di Glauco. Ella al re dice:

«Non vuol tali spettacoli quest'ora.

Meglio sarà sette giovenchi offrire

da intatto armento, e tante giusta il rito

scelte bidenti». Cosí detto a Enea,

(né tardano essi al sacro cenno) i Teucri

chiama al gran tempio la sacerdotessa.

È l'ampio fianco de l'euboica rupe

cavato in antro, e cento larghe entrate

v'adducon, cento porte, escono a cento,

de la Sibilla oracoli, le voci.

S'era giunti a le soglie, ed essa esclama

la vergine: «Tempo è di domandare

i fati; ecco, ecco il dio!».

Tra questo dire,

sul limitar, d'un tratto, non eguale

né il volto né il color né le rimase

composto il crin, ma di furor si gonfia

il petto ansante ed il selvaggio cuore:

par piú grandevoce ha di mortale,

tocca dal soffio già del dio che viene.

«Sei lento a' voti ed a le preci, esclama,

o teucro Enea, sei lento? E pur non prima

si schiuderan de l'ispirata casa

le grandi bocche». Cosí detto, tacque.

Freddo un brivido corse a' Teucri per le

dure ossa, e il re cosí prega dal cuore:

«Febo, pio sempre al gran dolor di Troia,

che il dardano di Paride reggesti

strale contro l'Eacide e la mano,

per tanti mari a grandi terre opposti

entrai, te duce, e ne' profondi seni

de' Massíli e al suol cinto da le Sirti:

pure una volta raggiungiam le sponde

de l'Italia fuggente, oh fin qui noi

la troiana fortuna abbia seguiti!

Voi pure omai a la pergàmea gente

vi potete placar, Dei tutti e Dee

cui dispiacque Ilio e la superba gloria

de la Troade. E tu, divina vate,

presaga d'avvenir, dammi (non chiedo

regno indebito a' fati miei) che i Teucri

si posino nel Lazio e le vaganti
perseguitate deità di Troia.

A Febo e a Trivia allor tutto di marmo

un tempio e feste ordinerò dal nome

di Febo. Ampio te pur sacrario aspetta

ne' regni nostri: ivi porrò tue sorti

e gli arcani destini a la mia gente

svelati; e scelti avrai ministri, o santa.

Sol non fidare a foglie i tuoi presagi,

che non volin confusi in preda al vento:

prego che parli tu».

Qui chiuse il labbro.

Ma non di Febo tollerante ancora

la profetessa erra per l'antro a furia,

se possa il grande iddio scoter dal seno:

quello viepiú, l'acerbo cuor domando,

preme la indocil bocca e al fren la piega.

E de la casa omai le cento grandi

porte si spalancarono spontanee

e diffusero a l'aure il vaticinio:

«O uscito alfin dai gran rischi del mare

– ma restano piú gravi in terra –, i Teucri

al regno di Lavinio giungeranno,

sgombra il dubbio dal cuor, – ma vorranno anche

non esser giunti. Guerre, orrende guerre

vedo e il Tebro spumar di molto sangue.

Non SímoïXanto a te né l'oste

dorica verrà meno: un altro Achille

già nato è al Lazio, anch'ei figliuol di dea,

né contro a' Teucri mancherà mai Giuno,

mentre supplice tu ne la strettezza

quali non genti implorerai d'Italia,

quali città? Causa di tanto danno

una sposa di nuovo ospite a' Teucri,

di nuovo uno stranier talamo.

Tu non cedere a' mali, anzi piú fiero

li affronta, per la via che tua fortuna

ti darà. Primo t'apparecchia scampo

una città, certo nol pensi, greca».

Con tali detti la cumèa Sibilla

da l'antro sacro fiere ambagi intuona

e rugge, d'ombre ravvolgendo il vero:

cosí scote le briglie a la fremente

e con gli sproni entro la punge Apollo.

Quando allentò il furore e la schiumosa

bocca fu cheta, prende a dir l'eroe:

«Nuova, o vergine, a me né inaspettata

faccia non è di mali alcuna: tutti

li pregustai, li consumai nel cuore.

Prego sol: poi che qui dicon la porta

del rege inferno e la palude buia

cui riversa Acheronte, a me sia dato

a la presenza andar del padre mio:

la via m'insegna, il sacro adito m'apri.

Lui tra le fiamme e l'incalzar de l'armi

sottrassi su questi omeri e salvai

da la mischia: compagno al mio viaggio

tutti i mari con me, tutte durava

le minacce del pelago e del cielo,

pur lasso, oltre le forze e la fortuna

de la vecchiezza. E ben fu desso a farmi

prego e cenno che a te, che a le tue soglie

supplice mi rendessi. Or del figliuolo

e del padre pietà deh! abbi, o alma,

ché tutto puoi, e non inutilmente

Ecate ti prepose a' boschi averni.

Se Orfeo col suono de le tracie corde

richiamar poté l'ombra de la sposa,

se Polluce il fratel con morte alterna

redense e va e vien per quella via

debbo il gran Téseo ricordarti o Alcide? –,

sono disceso anch'io dal sommo Giove».

Con tali detti orava e stringea l'are,

quando riprese a dir la profetessa:

«Divin sangue, Anchisíade troiano,

facile è la discesa de l'Averno;

e notte il fosco Dite ha porta schiusa:

ma il piè ritrarre e risalire al sole,

questa è l'impresa e la fatica. Pochi,

cui benigno amò Giove e acceso ardire

a le stelle levò, nati da numi,

il poterono. In mezzo è tutto selve,

e Cocíto fluendo le circonda

del grembo cupo. Ma se tanto affetto,

se hai tanto ardore di nuotar due volte

lo stigio lago, di veder due volte

il Tartaro, e a la folle opera inclini,

odi le cose da compirsi avanti.

Si cela in un ombroso albero un ramo,

d'oro le foglie e la flessibil fronda,

a la Giunone inferna consacrato:

tutta la selva gli fa velo e l'ombre

l'avvolgono nel rezzo de le valli.

Ma vietati i segreti di sotterra

sono a chiunque non ha colto prima

da l'albero l'aurícomo germoglio.

