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Virgilio Eneide IntraText CT - Lettura del testo |
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LIBRO PRIMO
L'armi e l'uom canto che dal suol di Troia primo in Italia profugo per fato alle lavinie prode venne, molto e per terre sbattuto e in mar da forza ei de' Celesti per la memore ira de la crudel Giunone, e molto ancora provato in guerra, fin ch'ebbe fondata la città e gli Dei posti nel Lazio, onde il Latino genere e gli Albani padri e le mura de l'eccelsa Roma. Musa, le cause narrami, per quale sfregio a sua deità, di che dogliosa, la Regina de' Numi un uom costrinse di pietà sí preclaro a correr tante vicende, a incontrar tanti travagli: e son sí grandi in cuor divino l'ire? Antica città fu, gente di Tiro la possedé, Cartagine di fronte a Italia lungi ed a le tiberine bocche, opulenta, acerrima guerriera: cui frequentar dicevano Giunone piú che ogni altro paese e Samo istessa; quivi fur l'armi sue, quivi il suo carro, e che quello, assentendolo i destini, divenisse l'impero de le genti, fin d'allora la Dea studia e vagheggia. Però che udito avea, dal troian sangue scender progenie che le tirie ròcche rovescerebbe un dí; che quindi larga- mente un popolo re, superbo in guerra, moverebbe a rovina de la Libia: cosí volger le Parche. La Saturnia, questo temendo, e de l'antico stormo memore ch'essa avea guidato a Troia per Argo sua – né le cadean di mente le cagioni de l'ira e i fieri crucci; fitto rimane nel profondo seno il giudizio di Paride, il dispregio di sua bellezza, l'odïosa stirpe e gli onor del rapito Ganimede –; da tali fiamme accesa i Teucri, avanzo de' Danai e del feroce Achille, a tutte le marine travolti respingea dal Lazio, e già molti anni erravan spinti dal fato ad ogni mar: sí dura impresa era fondare la romana gente. Appena da la vista de la terra sicilïana lieti verso l'alto veleggiavano e con le bronzee prore frangean le spume, che Giunone, in cuore alimentando la ferita eterna, disse tra sé: «Vinta desistere io da l'opera, e sviare il re de' Teucri non poter da l'Italia! ho contro i fati! E Pallade bruciar poté la flotta degli Argivi e sommergerli pel fallo e la follía d'Aiace sol d'Oileo? Essa da' nembi il rapido scagliando foco di Giove dissipò le navi, l'acque al vento sconvolse, e lui spirante vampe dal petto squarciato rapí nel turbine e il confisse a scoglio acuto. Ma io che degli Dei regina incedo, sorella e moglie di Giove, io con una sola gente per tanti anni guerreggio. E ancor v'è chi di Giuno il nume adora e pregando a l'altar porrà l'offerta?». Tanto tra sé ne l'infiammato cuore agitando la Dea move a la patria de' nembi, pregna d'austri furibondi, l'Eolia. Eolo re quivi in vasto antro i riottosi venti e le bufere fischianti doma imperïoso e serra quelli sbuffando, con susurro immenso del monte, fremono agli sbocchi intorno; ma Eolo scettrato in alto siede e tempera gli umori e frena l'ire; senza ciò il mar la terra e il ciel profondo seco trascinerebbero nel volo e spazzerebber via. L'onnipotente Padre questo temendo entro caverne buie li chiuse, mole di montagne alte vi sovrappose, e un re lor diede che con patto fermato e dietro al cenno tirar sapesse ed allentar le briglie. Supplice a lui Giunone allor si volse: «Eolo, poi che il Padre degli Dei e degli uomini re ti diè possanza di chetar l'onda e sollevar col vento, gente nemica a me solca il Tirreno portando Ilio in Italia e gli sconfitti Penati: infondi vïolenza ai venti, investi quelle poppe e le sommergi, o díssipali e spargili sul mare. Ho sette e sette ninfe, di bellezza; la piú bella tra lor Deïopèa ti legherò di stabile connubio e farò esser tua, che teco passi tutta per questo merito la vita e di prole gentil padre ti renda». Eolo in risposta: «A te spetta, o regina, veder che ti talenta; a me, obbedire. Tu questo regno quanto egli è, lo scettro e Giove mi propizi tu; tu fai ch'io m'adagi a le mense degli Dei e i nembi signoreggi e le tempeste». Ciò detto, con la cuspide rivolta percosse il fianco al cavo monte, e i venti in groppo si ruinano a l'uscita e turbinosi scorrono la terra. Calarono sul mare, e dal profondo lo sconvolgono tutto ed Euro e Noto ed Africo impregnato di procelle, e spingono a le rive i cavalloni. Segue d'uomini un grido, un cigolío di gómene. Improvvise il cielo e il giorno tolgon le nubi agli occhi de' Troiani; cupa incombe sul pelago la notte. Rintonarono i cieli, l'aer guizza di folgori frequenti, e tutto