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LIBRO QUARTO
Ma la regina, di profondo affanno pur dianzi vinta, la ferita in cuore nutre e si strugge di nascosta fiamma. Sempre il valore de l'eroe, l'onore de la gente ritorna al suo pensiero; ha fitti in seno il volto e le parole, né dà la passïon pace a le membra. Il domani schiariva col febeo lume le terre e avea di ciel l'Aurora l'umid'ombra cacciata; ella si volge fuor di sé quasi a la fedel sorella: «Anna sorella mia, quali mai sogni mi turbano e mi affannano? Che novo ospite è questo che ci giunse in casa? quale aspetto! che forte cuor! che braccio! Credo ben io, né credo invan, che stirpe è degli Dei: i tralignanti accusa lor viltà. Da che fati ahimè sospinto! quali narrava superate guerre! Se nel mio cuore immobilmente ferma non fossi a ricusar nodo di nozze, poi che morendo il primo amor m'illuse; se preso in odio il talamo e le tede già non avessi, fors'ell'era questa l'unica colpa cui ceduto avrei. Anna, il confesserò, sí, dopo il fato del misero Sicheo mio sposo e il sangue di che il fratello empí la casa, solo questi m'ha scosso i sensi e il cuor che trema: conosco i segni de l'antica fiamma. Ma prima s'apra a me la terra cupa e mi fulmini il gran Padre tra l'ombre, le pallide ombre e l'infinita notte, ch'io te, Pudore, o le tue leggi offenda. Quegli che primo a sé mi strinse, il mio amor se ne portò; quegli se l'abbia sepolto insieme». Cosí disse, e in seno il pianto le proruppe. Anna risponde: «O piú cara del giorno a la sorella, e tutta sfiorirai la giovinezza da sola, senza i dolci figli, senza di Venere le gioie? E di ciò pensi che si curi la cenere de' morti? Sia, nel tuo lutto un dí non ti piegava sposo di Libia, e non di Tiro prima; Iarba disprezzasti e gli altri duci che ricca di trionfi Africa nutre: resisterai anche a un gradito amore? Né ti sovviene in qual terren tu vivi? hai da una parte le città getúle, stirpe guerriera, e i Númidi sbrigliati e l'inospita Sirti; le assetate lande hai da l'altra ed il furor barcèo che largo inonda. E debbo dir le guerre imminenti da Tiro e la minaccia del germano? Auspici inver gli Dei, penso, e arridente Giunone, questo solco hanno tenuto veleggiando l'iliache carene. Quale vedrai questa città, sorella, qual sorger regno per connubio tale! de' Teucri amiche l'armi, ne l'imprese quanta grandeggerà punica gloria! La grazia sol de' Numi implora e, i riti compiuti, a l'ospitalità ti dona; trova cagioni a l'indugiar, nel mentre che il verno infuria ed Orïon nemboso sul mar, né sani sono i legni; mentre male i nembi si affrontano». Con questi detti d'immenso amor l'animo accese, diè speme al dubbio cuor, vinse il ritegno. Vanno da prima a' templi, e ad ogni altare e chiedon grazia: le scelte agne di rito a Cerere leggifera ed a Febo immolano e a Lieo padre, su tutti a Giuno ch'è de' nodi coniugali protettrice. Bellissima Didone versa una tazza con la propria destra fra le corna di candida giovenca, o davanti agli Dei ed a le pingui are si spazia; con le offerte inizia il giorno, e china sopra l'ostie scisse le palpitanti viscere consulta. Oh misero pensier degl'indovini! che fanno i voti e i templi a la furente? Fiamma divora l'intime midolle intanto e muta in sen vive la piaga. Arde Dido infelice, e forsennata scorre per tutta la città, qual cerva cui lunge incauta tra le macchie in Creta un pastore, incalzandola di strali, con un la colse e in lei lasciò l'alato dardo senza saperlo; e quella in fuga per le fratte e i dittèi balzi dilegua, ma la punta mortal fitta è nel fianco. Or seco Enea per mezzo a' suoi conduce, gli mostra la sidonia floridezza e pronta la città; prende a parlare ed a mezzo il parlar s'arresta: or torna col dí cadente a' soliti conviti e chiede ancora udir le iliache pene e pende ancor del narrator dal labbro. Come poi son partiti e l'ora viene che vela il lume suo scura la luna e il sonno chiaman le cadenti stelle, sola si strugge ne le stanze vuote e resta sui tappeti abbandonati. Lontana lui lontano ascolta e vede, o vinta a la paterna somiglianza gode di trattenersi Ascanio in grembo, se illuder possa il tormentoso amore. Non salgon piú le torri incominciate; non trattan l'arme i giovani, né a' porti sudano e a' forti