Questo come tributo suo la bella

Prosèrpina ordinò che le si rechi.

Spiccato l'un, non manca l'altro, d'oro,

e di metallo egual nasce virgulto.

Dunque in alto ricercalo con gli occhi

e ritrovato con la man lo spicca:

la seguirà da sé docile e pronto

se i destini ti chiamano, altrimenti

vincerlo non potrai per forza alcuna

schiantarlo col duro ferro.

Inoltre

ti giace (ah tu nol sai!) morto un amico

e di morte contamina la flotta

intiera, mentre tu sospeso chiedi

responsi a queste soglie. Al suo riposo

lui rendi avanti e lo raccogli in tomba.

Nere pecore adduci a prima offerta.

Solo allora vedrai di Stige i boschi

e il regno inaccessibile a' viventi».

Disse, e le labbra taciturna chiuse.

Enea col volto mesto e fisso il guardo

si parte da la grotta e volge in cuore

gli ascosi eventi. Il fido Acate è seco

tra simili pensier l'orme segnando.

Di tante cose discorrean tra loro:

qual dicesse la vate amico estinto

ed insepolto. E videro Miseno,

come fûr presso, su l'asciutto lido,

di morte immeritevole finito,

l'eolide Miseno, onde non altri

piú valse a scoter con la tromba i prodi

e ad infiammar squillando la battaglia.

Era stato al grand'Ettore compagno

e ad Ettore vicino entrava in guerra

segnalato pel litüo e la lancia.

Poscia che Achille vincitor spogliava

quello di vita, del dardanio Enea

il fortissimo eroe si pose a fianco,

seguace a non minor virtú. Ma intanto

che con sua cava conca introna il mare,

folle, e squillando chiama in gara i divi,

un rivale Triton che gli fu sopra,

se credere si vuol, tra le scogliere

l'avea ne la spumosa onda sommerso.

Dunque tutti fremevano d'intorno

in gran compianto, e il pio Enea su tutti.

Nessuno indugio, affrettano piangendo

de la Sibilla gli ordini, e di tronchi

formano a prova l'ara del sepolcro

eretto al ciel. Si va ne la foresta

annosa, antri profondi de le fiere:

precipitan le picëe, percosse

suonan da scuri l'elci; ficcan cunei

ne' frassini alti e ne le scisse roveri

e rotolano grandi orni da' monti.

Anch'esso Enea tra tali opere primo

esorta i suoi d'eguali armi fornito.

E col triste cuor suo ragiona intanto,

guardando la foresta immensa, e viene

augurando cosí: «Se ora quell'aureo

ramo da l'albero apparisse a noi

in tanta selva! Poi che ver purtroppo

di te parlò, Miseno, la veggente!».

Appena detto avea, che due colombe

sotto gli occhi di lui venian volando

dal cielo e sceser giú sul verde suolo.

Riconosce il sovrano eroe gli alati

materni e lieto prega: «Oh siate guide,

se via c'è; dirigetemi per l'aria

ne' boschi ove fa ombra il ricco ramo

al suol ferace. E tu ne l'ora incerta

non mi mancar, divina madre». E stette,

mirando qual dien segno, ove sien volte.

E quelle ad avanzarsi pascolando

a voli che seguir potesse il guardo.

Giunte a la bocca fetida d'Averno,

si sollevano rapide e, calando

per l'aër lieve, al desïato luogo

posan sul duplice albero, dal quale

varia fulse tra' rami un'aura d'oro.

Qual suole ne le selve al freddo tempo

il vischio verdeggiar di fronda nova,

cui non la pianta germina, e de' flavi

germogli circuir gli agili tronchi;

era tale a veder su l'elce bruna

quell'oro frondeggiar, tale il virgulto

al molle vento susurrava. Enea

l'afferra avido e spicca dal suo nodo

e a la veggente vergine lo reca.

Non meno intanto su la riva i Teucri

piangevano Miseno ed a l'infausta

salma rendean l'esequie. Una gran pira

di pingue pino e rovere segata

costrusser prima; d'atre fronde i lati

le intrecciano, le pongono davanti

il cipresso funerëo, e di sopra

la fregiano de l'armi luminose.

Parte i caldi lavacri appresta e i rami

gorgoglianti a la vampa, e lui gelato

lavano ed ungono. Il compianto sorge:

adagian poi le membra piante e sopra

gettano le purpuree vesti note.

S'accostarono al gran feretro alcuni,

mesto ufficio, e le faci a mo' de' padri

vi tenner sotto con la faccia volta.

Insiem s'ardono i doni de l'incenso,

le vivande e pioventi olio i crateri.

Cadute poi le ceneri, la fiamma

finita, i resti e le suggenti brage

aspersero di vino e l'ossa accolte

Corinèo chiuse in una urna di bronzo.

Esso tre volte va con l'acqua pura

intorno per gli astanti leggermente

rorandoli d'un ramo del benigno

ulivo e cosí tutti ebbe lustrati

e disse le novissime parole.

Ma il pio Enea di gran mole un sepolcro

sovrappone a quel prode e l'armi sue

e remo e tromba ne l'aërio monte,

che Miseno da quello oggi si chiama

e il nome per i secoli propaga.

Appresso poi sollecito i precetti

compie de la Sibilla. Una spelonca

profonda fu che spaventosa s'apre,

scogliosa; la difendono il padule

nero e la tenebría de le foreste,

su la qual non potevano gli uccelli

stendere il volo impunemente, tale

fiato si esala da la tetra gola

[onde dissero il luogo Aorno i Grai].

Quattro giovenchi da le terga nere

prima vi trae la sacerdote, in fronte

lor versa il vino, tra le corna a sommo

un ciuffo strappa e, ritüal primizia,

getta a' bracieri, alto Ècate, invocando

e nel cielo e ne l'Erebo possente.

Altri i coltelli sottopone e il caldo

sangue riceve ne le tazze. Enea

con la spada un'agnella d'atro vello

immola de l'Eumenidi a la madre

e a la sua gran sorella, ed una vacca

sterile a te, Prosèrpina. I notturni

riti a lo stigio re quindi principia

e intere ammucchia viscere di tori

sopra le fiamme, le ferventi fibre

di pingue olio spargendo.