intorno è una minaccia d'imminente morte. Enea pe' membri sente un gel, sospira, ed «Oh!», tendendo alto le palme esclama. «tre volte e quattro fortunati quelli ch'ebbero in sorte di morire in vista de' padri sotto a' muri alti di Troia! O Tidíde, fortissimo de' Danai, non avere io potuto in terra d'Ilio cadere e per la tua mano spirare quest'anima! ove il fiero Ettore giace del colpo de l'Eàcide, ove il grande Sarpèdone, ove tanti il Simoenta scudi d'eroi travolge ed elmi e salme». Mentre ch'ei si sconsola, una stridente raffica d'Aquilon coglie la vela in faccia e leva fino agli astri i flutti. Infranti sono i remi; allor la prora si rivolge e dà il fianco a l'onde: incalza di gran mole scosceso un monte d'acqua. Questi pendono in cima al flutto, a quelli scopre tra' flutti l'onda spalancata il fondo, va il bollor fino a le arene. Tre navi avventa Noto a sassi occulti (Are li chiaman gl'Itali, a fior d'acqua schiena enorme), tre navi Euro da l'alto, triste a veder, sospinge in secche e sirti, le sbatte a' banchi e accerchiale di sabbia. Una, che i Lici ed il fedele Oronte portava, immensa ondata innanzi agli occhi di lui percote in poppa: a capo in giú il timonier n'è scosso, e lí tre volte il flutto aggira intorno a sé la nave ed il rapido vortice l'inghiotte. Rari natanti per il gorgo vasto appaiono, armi di guerrieri e tavole e troiana dovizia galleggiante. Già il saldo legno d'Ilioneo, già quello del forte Acate, quel che porta Abante, quel che l'annoso Alete, ha vinti il nembo: tutti per lo sconnettersi de' fianchi bevono la nemica onda sfasciati. Sentí l'immenso murmure del mare Nettuno intanto pien di meraviglia e scatenata la burrasca e i fondi rimescolati, e fuori da le schiume sporse il placido capo a riguardare. Dissipata d'Enea vede la flotta per tutte l'acque, sopraffatti i Teucri dal rovescio del ciel, né le insidiose sfuggirono al fratello ire di Giuno. Euro e Zefiro à sé chiama e lor dice: «Tanta baldanza de la vostra schiatta dunque v'ha preso? Omai l'aria e la terra senza me, venti, a perturbar vi ardite e a sollevar di simili montagne? Io vi..... Ma prima è da chetare i flutti, poi sconterete a me ben altra pena. Fuggite rapidi e al re vostro dite che non a lui, a me fu data in sorte la signoria de' mari e il gran tridente. Egli ha le vostre case, Euro, rupestri; Eolo in quella reggia si pompeggi e regni dentro il carcere de' venti». Cosí dice e piú presto del suo detto placa il gonfio elemento e fa le accolte nubi fuggire e ritornare il sole. Cimòtoe ed insiem Tritone a forza spiccan le navi da l'acuto scoglio: esso le aiuta col tridente ed apre l'ampie sirti e a far mite la marina va con le lievi rote a fior de l'acque. E come in un gran popolo se nata sovente è la sommossa e infuria in cuore l'ignobil volgo, e già fiaccole e pietre volano, l'ira somministra l'armi; allora se un uom veggano preclaro di meriti e virtú, tacciono e stanno con intente le orecchie, e quei gli umori domina ragionando e li addolcisce: cosí tutto del mar cadde il fragore, poi che il Padre levato a guardar l'acque sotto l'aperto ciel move i cavalli con le redini al volo abbandonate. Stanchi gli Eneadi il piú vicino lido si sforzano raggiungere e son volti a le spiagge di Libia. Ivi s'addentra profondo un grembo: un'isola fa porto co' fianchi, a cui rompe da l'alto ogni onda e in lontananti cerchi si divide. Vaste rupi minacciano e due scogli d'ambo le parti il ciel; sotto il lor ciglio addormentato si dilata il mare: ma sopra è scena di vibranti selve e cupo rezzo di boscaglia bruna; di faccia i massi formano una grotta scendenti, e dentro v'è acque dolci e seggi di vivo sasso, casa de le ninfe. Non legame ivi tien le stanche navi, non àncora col suo dente le afferra. Là con sette di tutti i legni suoi entra Enea: per gran voglia de la terra balzano i Teucri a la bramata sponda e si gettano madidi sul lido. Pria trasse da la selce una scintilla Acate e a foglie e ad aridi sarmenti apprese e a l'esca propagò la vampa: poi la intrisa di mar cerere fuori levan que' lassi e i cereali arnesi, affrettandosi il grano preservato tostare al foco e triturar col sasso. Intanto Enea sale uno scoglio e tutto abbraccia con lo sguardo il mar, se nulla Ànteo scorgesse a la mercé del vento e le frigie biremi, o Capi e l'armi alte su l'alta poppa di Caico. Nave in vista nessuna: errar sul lido vede tre cervi, e intiere torme dietro che pascolano sparsi per la valle. Stette ed a l'arco diè di piglio e a' presti