arnesi de la guerra: pendon l'opre interrotte e le minacce vaste de' muri e i palchi alzati al cielo. Appena vide lei dal mal sí presa, né ritegno, la fama a la follia, la Saturnia di Giove amata sposa con questo ragionar Venere assale: «Splendida lode in ver, trofei superbi tu col figliuolo tuo ne riportate: meraviglioso e memorabil vanto, per l'arte di due Dei vinta una donna! Già non mi sfugge che le nostre mura tu paventando, per sospette avevi le case di Cartagine alta. E quando porrai fine? a che piú tanto armeggiare? Perché piuttosto non esercitiamo eterna pace e nuzïali patti? Già quello hai tu che avidamente ambivi: arde amorosa Dido e fino a l'ossa bevve la frenesia. Dunque comune questo popol reggiamo àuspici eguali: io non vieto obbedir frigio marito e dare i Tirii a la tua destra in dote». A lei (ché falso favellar la intese, per istornare a' lidi de la Libia d'Italia il regno) Venere rispose: «Chi a ciò darebbe folle una ripulsa eleggendo di far con te la guerra? sol che fortuna prosperi l'evento qual tu dici – son io dubbia de' fati – e un'unica città Giove consenta avere i Tirii e i profughi da Troia e mescolarsi ed allearsi in patto. La moglie sei, e puoi tentar pregando il suo talento. Va', ti terrò dietro». Soggiunse allora la regal Giunone «Mia sarà questa cura. Or di che guisa quello si possa adempiere che preme, ti mostrerò, m'ascolta, in breve. Enea e con lui l'amantissima Didone si preparano andar ne' boschi a caccia, non appena domani il sol nascente co' suoi raggi riveli l'universo. Io di grandine misto un nero nembo, mentre le schiere a collocar le reti s'affannano, rovescerò su loro e moverò tutto tonante il cielo. Qua e là fuggiran gli altri, ne la cupa notte ravvolti: Dido e il teucro duce ripareranno a la spelonca stessa. Quivi sarò: se il tuo piacer m'è chiaro, glie la unirò di stabile connubio per sempre sua. Sarà quivi Imeneo». Annuí senza opporsi a la chiedente e sorrise a le trame Citerèa. L'Aurora intanto da l'Oceano è sorta. Vien da le porte col novello raggio la eletta gioventú. Là reti rade e lacci e giavellotti a larga lama e accorrono massíli cavalieri e de' cani il sottil fiuto. A le soglie stanno i primi de' Peni ad aspettare la regina nel talamo indugiata: e d'ostro e d'oro splendido un destriero impazïente morde il fren schiumoso. Ella si avanza alfin tra un gran corteggio in clamide sidonia ricamata a' lembi: d'oro ha la faretra, in oro annodati i capelli, ed un fermaglio d'oro raccoglie la purpurea veste. Ecco i frigi compagni anch'essi e lieto Giulo apparir: bellissimo su tutti Enea procede e le due squadre unisce. Qual è Apollo allor che l'invernale Licia lasciando e i corsi de lo Xanto riede a veder la sua materna Delo e desta i cori; misti a l'are intorno Cretesi e Dríopi fremono e dipinti Agatirsi; pe' gioghi va del Cinto esso e il fluente crin preme composto di pieghevole fronda e d'aureo cerchio, romba il turcasso agli omeri: non meno animoso di lui veniva Enea; tanta è beltà nel nobile sembiante. Poi che si giunse agli alti monti e a' covi riposti, giú da' vertici sbalzate corser pe' clivi le selvagge capre; e d'altra parte i cervi le radure trasvolano e s'agglomerano in frotte polverose fuggendosi da' monti. Il giovinetto Ascanio del suo vivo polledro gode in grembo a le vallate ed ora questi in corsa or passa quelli, e agogna pur che tra l'imbelle armento o spumoso cinghial gli si offerisca o discenda nel pian fulvo leone. Comincia intanto a conturbarsi il cielo d'immenso mormorar; grandine e nembo scoppiano quindi. I tirii cacciatori trepidi a caso e i giovani troiani e il dardanio di Venere nipote cercaron qua e là pe' campi asilo: da' monti scrosciano i torrenti. Dido e il teucro duce a la spelonca stessa riparano. La Terra prima e Giuno pronuba danno il segno: arsero lampi nel cielo consapevole al connubio; su le rupi ulularono le Ninfe. Quello il dí primo fu di morte, il primo forier de' mali: ché non ha pensiero Dido di ciò ch'altri ne vegga e dica, e piú non serba quell'amor nel cuore nascostamente, ma nozze lo chiama e fa del nome a la sua colpa velo. Subito per le gran città di Libia la Fama va, la Fama, il piú veloce che sia malanno; vigoreggia per la mobilità e forze acquista andando. Piccola