Ed ecco, presso

al nascente chiaror del primo sole,

muggir la terra sotto i piè, le vette

cominciare a crollarsi de le selve,

e per l'ombra ulular parver le cagne

appressando la dea. «Lungi, profani!

lungi di qui!» la profetessa grida,

«e tenetevi fuor da tutto il bosco.

E tu invadi la via, snuda la spada:

qui si vuol cuore, Enea, qui petto saldo».

Detto cosí, si mise furïosa

per l'antro aperto, e a la sua duce mossa

quei con securo piè move di pari.

Dèi che avete de l'anime l'impero,

e ombre mute e Caos e Flegetonte,

luoghi per la notte ampia taciturni,

dir mi sia dato quel che udii, sia dato

col voler vostro rivelar le cose

sotterra ne la tenebra sepolte.

Andavan sotto la solinga notte

scuri per l'ombra e per le case vacue

di Dite e i vani regni: era un andare

qual per l'incerta luna a luce scarsa

ne' boschi, quando Giove ha chiuso il cielo

nel buio e l'atra notte ha il color tolto

a le cose.

Al vestibolo davanti,

su la bocca de l'Orco prima prima,

l'Affanno e le vendicatrici Angosce

posero lor covil, v'hanno dimora

pallidi i Morbi e infausta la Vecchiezza

e la Paura e mala consigliera

la Fame e l'Indigenza ontosa, orrori

a vedere, e la Morte e la Miseria,

e, fratel de la Morte, evvi il Sopore

ed i Piaceri de la mente falsi;

e su la soglia la Guerra omicida

e i ferrei de l'Eumenidi giacigli

e la Discordia pazza avvolta in bende

sanguinose le chiome viperine.

Nel mezzo i rami e le vetuste braccia

un olmo stende fosco, grande, e in quello

esser si dice a torme i Sogni vani,

che piú d'un ve n'ha sott'ogni foglia.

Molti altri mostri di diverse fiere,

i Centauri s'installano a le porte

e le Scille biformi e Briareo

centímano e la belva sibilante

di Lerna e la Chimera irta di fiamme,

le Górgoni, le Arpie, l'uom dai tre corpi.

Sobbalzando di subito spavento,

qui stringe Enea la spada ed a' vegnenti

drizza la punta: e se la savia duce

non l'ammonisse che le sono esíli

incorporee vite vagolanti

che paiono persona, irromperebbe

a percotere invan l'ombre col ferro.

Di qui la via che mena a le tartaree

acque de l'Acheronte. Pien di melma

bolle con vasto vortice quel flutto

e la molta in Cocito arena erutta.

Spaventoso nocchier tien la riviera

Caronte, d'un'orrenda squallidezza,

cui larga invade irta canizie il mento,

s'apron gli occhi di fiamma, e da le spalle

pende annodato lurido mantello.

Esso regge a la barca e remo e vela;

su la ferrigna chiglia i corpi porta,

vecchio, ma cruda ha il dio verde vecchiezza.

Quivi a riva una gran folla correva,

donne e uomini, e corpi senza vita

di magnanimi eroi, e giovinetti

e vergini, e recati sotto gli occhi

de' genitori adolescenti al rogo;

quante col primo freddo de l'autunno

si spiccano ne' boschi e cadon foglie,

o quanta da l'oceano a le spiagge

va nuvola d'uccelli, allor che il gelo

oltre il mare li caccia a terre apriche.

Stavan, pregando di passare i primi,

e tendevan le mani per amore

de l'altra sponda, ma il nocchiero arcigno

ora questi ora quei riceve e gli altri

allontana e ricaccia da la riva.

Enea, sospeso e scosso a quel tumulto,

«Dimmi, o vergine, dice, onde tal ressa

al fiume? quale han l'anime desio?

per che divario queste son respinte,

quelle solcan la livida palude?».

E breve a lui l'annosa profetessa:

«Nato d'Anchise, manifesta prole

degli Dei, l'alto stagno di Cocito

tu vedi e la palude stigia, il cui

nume temon gli Dei giurare invano.

Tutta questa che miri è la meschina

turba insepolta, quel nocchier Caronte,

quelli i sepolti che trasporta l'onda.

Né prima è dato il buio greto e il roco

flutto passar che abbian riposo l'ossa.

Erran cento anni volitando intorno

a questi lidi, e finalmente ammessi

rivedono gli stagni desïati».

Stette il figliuol d'Anchise e tenne il passo,

tutto pensoso e in cuor commosso a quella

gravosa sorte.

Quivi scorge mesti

e privi de l'estremo onor Leucaspi

e Oronte duce de la licia flotta,

che insiem da Troia pe' ventosi mari

portati l'austro sopraffece, d'acqua

avvolgendo la nave e i naviganti.

Ed ecco che il piloto Palinuro

veniva, il qual nel libico passaggio

pur ora, mentre guarda gli astri, in mezzo

a l'onde da la poppa era caduto.

Come a stento tra tanta ombra lui mesto

vide, primo gli parla: «O Palinuro,

qual degli Dei ti tolse a noi e in mezzo

a la marina ti sommerse? Dimmi,

ché, non trovato mai fallace innanzi,

solo in questo responso mi deluse

Apollo, il qual te presagiva immune

dal pelago dover giungere a' lidi

d'Ausonia. Or questa è la promessa fede

E quegli: «Né di Febo la cortina

t'ingannò, Anchisíade condottiero,

né mi sommerse un dio ne la marina:

ché per sorte il timon schiantato a forza,

ch'io stringeva custode e regolava,

precipitando trascinai con me.

Per le tempeste giuro ch'io non ebbi

di me timor, ma che la nave tua,

spoglia de l'armi sue, scossa del duce,

venisse meno in quel gonfiar de l'onde.

Tre tempestose notti per l'immenso

mar mi spinse tra' flutti un fiero vento:

solo al quarto mattin vidi lontano,

su la cresta di un'onda alto, l'Italia.

Io mi traea nuotando verso lei,

e già terra toccavo, se una gente

crudel me grave con le vesti pregne,

e che i ronchi ghermía con mani adunche,

non assaliva armata, in me pensando,

stolta! una preda. Ora mi tiene il flutto

e i venti mi percotono sul lido.