dardi, armi che recava il fido Acate; prima i duci che andavano a test'alta inalberando le lor corna atterra, indi dà ne la mandra e con gli strali la fa in frotta fuggir tra quelle frasche, né si ristà che trionfante innanzi non istenda al terren sette gran corpi e con le navi il numero pareggi. Indi va verso il porto e li comparte tra tutti i suoi; e quel vino che avea posto negli orci sul trinacrio lido Aceste il buono eroe dandoli a loro che si partían, distribuisce, e i tristi cuori cosí dicendo riconforta: «Compagni – oh già non siam nuovi a' dolori, – voi che peggio soffriste, a questo ancora porrà una fine Dio. Voi la scillèa rabbia fin presso a' clamorosi scogli sfidaste, conosceste le ciclopie caverne voi: gli spirti richiamate e cacciate il timor mesto; un dí forse questo pur ci sarà grato ricordo. Per le varie vicende e i rischi tanti tendiamo al Lazio, ove ci mostra il fato cheta stanza; ivi può risorger Troia. Durate, e a' dí serbatevi sereni». Cosí dice col labbro e pien d'affanno simula in volto la speranza, preme alto in cuore il dolor. Quelli a la preda s'accingon per lor cibo: da le coste strappan le pelli discoprendo il vivo: chi ne fa pezzi, e tremole agli spiedi le infigge, chi pone sul lido i rami avvampandoli attorno. La vivanda rifà le forze, e s'empion stesi a l'erba di vin vecchio e di pingue selvaggina. Sazia la fame e tolte via le mense, in lungo conversar bramano i loro persi compagni, tra fidanza e tema, o che sian vivi ancora o giunti al fine e non odano piú chi li richiama. Piú che tutti il pio Enea tra sé compiange or del pugnace Oronte, or la iattura d'Àmico ed il crudel fato di Lico; compiange il forte Gía, Cloanto forte. E cessavano omai, quando dal sommo mirando Giove al mare veleggiato ed a l'umili terre e a' lidi e a' lati popoli, cosí stette in vetta al cielo e ne' regni di Libia il guardo affisse. A lui che tale in cuor volgea pensiero mesta di pianto sparsa gli occhi belli parla Venere: «O tu ch'uomini e Dei regni eterno e col fulmine atterrisci, qual contro te il mio Enea colpa sí grande o poteron commettere i Troiani, a' quali dopo tante morti tutto davanti a Italia s'attraversa il mondo? Pur da loro, col volgere degli anni, nascituri i Romani promettesti; da loro un dí, dal rinfrescato sangue di Teucro i duci che la terra e il mare avrebbero in balía: deh! padre, quale pensier ti cangia? In questo io consolava il doloroso ruinar di Troia, co' fati i fati avversi compensando: invece è la medesima fortuna che dopo tanto perigliar li preme. Qual concedi, gran Re, fine a' travagli? Antènore poté di tra gli Achivi sfuggir, ne' golfi illirici securo penetrare e ne' regni de' Liburni e valicar la fonte del Timavo, onde con vasto murmure del monte va qual dirotto mar per nove bocche e risonante allaga le campagne. Pur quivi egli fondò Padova a stanza de' Teucri, diede a la sua gente un nome e appese le troiane armi; tranquillo ora in placida pace si riposa. Noi tua progenie, cui le vette assenti del ciel, perdute ahimè le navi, siamo per l'ira d'una sola abbandonati e risospinti da l'Italia. Questo premio ha pietà? cosí ci rendi al regno?». A quella sorridendo il Creatore degli uomini e de' numi con quel volto che rasserena il cielo e le tempeste sfiorò le labbra de la figlia, e dice: «Non temer, Citerèa: ti resta immoto il destino de' tuoi: vedrai la cerchia di Lavinio murar che t'è promessa e il magnanimo Enea solleverai tra gli astri in cielo: me pensier non cangia. Quel tuo (dirò, poi che di ciò t'affanni, e piú largo aprirò de' fati il velo) grande farà guerra in Italia e, dome fiere genti, darà norme e dimore, fin che la terza estate abbia veduto lui nel Lazio regnare e sian tre verni a' soggiogati Rutuli trascorsi. Indi il fanciullo Ascanio, che ora il nome ha di Giulo, Ilo fu mentr'Ilio stette, trenta imperando giri ampli di mesi compirà, trasporrà la regia sede da Lavinio a la Lunga Alba munita. Quivi omai per trecento anni seguiti regno sarà sotto l'ettorea gente, fin che real sacerdotessa a Marte Ilia partorirà prole gemella. Lieto Romolo poi del fulvo vello de la lupa nutrice avrà in retaggio la gente, fonderà le marzie mura, li chiamerà dal nome suo Romani. A costoro né termini di cose io pongo né di tempo: ho dato loro imperio senza fine. Anch'essa inoltre l'acerba Giuno, che or la terra e il mare e il ciel sconvolge sospettosa, in meglio tornerà il cuor, meco amerà di Roma il dominante popolo togato. Cosí piacque. Verrà co' tempi il tempo che