prima e pavida, si leva poi alto a l'aure; sul terren cammina e il capo tra le nuvole nasconde. Lei, narrano, la Terra genitrice irritata de l'ira degli Dei, lei di Ceo e d'Encelado sorella ultima partorí, di piedi celere, agile d'ali, orribil mostro e grande; che quante ha penne per il corpo, tanti, prodigio a dir, sott'esse ha vigili occhi, lingue e bocche le parlano altrettante, tanti dirizza orecchi. A notte vola tra terra e cielo stridula per l'ombra, né chiude al dolce sonno le pupille; il giorno o su' comignoli de' tetti siede spiando o de le torri in cima, ed assorda le gran città, tenace del falso e reo, come del ver, foriera. Questa allora esultante rïempiva le genti di molteplice ridire e il fatto e il finto insieme ricantava: di teucra stirpe esser venuto Enea, e a lui non isdegnar la bella Dido congiungersi; or concordi il verno in gioia quanto è lungo passar, dimenticando i regni, al vil talento abbandonati. Per le bocche la dea questa vergogna sparge: ad Iarba re dirige il volo e gli desta co' detti incendio d'ira. Questi, nato ad Ammon da la rapita Garamantide ninfa, ha posti a Giove cento per l'ampio regno eccelsi templi, cento are, e avea sacrato il vigil fuoco, scolte de' Numi eterne; ed il suol pingue del sangue de le vittime e le soglie de' svarïati serti floride. Egli, sconvolto il cuore e acceso al triste grido, davanti a l'are, in mezzo a' Numi santi, supplice a Giove con le palme tese dicono alzasse instante la preghiera: «Onnipotente Giove, a cui la maura gente su' pinti letti convitata liba l'onor lenèo, vedi tu questo? ovver te fulminante, o genitore, senza ragion temiamo e del terrore son causa fuochi tra le nubi occulti e via con bruto murmure striscianti? Una donna, che profuga nel nostro suolo esigua città fondò per oro, e le diemmo ad arar terra e a dettarvi la legge, ricusò le nozze mie e per signore accolse al regno Enea. Quel Paride, col suo non maschio gregge, sorretto il mento da meonia mitra e il crin stillante, or la rapina gode e noi portiamo a' templi tuoi le offerte alimentando una credenza inane!». Lui che cosí pregava a l'are stretto udí l'Onnipotente e torse gli occhi a le mura regali ed agli amanti de la fama migliore ismemorati. Poi si volge a Mercurio e sí gl'ingiunge: «Figlio, chiana gli zefiri e volando scendi: al dardanio duce che or s'indugia ne la tiria Cartagine e non guarda piú le città concessegli dal fato, parla e reca per l'aëre il mio cenno. Lui la madre bellissima non tale ci promise – né due volte di mano lo strappa a' Grai per questo –, sí ben ch'egli pregna di signorie, guerra spirante reggerebbe l'Italia, la prosapia rivelerebbe che da Teucro scende e darebbe la legge a l'universo. Se non l'infiamma gloria di sí grandi cose né vuole accingersi a fatiche per propria lode, Ascanio ei padre froda de le romane rocche? E che disegna? o per qual mai speranza tra nemica gente dimora ed a l'ausonia prole piú non riguarda né al lavinio suolo? Navighi! questo è tutto, e tu l'annunzia». Aveva detto. Quei si preparava obbedir del gran Padre il cenno, e prima s'allaccia a' piè gli aurei talari: a volo questi su le marine e i continenti il portano alto a par con l'aure lievi. Prende la verga poi: con questa fuori ei chiama l'ombre pallide da l'Orco, altre nel triste Tartaro sommerge, dà il sonno e leva, e chiude gli occhi in morte. Rompe or con essa i venti e tra le nubi torbide varca. E già tra 'l volo scorge il picco e i fianchi eccelsi del rubesto Atlante che sostenta il ciel col capo, d'Atlante che i pineti de la vetta perennemente ha in nuvole ravvolti e dal vento è battuto e da la pioggia: vien la neve a coprir gli omeri; allora scorron dal mento del vegliardo i fiumi e irrigidisce l'irta barba al gelo. Quivi stette librandosi su l'ali; poi s'abbandonò tutto verso l'onde, simile a quell'augel che basso vola intorno a' lidi ed a' pescosi scogli radendo il mar: non altrimenti a volo tra terra e ciel verso il sabbioso lido de la Libia fendea l'aër, venendo dal materno avo, la cillenia prole. Toccati appena con le alate piante i tuguri, discerne Enea che attende a fondar torri e foggiar tetti. Aveva stellata spada di dïaspro biondo e breve manto gli fulgea di tirio murice da le spalle, opera e dono