Dunque pel ciel ti prego e l'aure azzurre,

per il tuo genitor, per le speranze

del tuo fiorente Giulo, a questo danno

strappami, o invitto: o coprimi di terra,

ché il puoi, ed il Velín porto ritrova;

ovvero, se via v'è, se te ne mostra

la diva madre (senza numi, credo,

già non prendi a varcar tal fiume e Stige),

porgi la destra al misero e mi porta

oltre l'acqua con te, che in tranquilla

sede almeno da morto io mi riposi».

Avea detto cosí, cosí riprese

la profetessa: «Donde, o Palinuro,

cotesta in te folle brama? l'acque

stigie vedrai tu non sepolto e il fiume

severo de l'Eumenidi e a la riva

senza cenno verrai? Non isperare

che i fati degli Dei pieghino a prego.

Ma odi e nota, per conforto al danno:

mossi i vicini da celesti segni

per le città tutto a l'intorno, l'ossa

tue placheranno, le porranno in tomba,

a la tomba faranno i riti, e il luogo

eterno avrà di Palinuro il nome».

A questi detti si temprò l'angoscia

e il duolo un tratto uscí dal mesto cuore

di quella terra col suo nome gode.

Seguono dunque l'intrapresa via

accostandosi a l'acqua. Onde il nocchiero

infernal non appena li ebbe scorti

movere verso il greto per la muta

selva il piede, si volge ad assalirli

ed a rimproverar cosí: «Chiunque

sia tu che armato scendi al nostro fiume,

dimmi di costí, dimmi a che ne vieni,

e t'arresta. De l'ombre il luogo è questo,

del sonno e de la notte soporosa:

non può vivi portar la stigia barca.

davver mi allegrai d'avere accolto

Alcíde al passo, e non Tèseo e Pirítoo,

benché figli di numi e forti eroi:

gettò quegli il guinzaglio al guardïano

tartareo, il trasse tremante dal soglio

stesso del re; rapir tentaron questi

dal talamo di Dite la regina».

Breve rispose a ciò l'anfrisia vate:

«Non tali insidie qui, lascia gli sdegni,

né fanno forza l'armi. Il gran portiere

latri eterno da l'antro ed atterrisca

l'ombre esangui; Proserpina le soglie

invïolata de lo zio possegga.

Enea troiano, il valoroso e pio,

scende a veder tra l'ombre ultime il padre.

Se di simil pietà poco è la vista,

e tu conosci questo ramo!» E il trae

da la veste. Quel cuor gonfio da l'ira

si posa allor; non piú parole: ei guata

il sacro dono del fatal virgulto,

qual gli apparia dopo gran tempo, e volge

verso la riva la sua bruna prora.

Poi l'altre anime caccia che sedeano

pe' lunghi banchi, libera la tolda,

e ne la chiglia il grande Enea riceve:

cigolò sotto il peso la contesta

carena e molto bevve del padule

per gli spiragli: al fin di dal fiume

sicuri espone la veggente e il prode

su lo squallido fango e l'ulva bigia.

Cerbero immane questi regni introna

con latrato trifauce, in un covile

di faccia sdraiato. A lui, che vede

tutto arruffar già di serpenti il collo,

getta la vate un'offa soporosa

di miele e lavorate farine. Esso

tre gole aprendo con rabbiosa fame

l'acceffa in aria e l'ampio dorso allenta

distendendosi enorme in tutto l'antro.

Sepolto il guardïano, occupa Enea

le soglie e passa rapido la sponda

di quell'acqua che piú non si rivarca.

Quivi si udiron voci e un gran vagire

e degl'infanti l'anime piangenti

su l'entrar primo, cui nuovi a la dolce

vita strappò da la mammella il nero

giorno ed in morte acerba li sommerse.

Presso a loro i dannati per ingiusta

accusa e spenti. Né già sono i luoghi

senza sorteggio e giudice assegnati:

indagator Minosse l'urna move,

esso la turba de' tacenti aduna

e vite e colpe apprende. Indi vicine

i mesti hanno lor sedi che illibati

si diedero la morte e fecer getto

de l'anima per odio de la luce.

Come or vorrian ne l'aëre superno

la povertà soffrire ed i travagli!

I decreti si oppongono e con l'onda

li lega l'inamabile palude

e nove volte li ravvolge Stige.

lontano di s'aprono in ogni

parte i campi del pianto: han questo nome.

I riposti sentieri accolgono ivi

quei che struggea miseramente amore

e una selva di mirti li protegge:

li accompagna l'affanno ancora in morte.

Quivi discerne Fedra e Procri e mesta

Erífile che mostra le ferite

del crudel figlio ed Evadne e Pasifae;

e va con lor Laödamía, va Cèneo,

un garzone, or femmina e di nuovo

resa per fato ne la forma prima.

Fresca de la ferita in mezzo a quelle

la fenicia Didone errava per la

gran selva. Come prima il teucro eroe

le fu presso e per l'ombre la conobbe

oscura, quale alcun vede la luna

o si crede vederla al novo mese

sorger tra nubi, non contenne il pianto

e con tenero amor le si rivolse:

«Infelice Didone, annunzio vero

dunque mi giunse ch'eri morta e corsa

di tua mano a la fine! Ah fui cagione

de la tua morte! Per le stelle giuro,

per i Celesti, o se altro giuramento

nel cupo mondo vale, io di mal cuore,

o regina, dal tuo lido partii.

Ma i voleri de' Numi ed i lor cenni

mi sospinsero, come or per quest'ombre

e lo squallore de la notte immensa:

credere io potea col mio partire

darti tanto dolore. Arresta il passo,

e non sottrarti al guardo mio. Chi fuggi?

l'ultima volta che ti parlo è questa».

Con tali detti Enea l'ardente cuore

leniva e bieco riguardante, e al pianto

l'inteneriva: quella a terra fissi

gli occhi teneva in altra parte volta,

piú si muta a quel parlar nel viso

che se aspra selce o sia marpesia punta.