la casa di Assàraco si renda soggetta Ftia con l'inclita Micene e signoreggi in Argo debellata. Troiano nascerà dal gentil ceppo Cesare, con l'Oceano l'impero e a limitar la fama con le stelle, Giulio, nome dal gran Giulo disceso. Un dí nel ciel tu lui pien de le spoglie de l'orïente accoglierai serena; invocato egli pur sarà ne' voti. Posate allor le guerre, il fiero tempo s'addolcirà: la Fe' candida e Vesta, Quirino col fratel Remo daranno leggi; saran con ferrëi serrami chiuse le dure porte de la Guerra; prigione dentro il Furor bieco, assiso sopra l'armi crudeli e avvinto a tergo da cento bronzei ceppi, orribilmente fremerà con la bocca sanguinosa». Cosí dice, e il figliuol di Maia invia, sí che la terra e l'arci de la nuova Cartago a' Teucri s'aprano ospitali, né ignara del destin Dido li cacci dal paese. Quei va per l'aër vasto col remeggio de l'ali ed a la Libia subito è giunto. Ecco che adempie il cenno, e depongono i Peni il cuor nemico, volente il dio: su tutti la regina mansueta si rende e generosa. Ma il pio Enea tutto in pensier la notte, come prima fruí la bella luce, si propose cercare i luoghi novi ed a che piagge l'ha portato il vento, se sia d'uomini stanza o sia di belve (ché incolto vede), e riferirne a' suoi. La flotta nel convesso de le selve nasconde sotto il ciglio de la rupe, chiusa tra gli stormenti alberi ombrosi: esso sen va, compagno il solo Acate, con due di largo ferro aste tra mano. Ecco, la madre gli si offerse incontro ne' boschi, con la faccia e la persona di giovinetta, in armi di spartana, o qual la trace Arpàlice i cavalli stanca, e supera al corso il rapido Ebro. Da cacciatrice agli omeri sospeso aveva il docile arco e sparsi al vento i capelli; scoperta le ginocchia, e rannodate le fluenti pieghe. «Oh, per prima esclamò, giovani, dite, se una qui forse de le mie sorelle con la faretra al fianco errar vedeste e gridando inseguir corso di lince dal pel macchiato o di cignal schiumoso». Cosí Venere, e fa cosí risposta di Venere il figliuol: «Udita o vista non ho nessuna de le tue sorelle, o.... Come debbo, vergine, chiamarti? l'aspetto tuo non è mortal, né donna suona la voce –; o certamente dea – la sorella di Febo? o de la stirpe de le Ninfe una? –, sii propizia e il nostro affanno allevia, qual tu sia: ne insegna sotto che cielo e in qual parte del mondo siam pur fatti vagar; nuovi degli uomini e de' luoghi vagando andiam, cacciati qua da' venti e da l'impeto de' flutti. Molte t'immolerem vittime a l'are». Venere allora: «Oh! non mi faccio degna di tanto. È l'uso a le fanciulle tirie portar faretra, e il purpureo coturno alto a' piedi allacciar. Punico regno, Tirii e città di Agenore tu vedi; ma è suol di Libia, gente rotta a guerra. Tiene Dido l'impero, qui sfuggita da la tiria città via dal fratello. È lunga offesa, lunghe trame; e solo per sommi capi toccherò le cose. Marito a questa donna era Sicheo di tra' Fenici ricchissimo di terre e ch'ella amò perdutamente, data vergine a lui dal padre e disposata co' primi auspíci. Ma di Tiro al regno seguiva il fratel suo Pigmalione, piú malvagio su tutti ed efferato. E tra i cognati si frappose l'ira. Quegli empio e cieco da l'amor de l'oro, nulla pensando al cuor de la sorella, innanzi a l'are ascosamente investe con la spada Sicheo che non si guarda; e celò il fatto a lungo e di fallace speme ingannò la mesta innamorata. Ma l'ombra venne a lei de l'insepolto sposo ne' sogni, e sollevando il viso mirabilmente pallido le aperse l'altar crudele ed il trafitto seno e tutto il bieco orror de la famiglia. Prender la fuga, abbandonar la patria le persuade, e buono al suo viaggio tesoro antico le rivela in terra, ignorato valor d'oro e d'argento. Da tanto indótta preparava Dido la fuga e i soci: si radunan quelli che hann'odio fiero del tiranno o vivo sospetto; navi erano a sorte pronte, e quelle hanno afferrate e d'oro colme. Salpa in mar la dovizia de l'avaro Pigmalion: duce una donna al fatto. Vennero a' luoghi ove or l'eccelse mura vedi e sorger la ròcca de la nova Cartagine, e comprarono terreno, Birsa dal nome de la cosa, quanto con un cuoio taurino avesser cinto. Ma voi chi siete? e da che terra giunti? dove avviati?». Al dimandar di lei egli cosí rispose sospirando con una voce che dal cuor saliva: «O dea, s'io mi rifaccio dal principio e i fasti attendi udir de' nostri mali, Vespero in ciel chiuderà prima il giorno. Da Troia antica noi, se a' vostri orecchi questo nome sonò, di mare in mare spinse a' libici