che fatti aveva l'opulenta Dido e divisati a fila d'oro i drappi. Di subito l'assale: «Or tu lavori a' fondamenti di Cartagine alta e tutto moglie la città fai bella, oh immemore del regno e di tue cose! Esso dal chiaro Olimpo a te mi manda il Re de' Numi che ad arbitrio suo volge il cielo e la terra, esso m'ingiunge che per l'aëre il suo cenno ti rechi. Tu che disegni? per qual mai speranza stai neghittoso in libico paese? Se non ti punge gloria di sí grandi cose né ordisci a lode tua fatiche, guarda Ascanio crescente e le speranze di Giulo erede, cui dovuto il regno è de l'Italia e la romana terra». Detto che in tal sentenza ebbe Cillenio, sfuggí tra il dir cosí gli occhi mortali e dileguò ne l'aëre lontano. Ammutí di sé fuori a quell'aspetto Enea; rabbrividí, ritti i capelli, ne le fauci la voce. Via fuggire anela e abbandonar le dolci terre, percosso a l'alto ammonimento e al cenno. Ahi! che farà? con che parole osare mettersi intorno a la regina ardente? qual principio trovar? E il suo pensiero or qua or là rapido ei volge e in ogni parte l'invia per tutte le vicende. Ondeggiando cosí, migliore avviso questo gli parve: Mnèstëo e Sergesto chiama e il forte Seresto; armino cheti la flotta, e i soci adunino a la riva, preparin tutto, e de la cosa nova la ragione dissimulino; ed esso, da che l'ottima Dido è ignara e rotto non teme un tanto amor, vedrà le vie e la piú facile ora a favellarle, e ogni destro che paia. Alacri e lieti tutti ascoltano e adempiono i comandi. Ma la regina presentí le trame (e chi potrebbe eludere un amante?) e le mosse a venir prima sorprese, già inquïeta a' bei giorni. E l'empia Fama riferí parimente a l'amorosa la flotta pronta e prossimo il salpare. Smania, e le cadde il cuor; in furia e in foco erra per tutta la città, qual tíade che balza, mossi appena i sacri arredi, quando al grido di Bacco ogni terz'anno stimolan l'orgie e clamoroso a notte il Citerone chiama a sé. Con queste voci in fine ad Enea parla la prima: «Anche dissimular sí nero eccesso, o perfido, speravi e da la mia terra occulto partir? Né l'amor nostro né la destra un dí porta e non ti arresta Dido che ne morrà di crudel morte? Sotto gli astri invernali armi la flotta e al soffio aquilonar levi le antenne, crudele! E che? se tu or fossi volto non a terre d'altrui né a case ignote, ma stesse ancor l'antica Troia, a Troia veleggeresti per l'ondoso mare? E fuggi me? Per questo pianto e per la tua destra (poi che nulla altro lasciai a me misera io stessa), per il nostro connubio, pe' cominciati imenei, se qualche bene ti fec'io, se nulla ti fu caro di me, pietà di questa casa crollante! e un tal pensier, ti prego, se luogo resta di pregar, deponi. M'odian per cagion tua le genti libie e i tiranni de' Nomadi, ho nemici i Tirii; ancor per te spento è il pudore e la fama di un dí, sola per cui ero a le stelle. A chi me moribonda, ospite, lasci? nome unico omai che riman del consorte. A che vivrei? fin che la mia città strugga il fratello Pigmalïon? fin che il getúlo Iarba schiava mi tragga? Avessi avuta almeno di te pria de la fuga alcuna prole, ed uno mi scherzasse ne la reggia pargolo Enea, che pure a le sembianze ti richiamasse, non del tutto allora mi sentirei delusa e abbandonata». Avea detto. Pe' moniti di Giove immobili teneva ei le pupille ed a forza nel cuor premea l'affanno. Breve risponde alfine: «Io te, regina, sempre confesserò meriti avere quanti a parole noverarne puoi, e caro avrò di ricordarmi Elisa fin ch'io ricordi me, fin che mi regge l'anima queste membra. Per la causa poco dirò. Già non sperai di furto, non te lo figurar, prender la fuga, né mai proffersi maritali tede o venni per tal nodo. Io, se a me il fato viver co' miei auspici consentisse e secondar spontanëo l'affetto, prima vorrei ne la città troiana e co' dolci restar resti de' miei: durerebbero i tetti alti di Priamo ed io rifatta avrei Pergamo a' vinti. Ora Apollo grinèo m'addita invece l'Italia grande, Italia a me le licie sorti: questo l'amor, questa è la patria. Se l'arce di Cartagine e la vista d'afra città sorride a te fenicia, ne l'ausonio terreno e perché vieti posare i Teucri? è lecito anche a noi cercar stranieri regni. Quante volte cinge la notte in velo umido il mondo, quante