Alfin via si spiccò, sparve nemica

tra l'ombrifera selva ove lo sposo

primo a l'affetto suo Sicheo risponde

e la eguaglia d'amor.

Ma pur pensoso

del duro caso Enea lungi la segue

col pianto e la commisera fuggente.

Indi segue il fatal vïaggio. E omai

ne' campi erano estremi ove appartati

gl'incliti in guerra si radunano. Ivi

Tídeo gli viene incontro e il prode in armi

Partenopeo, la pallida sembianza

di Adrasto insiem, ivi i compianti al mondo

Dardanidi caduti ne la guerra.

Sospirò nel guardarli in lunga schiera

tutti, Glauco e Tersíloco e Medonte,

d'Antènore i tre figli e Polibéte

sacro a Cerere, e Idèo che ancora il carro,

ancora l'armi ritenea. Frequenti

gli son l'anime intorno a destra e a manca,

né averlo visto è assai, piace indugiare

e andar di pari e chiedere a che venga.

Ma i principi de' Danai e le falangi

agamennonie come vider prima

l'eroe per l'ombra e l'armi luminose,

a smarrirsi di subita paura,

chi volto in fuga come un a le navi

e chi levando una voce sottile,

ma il grido manca tra le labbra schiuse.

E vide con la persona a brani

Deífobo di Priamo, crudelmente

mutilo il viso, il viso e le due mani,

devastate le tempie senza orecchi,

e tronco il naso con deforme piaga.

che a stento il conobbe vergognoso

che tentava celar suo reo supplizio,

e gli si volse con la nota voce:

«Valoroso Deífobo, progenie

del gran sangue di Teucro, e chi mai volle,

chi poté far di te simile strazio?

La fama mi recò che ne l'estrema

notte tu stanco de' Pelasghi uccisi

cadevi in mucchio di confusa strage.

Su la proda retèa tumulo vuoto

allor ti eressi ed a gran voce i Mani

chiamai tre volte; son l'armi e il nome:

ma te, amico, non potei vedere

né in terren patrio sul partir comporre».

Il Priàmide a ciò: «Tu non lasciasti,

amico, nulla, tu rendesti tutto

a Deífobo e a l'ombra del suo frale.

Ma i fati miei ed il delitto atroce

de la Spartana m'han ridotto a questo

orrore, questi segni ella m'impresse.

Come l'ultima notte in falsa gioia

passammo, sai; ben ricordarlo è forza.

Quando il fatal cavallo col suo salto

fu di Pergamo in vetta e pregno espose

gli armati fanti, ella fingendo un coro

chiamò le frigie a l'evoè de l'orgia;

teneva essa nel mezzo una gran fiamma

e i Danäi da l'arce alta chiamava.

Da le fatiche me vinto e dal sonno

ebbe l'infausto talamo, e m'avvolse

abbandonato una dolce quïete,

a la placida morte somigliante.

L'egregia moglie tutte l'armi intanto

leva di casa, e avea dal capezzale

sottratta la fedel mia spada; e chiama

Menelao spalancandogli l'entrare,

sicura già che ciò sarebbe pegno

prezïoso a l'amante e avrebbe forse

spento il ricordo de l'oltraggio antico.

A che m'indugio? Invadono la stanza;

gli vien compagno, consiglier d'infamia,

l'Eolide. Innovate, o Dei, lo scempio

pei Greci! se con pia bocca il richiedo.

Ma quali casi te, dimmi a vicenda,

qui vivo abbiano addotto. Per errori

vieni del mar o per divin consiglio?

e in quale angustia sei, da visitare

le tristi senza sol pallide case?».

Tra gli alterni parlari avea l'Aurora

de l'etereo sentier varcato il mezzo

con le rosee quadrighe, e forse tutta

spendevano cosí l'ora concessa,

ma la duce ammoní, ma la Sibilla

breve parlò: «La notte appressa, Enea,

e noi passiamo lagrimando il tempo.

Il luogo è qui che in due la via si parte:

la destra che del gran Dite s'affretta

a la città, per questa è il nostro elisio

vïaggio; la sinistra de' malvagi

le pene adempie e al reo Tartaro adduce».

Deífobo a l'incontro: «Sii pietosa,

o gran sacerdotessa; andrò, la schiera

rifarò piena e tornerò nel buio.

Va', gloria nostra, va', con miglior fato».

Tanto disse, e tra 'l dir si volse indietro.

Enea riguarda e d'improvviso vede

gran città sotto una rupe a sinistra,

cerchiata di tre mura, e intorno fiume

fiammeggiante il tartareo Flegetonte

e travolgente romorosi massi.

In faccia è una gran porta e tutto acciaio

colonne cui schiantar non forza d'uomo

né potrebbe de' Superi la guerra.

Ferrea una torre sorge in alto, e assisa

Tisífone con manto sanguinoso

al vestibolo veglia e notte e giorno.

Indi sospiri e suon d'aspre percosse

e strider ferro e strascicar catene

s'udia. Ristette sbigottito Enea

in orecchi a lo strepito. «Che colpe

sono? o vergine, parla: e di che pene

soffrono? qual tumulto è che si leva?».

E cosí prese a dir la profetessa:

«Duce inclito de' Teucri, a nessun pio

dato è calcar la scellerata soglia:

pur, quando mi prepose a' boschi averni,

Ecate stessa mi mostrò le pene

divine e le mi fe' percorrer tutte.

Radamanto di Cnoso ha questi regni

durissimi: ei condanna, ode le colpe,

e sforza a quelle rivelar che, lieto

altri d'un vano eludere, produsse

a l'ora de la morte inespïate.

Subitamente armata di flagello

balza a ghermire i rei la punitrice

Tisífone e, protesi con la manca

i torvi serpi, chiama le sorelle.

Allor su l'aspro cardine stridenti

s'apron le porte maledette. Vedi

qual guardia è su l'entrare e in quale aspetto?

Dentro dimora piú crudele, enorme

con le cinquanta nere gole, l'Idra.

Viene il Tartaro alfin che si sprofonda

tanto due volte, quanto sale il guardo

fino a la faccia del celeste Olimpo.