lidi la tempesta. Sono il pio Enea che meco porto in nave i Penati sottratti a' Greci, noto per fama sino al ciel. Cerco l'Italia nostra, e dal sommo Giove è la mia schiatta. Con venti navi il frigio mare io presi, a me mostrando la dea madre il solco, dietro ai prescritti fati: or sette sole restano, guaste da l'onde e dal vento. Ignoto, ignudo erro le libie lande, d'Europa e d'Asia reietto». Seguire non gli lasciando sua querela triste, Venere interrompea: «Qual che tu sia, non inviso a' Celesti, io credo, l'aure spiri vitali, poi che se' venuto a la tiria città: sol va', procedi a le soglie da qui de la regina. Per ch'io ti annunzio reduci i compagni, resa la flotta e da mutati venti tratti in salvo, se un presagir fallace non m'insegnaron vani i genitori. Sei e sei cigni guarda lieti a schiera, cui l'augello di Giove ruinando da l'aria avea per l'ampio ciel sgomenti, or calarsi ordinati e prender terra o quasi presa già d'alto adocchiarla. Come quelli tornanti batton l'ale e radunati insiem destano il canto, cosí le prore e i prodi tuoi nel porto già sono o v'entrano a spiegate vele. Sol va', prosegui dietro la tua via». Disse, e diè nel rivolgersi dal roseo collo un baleno; sovrumano olezzo spirarono dal suo capo le ambrosie chiome, la veste fino al piè le scorse, e palese a l'andar parve la dea. Egli, come la madre riconobbe, con questo dir la perseguí fuggente: «Tante volte perché, tu pur crudele, illudi il figlio con sembianze false? né mi è dato a la man porre la mano, e parlare e rispondere sincero?». Cosí si duole e a la città s'avvia. Ma Venere d'oscuro aër li cinge e li riveste d'una nebbia folta, che vederli niun possa o toccarli, fermarli o chieder del venir cagione. Alto essa a Pafo rivolò, si rese lieta ne la dimora ov'è il suo tempio e d'incenso sabeo fumano cento altari e odoran di ghirlande fresche. Prendon quelli la via com'è segnata, e già il colle salian che ampio sovrasta la città e d'alto l'arci ne prospetta. Ammira Enea le moli, e fur capanne, e le porte e lo strepito e le strade. Sudano i Tirii a l'opera: chi stende i muri e innalza l'aree e volge a forza macigni; chi, scelto a sua casa il sito, d'un solco il gira: allogan la giustizia e i magistrati e l'inclito senato: altri qui scava i porti, altri là pone profondi del teatro i fondamenti e spicca da le rupi alte colonne, superbo onor de le future scene. Cosí l'api tra 'l sol preme il desío a nova estate per i campi in fiore, quando gli adulti nati di lor gente guidano fuori o stipano il fluente miele e spalman del nettare le celle, o alleviano dal peso le tornanti, o schierate respingon da' presepi l'ignavo stuol de' fuchi: ferve l'opra e dà sentor di timo il miel fragrante. «Fortunati, la cui città già sorge!», esclama Enea guardando alto i fastigi. E avvolto in nebbia va, prodigio a dire, per mezzo a tutti né il discerne alcuno. Nel cuor de la città, beato d'ombra un bosco fu, dove da prima i Peni da' marosi e dal turbine sbattuti scavarono il segnal che la dea Giuno predetto avea, la testa d'un destriero: onde sarà ne' secoli la gente possente in guerra ed abbondante in pace. Ivi un gran tempio la sidonia Dido fabbricava a Giunone, per i doni splendido e pel favore de la dea. Bronzea su' gradi ne sorgea la soglia, le travi in bronzo avvinte, a bronzee porte il cardine stridea. Qui nova cosa si offerse che lení prima il timore, qui prima Enea sperare osò salvezza e consolarsi de l'afflitto stato. Ché mentre sotto l'ampia volta esplora ogni cosa, aspettando la regina, mentre il fiorir de la città contempla e in gara degli artefici la mano e l'industria de l'opere, ecco vede in ordine le iliache battaglie e la guerra dovunque omai famosa, gli Atridi e Priamo e fiero a entrambi Achille. Si fermò lagrimando e disse: «Acate, qual resta luogo o regïone al mondo che non sia piena del nostro dolore? Ecco Priamo! Anche qui virtú si pregia, e piange la pietà sui casi umani. Non temer piú: ti recherà tal fama alcuno scampo». Cosí dice, e gode di quel vano dipinto sospirando e largamente inumidisce il volto. Ché guerreggianti a Pergamo d'intorno qua vedea fuggir Greci avanti al nerbo troiano, e Frigi là col carro a tergo di Achille dal chiomato elmo. Non lungi ravvisa lagrimando i padiglioni di Reso a bianche vele, che traditi dal primo sonno devastava rosso il Tidide di strage, e i bei cavalli via ne sospinse verso il campo, prima che avessero gustata erba di Troia o bevuto lo Xanto. In altra parte Troilo fuggendo, perse