volte si accendono le stelle, m'avverte in sogno e m'atterrisce offesa l'ombra del padre, Anchise; e Ascanio mio e la iattura del diletto capo cui del regno fatal d'Esperia privo. Or anche il messaggero degli Dei invïato da Giove stesso, il giuro per le nostre due vite, m'ha recato rapido giú per l'aëre il comando: ben io lo vidi in chiara luce il dio entrar le mura e bevvi la sua voce con questi orecchi. Lascia di turbare me fieramente e te col tuo lamento: non spontaneo l'Italia cerco». Lui che cosí dicea guardava obliqua inquïete rotando le pupille e lo percorre con lo sguardo muto tuttoquanto, e cosí prorompe accesa: «Né tua madre una dea né de la stirpe Dardano è autore, o perfido: il selvaggio Caucaso ti creò da l'aspre rupi e ti dieder la poppa ircane tigri. Perché dissimular? peggio che attendo? Sospirò forse o al pianto mio si volse? Lagrimò vinto o compatí l'amante? Quale eccesso è maggior? Ah che oramai né la massima Giuno né il Saturnio padre riguarda a ciò con occhi giusti. Morta al mondo è la fé. Naufrago, nudo lo raccolsi e del regno il posi a parte, folle!; strappai da morte la dispersa flotta, i compagni. Ah che il furor m'invade! Ora l'augure Apollo, ora le licie sorti, da Giove stesso ora invïato il messaggero degli Dei gli reca per l'aure abominevole comando! Hanno i Superi inver questo pensiero, questo zelo li affanna in lor quïete! Te non trattengo né il tuo dir confondo. Va', segui Italia al vento e cerca il regno per l'onde. Oh spero, se i pietosi Numi possono ancor, che degli scogli in mezzo troverai tuo supplizio e a nome Dido sovente chiamerai. Con faci infauste ti seguirò lontana e, quando sole la fredda morte lascerà le membra, ombra ti sarò presso in ogni luogo. Darai, empio, la pena: udrò l'annunzio, l'udrò venire a me giú tra i sepolti». Rompe il colloquio in questo dire e affranta fugge il dí, si rivolge e toglie al guardo, lasciandolo tra pavido e sospeso che molto volea dir. Venuta meno le ancelle la riportano al marmoreo talamo, ivi l'adagian su le coltri. Ma il pio Enea, benché la dolorosa brami di consolar con sue parole, afflitto e il cuor d'amore intenerito, pure ubbidisce al cenno degli Dei e torna a' suoi che piú volonterosi traggon per tutto il lido in mar le navi. Galleggia l'unta chiglia, e da le selve portan remi frascosi e legni grezzi per fretta de la fuga. Migrar li vedi e da le vie fluire; e come allor che un gran mucchio di farro saccheggiano pensose de l'inverno le formiche e ripongon ne la casa, va per le terre il bruno stuol, la preda convogliano in sottil solco tra l'erba, altre per forza d'omeri sospingono i grossi grani, altre a tener le file strette e vive; tutt'opera è il sentiero. Quale a tal vista era il tuo cuore, o Dido, quali i sospiri, mentre l'ampia riva contemplavi gremir da l'alta rocca e tutto sotto a te fervere il mare d'immensa alacrità? Spietato Amore, a che non sforzi tu gli umani petti? Ella è sforzata di tornare a' pianti, di tornare a tentar con le preghiere e l'orgoglio sommettere a l'amore, supplice, sí che nulla d'intentato inutilmente moritura ometta. «Anna, la fretta vedi in tutto il lido: sono concorsi d'ogni parte; omai chiama la vela l'aure, e i naviganti ilari coronarono le poppe. Se aspettarmi potei sí gran dolore, e soffrirlo potrò, sorella. Pure di ciò compiaci, o Anna, l'infelice; ché te sola quel perfido onorava, ti confidava i sentimenti arcani, sola le vie sapevi ed i momenti d'avvicinarlo. Va', sorella, e parla al nemico superbo supplicando. Non io co' Greci in Aulide giurai strugger la teucra gente e non mandai a Pergamo la flotta, né d'Anchise il cenere turbai e l'ombra. Al mio pregar perché dure l'orecchie serra? dove corre? Quest'ultimo conceda dono a la mesta amante: aspetti l'ora buona al viaggio ed i propizi venti. Le antiche nozze ch'ei tradí non chiedo piú, né che privo ei sia del Lazio bello e lasci il regno: un tempo vano io chiedo, una tregua al furor, fin che la mia fortuna insegni a me vinta soffrire. Quest'ultima (oh pietà de la sorella!) grazia domando; e s'ei me la concede, la renderò cresciuta de la morte». Cosí pregava, e tal pianto recando va e vien l'infelicissima sorella. Ma né per pianti ei movesi né voce è che lo pieghi: stanno contro i