, de la Terra antico parto, a l'imo

son gettati i Titani fulminati;

i due Aloídi vidi giganti

che alzâr le mani a lacerare il cielo,

a cacciar Giove da' superni regni.

Anche Salmonèo vidi che l'acerba

pena pagò, mentre di Giove i fuochi

iva imitando e i fremiti d'Olimpo.

Ei con quattro cavalli ed isquassando

una fiaccola via pe 'l suol de' Grai

e la città ch'è a l'Elide nel mezzo

trïonfava e adorato esser voleva:

stolto, che i nembi contraffare e il fulmine

osò non imitabile co 'l bronzo

e lo sfrenato scalpito sonante.

Ma il Padre onnipotente di tra i folti

nuvoli il dardo gli avventò, non faci

già né baglior di fumiganti tede,

e lo travolse vorticoso a l'imo.

Tizio del pari si vedeva, figlio

de la Terra comun madre, disteso

per nove interi iugeri le membra:

grande avvoltoio con l'adunco rostro

morsecchiandogli il fegato immortale

e le viscere fertili a le pene

adocchia il pasto e gli abita entro il petto,

né a le fibre rinate è tregua mai.

A che parlar de' Làpiti, d'Issíone

e di Pirítoo, sopra i quali penzola

un macigno caduco e par che cada?

Risplendono aurei piè di genïali

alti letti e imbandite avanti agli occhi

vivande con regal magnificenza,

ma la Furia maggior s'acquatta presso

e le mani accostar vieta a le mense

e con la face levasi e con l'urlo.

Quivi color che in vita ebbero in odio

i lor fratelli o percossero il padre

o frode ordirono al cliente o soli

il tesoro abbracciarono adunato

senza a' suoi farne parte (e piú son questi)

o furon morti in adulterio od armi

seguitarono ingiuste e de' signori

la fede vïolarono, prigioni

aspettano la pena. Oh! non cercare

saper qual pena, o qual norma e fortuna

sommerse in pianto le misere genti.

Voltano altri un gran sasso, o stretti a' raggi

pendon di ruote: siede l'infelice

Teseo e in eterno sederà; per l'ombre

Flegia sventuratissimo a gran voce

grida a tutti: – Imparate da l'esempio

seguir giustizia e non spregiar gli Dei –.

Vendé per oro altri la patria e fiero

signor le impose, fe' leggi e disfece

a prezzo; assalse de la figlia il talamo

altri e vietate nozze; ardiron tutti

nefanda colpa e fu l'ardir compiuto.

Se cento lingue in cento bocche avessi

e ferrea voce, non potrei le forme

tutte abbracciare de' misfatti, tutte

ad una ad una nominar le pene».

Poi che di Febo la ministra annosa

ebbe detto cosí, «Su via, soggiunge,

il cammino e il proposito compisci.

Affrettiam. Fatte a' fuochi de' Ciclòpi

veggo le mura e l'arco de la porta

ovprescritto a noi di porre il dono».

Aveva detto e pe' sentieri opachi

superano di pari l'intervallo

fino a la soglia. Vi s'accosta Enea,

ad un'acqua corrente si deterge

e davanti a la porta il ramo affigge.

Ciò fatto alfin, resa a la Dea l'offerta,

giunsero a' luoghi lieti ed agli ameni

verzieri de le selve fortunate

e a le sedi felici. Un ciel piú largo

qui veste i campi di purpurea luce;

mirano un loro sole e loro stelle.

Ne l'erbose palestre esercitarsi

parte gode e lottare in fulva arena,

parte co' piè batte le danze e canta.

Anch'esso il Tracio sacerdote in lunga

veste a la melodia tempera il vario

suon de le sette voci, or con le dita

toccandole or col pettine d'avorio.

Quivi è di Teucro la progenie antica,

splendidi figli, generosi eroi,

a miglior tempo nati, e Ilo e Assàraco

e Dardano progenitor di Troia.

L'arme in disparte e i vuoti carri mira;

l'arme son fitte a terra, e sciolti e vaghi

pascolano i cavalli per il prato.

L'amor ch'ebbero vivi a' carri e a l'armi,

l'uso di pascer fulgidi cavalli,

li accompagna cosí dopo il sepolcro.

Ecco a destra e a sinistra ne discerne

a banchettar tra 'l verde altri o cantare

in coro giocondissimo peana

tra l'odorosa selva degli allori,

onde di sopra immenso in mezzo a selve

il fiume de l'Erídano si volve.

Ivi la schiera che patí ferite

pugnando per la patria, e i sacerdoti

che vissero illibati, e i vati buoni

che parole dicean degne di Febo,

o quelli che abbellirono la vita

trovando l'arti, e quei che per ben fare

lasciarono di sé memori gli altri;

tutti una nivea benda hanno a la fronte.

A lor dintorno sparsi la Sibilla

cosí si volse ed a Museo su tutti

(ché intorno a lui è un popolo e il sogguarda

emergente con gli alti òmeri): «Dite,

felici anime, dinne, ottimo vate:

Anchise ov'è? Qual regïon l'accoglie?

Per lui venimmo e traversammo i fiumi

paurosi de l'Erebo». L'eroe

breve cosí le rese la risposta:

«Nessuno ha luogo certo; abitiam l'ombre

de' boschi e per i grembi de le rive

andiamo e i prati freschi di ruscelli.

Ma voi, se cosí porta in cuor l'affetto,

questo giogo varcate, e dopo questo

vi porrò per agevole sentiero».

Disse e davanti mosse il piede, e i campi

luminosi da l'alto addita: quindi

abbandonano i vertici del colle.

Ma il padre Anchise in seno a la convalle

verde le raccolte anime, che al sole

dovean salire, con attenta cura

mirava e tutte andava rassegnando

de' suoi le schiere ed i nipoti cari,

lor fati e lor fortune, indoli e imprese.

Com'egli vide per i prati Enea

venirgli incontro, coralmente stese

le due palme e gli corser per le guance

le lagrime e dal labbro le parole:

«Venisti alfin, e la pietà che il padre

da te si attese vinse il cammin duro:

m'è concesso veder, figlio, il tuo viso

e rinnovare i soliti colloqui.