l'armi, infausto giovinetto e affrontatosi ineguale ad Achille, portato è dai cavalli aderente supino al carro vuoto pur tenendo le briglie; il capo e i crini gli son per terra trascinati, ed è la polve da la rovescia asta rigata. Andavano le Iliadi frattanto recando il peplo al tempio de l'avversa Pallade, sciolte il crin, battendo il petto, supplicemente accorate: la dea tien fisso a terra in altra parte il guardo. Achille intorno de l'iliache mura tre volte tratto a forza Ettore aveva e a prezzo ne vendea la salma. Oh allora mette dal cuor profondo un gran sospiro, quando le spoglie, quando il carro, quando esso innanzi si vide il morto amico e Priamo che tendea le palme inermi! Riconobbe anche sé tra i duci achei, gli orïentali eserciti e del nero Mèmnone l'armi. Impetüosa, guida Pentesilèa con le lunate targhe le squadre de le Amazzoni e, succinta di cinghio d'oro la mammella ignuda, in mezzo a' mille e mille arde guerriera né paventa sfidar vergine i prodi. Mentre al dardanio Enea si scopron queste maraviglie, mentr'ei si sta rapito e fiso a contemplarle, al tempio è mossa la regina bellissima Didone, da florido corteggio accompagnata. Quale in riva a l'Eurota o per i gioghi del Cinto i cori esercita Dïana, cui cerchian mille Orèadi seguaci; essa a le spalle ha la faretra e andando sopravanza le ninfe tuttequante; tenta il cuor di Latona occulta gioia: tale era Dido, tale procedea luminosa tra' suoi, invigilando al fondamento de' futuri regni. Poi de la Diva su le soglie, sotto la volta sacra, in mezzo, d'armi cinta e salita sul trono alto, si assise. Dettava a' suoi ragioni e leggi, ed equa partiva o sorteggiava le fatiche; quand'ecco Enea tra gran concorso vede Anteo e Sergesto giungere ed il forte Cloanto ed altri Teucri che per l'onde disseminati la procella fosca e spinti aveva a piú remote prode. Esso stupí, stupí sorpreso Acate tra gioia e tema: ardean stringer le destre, ma li turba nel cuor la cosa ignota. Se ne stanno, e vestiti de la nube attendono qual sia de' loro il caso, ove approdati, a che vengano: poi che scelti venian da tutti i legni a chieder grazia e premevan tra il clamore al tempio. Entrati e avuta del parlar licenza, l'annoso Ilïoneo pacatamente incominciò: «Regina, cui diè Giove nova città fondare e con giustizia frenar genti superbe, te preghiamo noi Troiani infelici al vento vòlti per ogni mare: lo spietato incendio da le navi allontana, una pia stirpe risparmia, in noi piú giusto abbi riguardo. Già non venimmo a devastar col ferro i libici Penati e trarre al lido rapite prede: ché non hanno in cuore tal vïolenza né superbia i vinti. È un luogo, Esperia l'usan dire i Grai, fiera in armi e ferace antica terra: gli Enotri l'abitarono, ora è fama che dal nome di un duce i discendenti nominata la gente abbiano Italia. Era quella la meta; allor che gonfio d'improvviso flutto il nemboso Orïone ci travolse e in balía de' protervi austri per l'onde, sopraffatti dal pelago, e per gli aspri scogli ci dissipò: pochi di noi accostar ci potemmo al vostro lido. Che gente è qui? qual sí barbara patria tali modi consente? Ributtati siam da lo scampo de la sabbia: guerra movono, d'afferrar vietan la sponda. Se gli uomini e le umane armi sprezzate, oh pensate agli Dei che son custodi e del bene e del male! Era il re nostro Enea, di cui non fu piú giusto alcuno né di pietà maggiore o di prodezza. Che se il destino a noi lo serba, s'egli spira le vivide aure e ancor non giace ne le crudeli tenebre, siam salvi; né ti dorrai che gareggiasti prima tu di benignità. Città pur sono ne la region sicilïana ed armi e da sangue troiano inclito Aceste. Il fiaccato da' venti a riva trarre naviglio sia concesso, e dalle selve le tavole foggiar, sfrondare i remi: sí che, se lecito è cercar l'Italia co' soci e il re ricuperato, lieti verso l'Italia e il Lazio navighiamo; ma se persa è salvezza, e te, de' Teucri ottimo padre, il mar di Libia tiene, e piú la speme non riman di Giulo, ai porti di Sicilia ed a le pronte dimore almeno, onde qui fummo spinti, ed al regno di Aceste alziam la vela». Ilïoneo cosí: fremeano assenso i Dardanidi intorno. Breve Didone allor con gli occhi bassi parla: «Dal cuor sgombrate ogni sospetto, posate, o Teucri, da l'affanno. Il duro stato e la novità del regno questi modi a tener mi sforzano e di guardie tutti all'in giro assicurare i lidi. Chi gli Eneadi, chi può Troia ignorare? e gli eroi e l'incendio di tal guerra? Non sí ottusi sensi abbiam noi Peni né da qui