fati e un dio gli serra placidi gli orecchi. Come qualor nel secolar vigore salda una querce a gara i soffi alpini or di qua or di là tentan scalzare, giú dal tronco che cigola agitato l'alte fronde cospargono il terreno, essa a la rupe sta, le vette al cielo stendendo, quanto le radici a l'Orco: l'eroe cosí percosso e ripercosso è da le voci e stretto il cuor d'affanno; ferma è la mente e vano scorre il pianto. Vinta da' fati allor Dido infelice morte chiama, la vista odia del cielo. A far che nel proposito s'accenda e fugga il dí, mentre poneva offerte su gl'incensati altari, orrendo a dire! vide il liquor sacrato farsi nero e il vin che si mescea torbido sangue. Vide, e a nïun, né a la sorella stessa, lo rivelò. Fu ne la reggia inoltre marmoreo tempio del marito antico, cui venerava con devoto culto, di velli nivei e vaghi serti cinto. Indi parvero udirsi voci e come un chiamar del consorte, mentre scura tenea il mondo la notte, e solitario spesso col grido lúgubre lagnarsi il gufo da' comignoli allungando le note in pianto. Molti ancor presagi di prischi vati colmano d'orrore. Esso ne' sogni Enea fiero persegue la folle; e sempre esser lasciata sola, sempre le par senza compagni andare per lunga via, e nel deserto suolo cercare i Tirii. Tal demente Pènteo rimira de l'Eumenidi la turba e due soli apparire e doppia Tebe; o per le scene Oreste agamennonio quando incalzato fugge da la madre di faci armata e d'atre serpi, e ultrici sul limitare seggono le Furie. Dunque per troppo duol volta in furore e ferma di morire, il tempo e il modo tra sé divisa e, a la mesta sorella volgendosi, il pensier col volto cela e rasserena la speranza in fronte. «Ho trovata la via, – germana, godi con la sorella, – che mi renda lui ovver che da lui me liberi amante. Tra 'l confin de l'Oceano e il sol cadente degli Etiopi è l'ultimo paese, ove il massimo Atlante in su le spalle gira la volta d'astri ardenti fitta. Sacerdotessa di massíla gente indi mostra mi fu, custode al tempio de l'Esperidi, che il suo pasto dava al drago e sacri su la pianta i rami serbava, insiem col rugiadoso miele sonnifero papavero spargendo. Ella si vanta liberare i cuori con gli incanti a sua voglia ed altri invece stringer d'amore, fermar l'acque a' fiumi e far tornar le stelle indietro. L'ombre a notte sveglia: sotto i piè mugghiare vedrai la terra e scendere da' monti gli orni. Giuro agli Dei, cara germana, a te e al dolce capo tuo, che accinta di mal cuore mi sono a magiche arti. Or tu segreta ne le interne stanze innalza a l'aure un rogo, e l'armi sue che lasciò l'empio al talamo sospese, e l'altre cose e il letto coniugale che mi perdé, si gettin sopra: vuole incenerito la sacerdotessa ogni ricordo del crudel guerriero». Cosí detto si tace ed il pallore le invade il volto. Non per questo crede Anna che la germana con le nuove cerimonie pensier veli ferale, né tutto abbraccia in mente quell'incendio o teme piú che in morte di Sicheo. Dunque gli ordini adempie. Ma ne l'intima reggia la regina, gran rogo eretto al ciel di pino e d'elce, stende il luogo di serti e l'incorona di fronda funeral: sopravi, vesti e la spada lasciatale e l'effigie sul letto pone, conscia del futuro. Sorgono l'are intorno, e sciolti i crini tonante invoca la sacerdotessa trecento dèi, e l'Erebo ed il Caos e la trigemina Ecate, tre visi de la vergin Dïana; e sparse avea l'acque del fonte Averno simulate, e adopra le mietute erbe a la luna con falce bronzea, rigogliose e piene d'atro veleno, adopera l'amore spicco di fronte al polledrin che nasce e pretolto a la madre. Essa, il farro; e con pie mani, agli altari presso, l'un piè senza legami, in veste succinta, chiama moritura i Numi e gli astri consci del destino, e prega se v'ha dio protettor memore e giusto degli amanti cui mal risponde amore. Era notte, e godean stanchi il tranquillo sopore i vivi per la terra; cheti eran fatti le selve e il fiero mare, ne l'ora che si volgono le stelle a mezzo il corso, che ogni campo tace; le greggi e i pinti uccelli, e quanti han vita tra le belle acque chiare e gli aspri dumi, ne l'amplesso del sonno e del silenzio [lenían gli affanni ed obliosi i cuori]. Ma non, piena d'angoscia, la Fenicia, e mai non piega al sonno e non accoglie