Questo io credeva, questo ebbi per certo

contando l'ore, né il mio cuor m'illuse.

Per quante io terre te, per quanti mari

corso ricevo! tra perigli quanti

sbattuto, o figlio! come fui sgomento

che ti nocesse il regno de la Libia!».

E quegli: «O padre, l'ombra tua, la tua

ombra dolente col mostrarsi spesso

mi sforzò di venire a queste sedi.

Nel Tirreno è su l'ancore la flotta.

Porgi deh padre, porgimi la mano

e non sottrarti da l'amplesso mio».

Cosí diceva e l'inondava il pianto.

Tre volte allor tentò de le sue braccia

cingergli il collo, tre l'ombra invan cinta

sfuggí le mani, pari a lievi venti

e similissima a un alato sogno.

Intanto Enea ne la riposta valle

vede in disparte un bosco e susurranti

selvatici virgulti e il letèo fiume

nuotare avanti a le placide case.

Volavano ivi intorno ombre infinite:

e come quando a la serena estate

ne' prati in varii fior posano l'api

od a candidi gigli errano intorno,

sembra tutto un ronzio quella campagna.

A la súbita vista trasalisce

e le cose ricerca inconscio Enea,

quale fiume sia dunque e quali genti

colmino molteplici le rive.

Il padre Anchise allor: «L'anime a

cui novelli corpi spettano per fato

a la corrente bevono di Lete

tranquille linfe e lunghe oblivïoni.

Ben queste a te narrar e offrirti al guardo,

questa de' miei progenie annoverarti

da gran tempo desio, che tu meglio

goda con me de la raggiunta Italia».

«O padre, e si dee credere che alcuna

anima su da qui risalga a l'aure

e torni a' lenti corpi? oh le infelici

qual provano del fiera brama

«Io tel dirò, né ti terrò sospeso,

o figlio mio».

Cosí riprende Anchise

e rivela per ordine le cose.

«Primieramente il ciel, le terre, i campi

fluidi e il lucente globo de la luna

e il titanio astro entro uno spirto nutre

e una mente pe' membri sparsa avviva

tutta la mole e al gran corpo si mesce.

La stirpe indi è degli uomini e de' bruti,

le vite degli alati, e quanti mostri

sotto il marmoreo piano il mar produce.

Vivida una scintilla, una celeste

origine que' germi hanno, per quanto

nocivo non li grava il corpo e ottunde

terreno frale e moriture membra.

Di qui tema e desio, dolore e gioia

in lor, né sanno piú scernere il cielo

chiusi ne l'ombra di carcere cieco.

E allora pur che con l'estremo raggio

la vita li lasciò, non tutto il male

per i miseri e non dileguan tutti

i corporëi vizi, ché profonda -

mente in copia ed a lungo concresciuti

forza è che abbian mirabile rigoglio.

Dunque sono da pene esercitati

e soddisfanno de' peccati antichi.

Sospese a la balía de' lievi venti

s'espongono talune anime, ad altre

sotto ad un vasto vortice l'impressa

colpa si lava o la si brucia al fuoco:

soffriam ciascuno l'ombra sua.

Siam quindi

avvïati per l'ampio Elisio, e pochi

ne' lieti campi dimoriam, se prima

un lungo , pieno del tempo il giro,

non tolse la contratta macchia e puro

lascia il senso celeste e la favilla

di quel semplice soffio. Tutte queste,

poi che volser di mille anni la ruota,

presso al fiume di Lete èvoca Iddio,

cosí che, fatte immemori, di nuovo

escan del cielo a riveder la volta

e rientrar s'invoglino ne' corpi».

Poi ch'ebbe detto, Anchise il suo figliuolo

e la Sibilla insiem conduce in mezzo

de l'adunata risonante turba,

e sale un balzo, onde potesse tutte

vedersi avanti quelle folte schiere

e de' vegnenti ravvisare i volti.

«Su via, qual gloria a la dardania stirpe

s'aspetti in avvenir, quali nepoti

da l'italico ceppo, anime chiare

che fioriranno un nel nostro nome,

dirò, te de' tuoi fati ammaestrando.

Quegli, il vedi, che giovine si appoggia

a l'asta pura, tien per sorte il luogo

piú prossimo a la luce e primo a l'aure

misto uscirà d'italo sangue, Silvio,

albano nome e tua tardiva prole,

che in selve a te longevo la consorte

Lavinia produrrà, re di re padre,

onde la nostra schiatta su la Lunga

Alba dominerà. Quel suo vicino

è Proca fregio de la teucra gente,

e Capi e Numitor e Silvio Enea

che nel nome ed insiem pietoso e prode

rinnovellerà te, come riceva

lo scettro d'Alba. Quali giovinezze!

e quanto, guarda, raggiano di forza!

ombrati di civil quercia le tempie.

Questi Nomento e Gabi e di Fidene

la città, questi l'arci collatine

ti porranno su' vertici e Pomezio

ed il Castello d'Inuo e Bola e Cora,

allora nomi, or terre senza nome.

Indi si aggiungerà compagno a l'avo

Romolo di Mavorte, e a lui del sangue

di Assàraco Ilia sarà madre. Vedi

come sul capo eretti ha due cimieri

e il padre già di deïtà lo impronta?

Ecco, figliuol, che per gli auspíci suoi

adeguerà quella famosa Roma

l'impero al mondo e l'animo a l'Olimpo,

unica sette colli in sé cerchiando,

fiera di forti genitrice: quale

innanzi vien la berecinta madre

per le frigie città turrita in cocchio,

lieta del parto degli Dei, ben cento

abbracciando nepoti e tuttiquanti

dominatori eterni de le sfere.

Or qua piega gli sguardi, a questa gente

de' tuoi Romani. È qui Cesare e tutta

la prosapia di Giulo, destinata

sotto l'ampia ad uscir volta del cielo.

È questi, è l'uom che a te promettere odi

spesso, Augusto Cesare, germoglio

del Divo, che l'età de l'oro al Lazio

rifarà per le terre un regnate

da Saturno, e dilaterà l'impero

sui Garamanti e gl'Indi: oltre le stelle

giace la terra, oltre le vie de l'anno

e del sol, ove regge aërio Atlante

su gli òmeri il girar degli astri ardenti.