sí remoto il Sol carreggia. O che l'Esperia grande ed i saturnii campi cerchiate, o d'Èrice il paese e Aceste re, vi manderò sicuri e vi agevolerò per il cammino. O qui pur vi volete, in questo regno, con me restare? La città ch'io fondo è vostra: i legni ritraete a riva; fra Teucri e Tirii non porrò divario. Fosse presente anch'esso il re, sospinto dal medesimo Noto, Enea! Ben io per ogni spiaggia manderò fedeli tutta Libia a cercar, se forse ei vada per selve o per città naufrago errando». Cresciuti in cuore a questi detti, il forte Acate e il padre Enea viepiú che dianzi ardevano d'erompere la nube. Per il primo ad Enea volgesi Acate: «O figlio de la Dea, quale or ti nasce pensiero in mente? Sicurtà qui vedi, e racquistati i legni ed i compagni. Sol quello manca che mirammo noi esser sommerso in mezzo a la burrasca: risponde il resto al detto de la madre». Parlato appena avea cosí, che pronta s'apre la nube che tenéali avvolti ed in aëre libero si solve. Alto rifulse in chiara luce Enea, simile il volto e gli omeri a un iddio: ch'essa al figlio la madre adorne chiome e purpureo splendor di giovinezza e novo incanto avea spirato al guardo; quale a l'avorio aggiunge l'arte fregio, o se l'argento o se la paria pietra si fa di biondeggiante oro contorno. Allor cosí si volge a la regina e subito imprevisto a tutti parla: «Presente, quegli che cercate, io sono, Enea troiano, al libio mar scampato. O di Troia al dolor sola pietosa, che noi, avanzo de' Danai, già corso de la terra e del mare ogni periglio, poveri in tutto, di città e di casa soci ti fai, render le grazie degne non è in nostro poter, Dido, e di quanta sparsa pe 'l mondo va gente dardania. A te gli Dei, se Dei guardano i buoni, se vale in terra la giustizia e un cuore conscio di sua virtú, dian premio degno. Qual ti portò beata età? di quali sí gran parenti cosí fatta nasci? Mentre che i fiumi correranno al mare, e gireranno l'ombre i seni a' monti, mentre il ciel pascerà le stelle, sempre il tuo nome e la gloria dureranno, qualunque terra attenda me». Ciò detto, porge a l'amico Ilïoneo la destra e la manca a Seresto, agli altri poi, ed al forte Cloanto e al forte Gía. Stupí Dido sidonia a l'apparire indi a tanta vicenda de l'eroe, e mosse il labbro: «Qual ventura a tali cimenti, figlio de la Dea, t'incalza? qual preme forza a l'inclementi prode? Tu quell'Enëa che al dardanio Anchise partorí l'alma Venere lunghesso il frigio Simoenta? Io, sí, rammento venir Teucro a Sidone, di sua patria cacciato, a ricercar novello regno con l'ausilio di Belo: il padre Belo iva struggendo allor la ricca Cipro e trionfante la signoreggiava. Fin da quel tempo seppi la iattura de la città troiana e il nome tuo e i re pelasghi. Quel nemico istesso i Teucri celebrava e da l'antica stirpe de' Teucri si volea disceso. Entrate or dunque ne le case nostre, giovani. Me pur simile fortuna spinse per molte prove, e in questa terra fece al fine posar: di mali esperta a soccorrere imparo gl'infelici». Cosí parla; ed insieme Enea conduce a la reggia, insiem fa ne' templi a' Numi sacrificare. E non frattanto oblia venti tori mandar sul lido a' soci, cento di grandi porci irsute schiene e cento pingui con le madri agnelli, doni e gioia del dí. Ma di lusso regal si adorna e splende la casa dentro, ed il convito in mezzo v'apparecchiano: drappi lavorati con arte in prezïoso ostro, dovizia d'argento su le mense, e in oro incisi, serie infinita, i gran fatti de' padri, di tempo in tempo da l'origin prima. Enea, poi che il paterno amor non lascia ch'ei non vi pensi, rapido a le navi spedisce Acate, che ad Ascanio rechi le nuove e lui a la città conduca: tutto in Ascanio è di suo padre il cuore. I doni ancor sottratti a le ruine iliache ingiunge di portar, la palla rigida tutta di figure d'oro e il vel di giallo acanto attornïato, fogge che fur d'Elena argiva, ed essa, movendo a Troia ed al vietato imene, da Micene con sé le avea portate, mirabil dono di sua madre Leda; e lo scettro che un giorno Ilíone resse, de le figlie di Priamo la prima, e il monile di perle e la corona mezza tra gemme e oro. Queste cose affrettando, a le navi Acate andava. Ma Citerea nuove arti e pensier novo volge in cuor, che mutato le sembianze e venga Cupído per il dolce Ascanio e follemente accenda la regina co' doni e metta a lei per l'ossa il fuoco. Ch'ella ha in sospetto quella dubbia casa ed i Tirii bilingui, la tormenta l'atroce Giuno, e il pensier cresce a sera. Dunque a l'alato Amor