negli occhi o in sen la notte: il dolor cresce ed imperversa risorgendo amore ondeggiante negl'impeti de l'ira. Cosí sta, cosí volge ella in sé stessa «Ed or che fo? Schernita, i pretendenti ritenterò di prima ed il connubio de' Nomadi ambirò supplice, quelli che tante volte già sprezzai mariti? Seguirò dunque i legni iliaci ed ogni cenno de' Teucri? perché inver godere debbo d'averli salvi e viva è in loro la ricordanza del ben far ch'io feci! E, poni ch'io volessi, e chi mi lascia odïata salir le prore altere? Non sai, meschina, oh ancor non sai le frodi de la progenie laömedontèa? Che dunque? mi unirei sola fuggiasca a' marinari glorïanti, o tutte trarrei con me de' Tirii miei le schiere, e, staccatili appena da Sidone, li spingerei sul pelago di nuovo, farei le vele al vento aprir? Su, muori, ché il meritasti, e il duol caccia col ferro. Tu dal mio pianto vinta, tu la prima fai cader su la forsennata questi mali, germana, e l'offri a l'inimico. Non mi fu dato senza nozze e colpa viver la vita, a guisa d'una fiera, e star lontana da sí fatte pene; non tenni fede al cener di Sicheo». Sí grandi ella dal cuor mettea lamenti. Su l'alta poppa, fermo di salpare e già preste le cose, Enea dormiva. Nel sonno a lui l'imagine si offerse del dio tornante ne l'aspetto istesso e di nuovo cosí parve ammonire, Mercurio in tutto, a la voce, al candore, al biondo crine, al fior di giovinezza: «O figlio de la Dea, puoi darti al sonno in tal frangente? folle, e non t'accorgi che pericoli poi ti sono intorno, né i zefiri spirare odi propizi? Ella atroci nel cuor volge disegni, deliberata di morir, e ondeggia in vario impeto d'ire. E tu non fuggi precipitoso mentre n'hai potere? Or or di navi pullulare il mare e fiere scintillar faci vedrai, vedrai la riva in un baglior di fiamme, se te lento l'aurora in questo lido ritroverà. Su via, rompi gl'indugi. Femmina è varia cosa e mobil sempre». Cosí detto, a la notte si confuse. Scosso da l'improvvisa visïone Enea dal sonno balza e sprona i suoi «Precipitosi vi levate, o prodi, a remigare, a inalberar le vele. Di nuovo ecco ci esorta un dio, mandato da l'aër sommo, ad affrettar la fuga ed a tagliar le attorte funi. O santo degli Dei, qual tu sia, ti seguitiamo ed al cenno obbediam festanti ancora. Ci assisti e aiuta placido, e le stelle volgine in cielo amiche». E disse e snuda la fulminëa spada percotendo i legami. Un ardore insieme è in tutti: afferrano ed accorrono; han lasciato la riva, sotto a' legni il mar dispare, torcon le spume e radono l'azzurro. E già spargea di nova luce il mondo la prima Aurora fuor del croceo letto di Titon. La regina appena vide da le vedette imbiancar l'aria e a piene vele la flotta allontanar, né a riva né piú restarsi remigante in porto, tre volte e quattro il bel seno percosse e il biondo crin strappandosi «Deh Giove! se n'andrà dunque, grida, e preso a scherno il nostro regno avrà questo straniero? Non brandiranno l'armi ad inseguirlo da tutta la città? non strapperanno le navi agli arsenali? Oh qua le fiamme presto, gli strali qua! date ne' remi!.... Che dico? e dove son? qual follia nova? Dido infelice, or te l'empiezza offende? Allor dovea, quando gli scettri offrivi. Oh qual braccio, qual cuor l'uom che si vanta portar seco i Penati de la patria e su le spalle il vecchio padre stanco! No 'l poteva io mettere in brani, e in mare gittarlo? e trucidar sua gente, il suo Ascanio stesso ed imbandirlo al padre? Ma dubbia de la lotta era la sorte: fosse; di chi temere io moritura? Portato avrei nel campo i tizzi, empiti di bragia i banchi, il figlio e il padre e il seme spento, e gittata sopra lor me stessa. Sole che tutte l'opere del mondo fiammante scorri, e tu di queste angosce, Giuno, fomite e conscia; Ecate, a notte per la città ne' trivii ululata, e Furie ultrici e Dei de la morente Elisa, date ascolto, contro gli empi deh! rivolgete il provocato nume ed esaudite le nostre preghiere. Se necessario è ch'entri in porto e approdi lo scellerato, e questo chiede il fato di Giove, questo è termin fisso, almeno dal guerreggiar d'una animosa gente stremato, in bando dal paese, lungi da l'amplesso di Giulo, aiuto implori e vegga morti misere de' suoi; e poi che a leggi di gravosa pace reso si sia, non