Per l'avvento di lui fin d'ora il caspio

regno trema e il meotico paese

di responsi divini, e perturbate

del settemplice Nilo erran le bocche.

Alcide in vero tanto mondo corse,

benché ferí la cerva piè-di-bronzo

e tranquillò le selve d'Erimanto

e fe' tutta tremar Lerna con l'arco,

né il trionfante Libero che volge

le redini di pampino guidando

da Nisa giú le apparigliate tigri.

E dubitiamo ancor di propagare

il valor con le imprese, o v'è paura

che ci vieti posare in suol d'Ausonia?

Ma presso chi è, cinto de' rami

de l'olivo, che porta i sacri arredi?

Conosco il crine ed il canuto mento

del re romano che la città prima

con leggi fermerà, mandato al soglio

da la piccola sua povera Curi.

Gli sottentrerà Tullo, e la quïete

scoterà de la patria, gli allentati

cuori a l'armi movendo e le falangi

già da' trionfi disavvezze. Il segue

Anco piú baldanzoso e che già troppo

mostra goder de l'aure popolari.

I re Tarquini e l'anima superba

vuoi pur vedere e del vendicatore

Bruto i recuperati fasci? Ei primo

di console l'impero e le severe

scuri riceverà; padre i figliuoli,

a nuova guerra intesi, per la bella

libertà chiamerà sotto la pena.

Infelice! per quanto i discendenti

l'ammireranno: vincerà l'amore

di patria e l'infinito ardor di gloria.

I Deci e i Drusi ancor discosto guarda

e Torquato severo per la scure

e Camillo tornante co' vessilli.

Quelle due poi che in eguali arme vedi

splendere ora concordi anime a l'ombra,

oh qual tra loro dolorosa guerra,

sórte che siano al lume de la vita,

quante susciteranno e schiere e stragi,

da' varchi alpini il suocero e da l'arci

di Monèco scendendo, e fatto forte

il genero d'opposti orïentali!

No, figli, il cuor non avvezzate a guerre

fiere, e non volgete il bel vigore

contro il sen de la patria. E tu deh! primo

cessa, che da l'Olimpo origin prendi,

tu getta l'armi, sangue mio!

Quei spingerà su l'alto Campidoglio

vincitor di Corinto la quadriga,

insigne per gli spenti Achivi. Quegli

Argo e Micene agamennonia e anch'esso

abbatterà l'Eacide disceso

dal fortissimo Achille, vendicando

gli avi di Troia e il tempio di Minerva.

E in silenzio chi te, grande Catone,

o lascerebbe te, Cosso? o di Gracco

la prole, o i due, due fulmini di guerra,

Scipíadi, strage de la Libia, o il forte

in povertà Fabrizio, o te, Serrano,

che semini il tuo solco? Ove me stanco,

Fabii, traete? Il Massimo tu sei,

solo che a noi tardando salvi Roma.

Foggeranno altri gli spiranti bronzi

con piú mollezza, il credo, trarran vivi

dal marmo i volti; a perorar le cause

migliori, a disegnar con verga il corso

degli astri, a dire il sorger de le stelle:

tu con l'impero i popoli governa,

Romano, queste saran l'arti tue,

ed a la pace norma , clemenza

ai sommessi e sterminio dei superbi».

Cosí diceva Anchise, e agli ammiranti

soggiunge: «Vedi come vien Marcello

superbo de le spoglie opime e a tutti

vincitore sovrasta. In gran fortuna

ei terrà salde le romane cose,

prostrerà cavalcando i Peni e il Gallo

ribelle, ed a Quirino padre il terzo

da' suoi nemici appenderà trofeo».

Allora Enea (ché gli vedeva insieme

un giovin bello di sembianza e d'armi,

ma con la fronte scura e gli occhi bassi)

«Padre, e quegli chi è che accompagna

l'eroe? suo figlio o alcun de l'alta gesta

de' nipoti? Qual premer di seguaci

intorno gli è! quanta grandezza in lui!

Ma triste notte gli ravvolge il capo».

Il padre Anchise allor con lagrimose

ciglia «Oh, dice, figliuol, non domandare

un cordoglio acerbissimo de' tuoi.

I fati al mondo il mostreranno solo

e piú nol patiranno vivo. Troppo

forte a voi parve la romana stirpe,

o Celesti, se fermo avea tal dono.

Quanti sospiri d'uomini quel Campo

spargerà ne la gran città di Marte!

e quale funeral, Tebro, vedrai

oltrescorrendo al tumulo recente!

Non giovinetto de l'iliaca gente

a alto sperar leverà gli avi

latini, né già mai d'altro germoglio

avrà tal vanto la romulea terra.

Oh sua pietà! sua fede antica! e invitta

destra a la guerra! Impunemente a lui

non si sarebbe offerto in armi alcuno,

sia che pedone entrasse in campo, o sia

che a spumoso destrier pungesse i fianchi.

Ahi! misero fanciullo, ove tu possa

sforzare i fati, tu sarai Marcello.

Lasciatemi che gigli a piene mani,

purpurei fiori, sparga, e almen di questo

nembo l'anima avvolga del nipote,

con inane tributo».

Cosí vanno

per quella intorno regïon ne' vasti

campi de l'aria e passano ogni cosa.

Poi che Anchise per tutto addusse il figlio

e l'animo gli accese de l'amore

de la sorgente fama, indi le guerre

che avrà gli narra, il popolo laurente

e la città gli mostra di Latino,

e come ogni cimento o sfugga o sfidi.

Sono del Sonno due le porte, l'una

è, dicono, di corno, onde si dona

agevole a le vere ombre l'uscita,

lucida l'altra e candida di avorio,

ma falsi al ciel ne invia sogni l'Averno.

Poi ch'ebbe allor tali discorsi Anchise

al figlio vòlti e a la Sibilla, e fuori

messili per l'eburnea porta, quegli

a le navi s'affretta e a' suoi si rende.

Poi, costeggiando, al porto di Gaeta

dirige il solco: l'àncora da prora

si getta in mar; stanno le poppe a riva.





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