cosí favella: «Figlio, potenza, onnipotenza mia, figlio che del gran Padre il dardo spregi a Tifoèo tremendo, a te ricorro, supplice imploro il nume tuo. Che in mare il tuo fratello Enea di riva in riva sbattuto vien per l'odio di Giunone inimica, son cose che tu sai e ti dolesti spesso al mio dolore. Or la fenicia Dido il tiene e lega con lusinghiere voci, e temo a che le giunonie riescano accoglienze: già non pensa a ritrarsi in sí gran punto. Però sorprender la regina innanzi vogl'io con arti e cingerla di fiamma, che per veruna deità non cangi, ma sia meco ad Enea stretta d'amore. Odi, com'abbi a fare, il pensier mio. Il fanciullo real che ho tanto a cuore del caro padre al cenno ir si prepara a la città sidonia, co' presenti salvi dal mare e da l'ardor di Troia. Lui sopito nel sonno sopra l'alta Citèra o su l'Idalio in sacra sede io celerò, cosí ch'egli non possa risaper l'artificio ed interporsi. Le sembianze di lui sola una notte simula e del fanciullo tu fanciullo il noto volto prendi, sí che quando lietissima t'avrà Didone in grembo tra le mense regali e i lieti vini, e amplessi ti darà, teneri baci t'imprimerà, e tu a lei nascoso infonda fuoco e tòsco inavvertito». A' detti de la cara genitrice ubbidïente Amor l'ali si spoglia e col passo di Giulo allegro move. Ma Venere ad Ascanio per le membra sparge quïete placida ed in braccio su ne' boschi lo reca alti d'Idalia, là dove il molle amàraco l'avvolge di soave ombra e d'olezzanti fiori. Docile al detto ecco venir, co' regi doni pe' Tirii, e avea compagno Acate, Cupído. Al giunger suo, tra le pareti fulgide la regina s'è composta su l'aurea sponda e collocata in mezzo: il padre Enea, la gioventú troiana già convengono e adagiansi al convito su la distesa porpora. A le mani danno l'acqua i valletti e da' canestri tolgono il pane e lisci d'ogni vello porgono lini. Son cinquanta ancelle a disporre la lunga imbandigione dentro e a' Penati alimentar la fiamma; cento altre quivi, e d'una età con loro altrettanti ministri, a ricolmare di vivande le mense e a porre i nappi. Anch'essi i Tirii le festanti soglie popolano e son fatti su' dipinti letti adagiare. Ammirano d'Enea i doni, ammiran Giulo ed il raggiante volto del nume e i finti detti, il manto e il vel trapunto di dorato acanto. Di tutti piú, sacra al futuro danno, la Fenicia infelice non si sazia e piú arde guardando, e del fanciullo è del pari commossa e de' presenti. Esso, poi che d'Enea sospeso al collo appagò del non vero padre il grande amore, corre a la regina. Questa ha le pupille e tutto il cuore in lui, e in grembo anche il riceve, inconscia Dido qual grande iddio su lei misera posi. Memore ei ben de l'acidalia madre s'accinge e studia a cancellar Sicheo, e move a vincer con un vivo affetto i sensi e il cuor da tempo dissueti. Al posar primo del banchetto, via tolte le mense, appongono i crateri grandi e i vini coronano. È un clamore per le stanze, le voci empion le volte: pendono i lumi da' soffitti aurati e vive torce vincono la notte. Qui la regina chiese un nappo grave di gemme e d'oro, e lo colmò di vino, in uso a Belo e a quanti son da Belo; e fu silenzio per le stanze allora: «O Giove, poi che agli ospiti dar legge dicono te, tu questo dí fa lieto a' Tirii e a quei che vennero da Troia, e che l'abbiano a mente i nostri figli. Dator di gioia Bacco assista e amica Giuno: e al banchetto voi deh! convenite, Tirii, di cuore». Disse, e su le mense la primizia del calice spargea; indi per prima vi posò le labbra, e a Bitia il diè garrendolo: voglioso da lo spumante pieno oro egli bevve, e di poi gli altri príncipi. Il chiomato Iopa tocca la dorata cetra, discepolo che fu del sommo Atlante. Canta l'errante Luna e le fatiche del Sol; onde degli uomini la stirpe ed i bruti; onde sia la pioggia e il lampo, Arturo e le piovose Iadi e i due Trioni; e perché tanto gl'invernali soli s'affrettino a tuffarsi in mare, e qual le notti lente arresti indugio. Raddoppian plauso i Tirii e i Teucri insieme. Essa in vario colloquio l'infelice Dido la notte protraeva e a lungo bevea l'amore, molto intorno a Priamo, molto a Ettore intorno domandando, e con quali armi il figlio de l'Aurora fosse venuto, e quali Dïomede cavalli avea, com'era grande Achille. «Su via, poi dice, da l'inizio primo, ospite, a noi de' Danai l'insidia narra e de' tuoi l'offesa e il tuo viaggio; ché la settima estate or già ti porta per le terre vagante e le marine». |
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