goda il regno e non la dolce luce, ma cada anzi il suo giorno e senza sepoltura in un deserto. Questo io domando, questa voce estrema spargo col sangue. Voi la razza poi, o Tirii, tutta la razza futura con l'odio perseguitela, e sí degno mandate al nostro cenere tributo. Nessuno amor tra i popoli né patto sorgi un da l'ossa mie vendicatore, incalzando i dardanidi coloni con foco e ferro, adesso, un giorno, in ogni tempo che forza assista. I lidi a' lidi avversi, il mare al mare e l'armi a l'armi impreco: pugnino i presenti e i posteri». In questo dir, tutta agitata in cuore, cerca il piú presto romper l'odïosa luce. Però breve si volge a Barce nutrice di Sicheo (ché ne l'antica patria cenere bruna era la sua): «Fammi, buona nutrice, la sorella Anna venir: di' che si terga a l'acqua corrente e qui con sé súbito porti l'agne e l'espïazioni ch'io le dissi; cosí venga, e tu pur mettiti in capo devote bende. Voglio a Giove Stigio l'olocausto compir che ben disposi segnando un fine a questi affanni, e dare al fuoco il rogo del troiano». Dice; e quella con senil fretta s'è mossa. Trepida allor e ne l'impresa atroce Dido ardente, rotando occhi sanguigni, sparsa di macchie le frementi gote, pallida già de la futura morte, nel cuore irrompe de la casa, in cima al rogo sale furibonda e snuda, dono non chiesto a ciò, la teucra spada. Poi che le iliache vesti e il noto letto mirò, sospesa in pianto ed in pensiero un istante, piegò su quella coltre e disse le novissime parole: «O dolci spoglie mentre a' fati e a Dio piaceva, ricevete questa vita e da tanto dolor mi liberate. Vissi, e il cammino che mi diè fortuna percorsi; or grande l'ombra mia sotterra andrà: superba una città fondai, mie mura vidi; vendicai lo sposo e al nemico fratello inflissi pena. Avventurata, ahi troppo avventurata, sol che mai tocco non avesser prore dardanie il nostro lido!» Indi premendo il suo viso a la coltrice «Morremo invendicate, dice, e pur moriamo. Cosí, cosí voglio ire a l'ombre. Miri questa vampa dal mar l'empio troiano; l'augurio abbia con sé de la mia morte». Avea detto, e tra il dire abbandonata su la punta la vedono le ancelle con la spada e le mani sanguinose. Sale il grido a le volte alte; la Fama per la città commossa si propaga: pianti, sospiri e femminili strida scuoton la reggia, e l'aëre risuona d'un immenso dolor, non altrimenti che se rovini da' nemici invasa tutta Cartagine o l'antica Tiro e furenti sormontino le fiamme degli uomini le case e degli Dei. Udí gelando la sorella e a corsa, con l'ugne in faccia e fieri pugni al seno, rompe la folla e chiama la morente: «Era questo, germana? e m'ingannavi? m'apparecchiavan questo il rogo e i fuochi e l'are? Di che pria deserta piango? Non mi volesti per compagna in morte? m'avessi tu chiamata al fato istesso; uno stesso dolore, una stessa ora trafitte entrambe avrebbe. E con le mie mani operai, chiamai con la mia voce i patrii Dei, per poi crudel lasciarti cosí sola a morir! Te e me, sorella, hai spento e tutto il popolo e i sidonii padri e la tua città. Fate ch'io lavi con l'acque la ferita, e se un estremo alito spira, con le labbra il colga». Cosí dicendo avea saliti i gradi tutti ed al sen tra le braccia stringea la moribonda sorella piangendo e tergea con la veste il bruno fiotto. Quella, tentando sollevare i gravi occhi, ricade giú; profonda in petto geme e stride la piaga. Per tre volte sul gomito a fatica si levò, per tre volte ricadde su la coltre, e verso il ciel con le pupille erranti cercò la luce e sospirò a vederla. Allor pietosa Giuno onnipotente del lungo duol, de la difficil morte, Iri mandò giú da l'Olimpo a sciorre l'alma lottante e l'avvincenti membra. Ché, non per fato o meritata fine quella morendo, ma per troppo amore súbito forsennata anzi il suo giorno, Prosèrpina non anche il biondo crine svelto le aveva e lei data a l'Averno. Dunque Iride pe 'l ciel con fulve penne rorida, mille contro al sol colori svarïati traendo, a terra vola e sul suo capo si ristette: «Questo io comandata porto a Dite sacro e te disciolgo da coteste membra». Cosí dice, ed il crine con la destra svelle: ad un punto andò tutto il calore sperso e tra i venti rifuggí la vita. |
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