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Virgilio Eneide IntraText CT - Lettura del testo |
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LIBRO SESTO
Cosí dice piangendo e dà le briglie a la flotta, ed alfin tocca l'euboiche spiagge di Cuma. Voltano le prore a l'alto mar, poi l'ancora col dente tenace assicurava al fondo i legni; le curve poppe fanno siepe a riva. Balzano ardenti i giovani sul lido esperio; e chi sprizzar fa la scintilla ascosa entro la selce, e chi percorre, folte dimore de le fiere, i boschi e i corsi addita de' trovati fiumi. Ma il pio Enea le vette, cui presiede l'alto Apollo, ricerca ed il riposto asilo, immensa grotta, de l'augusta Sibilla, a la qual dona il Delio vate larghezza e fiamma d'ispirata mente e le apre l'avvenir. Quelli già sono sotto il bosco di Trivia e a l'aureo tetto. Dedalo, è fama, Minos re fuggendo, oso fidarsi al ciel su preste penne, nuotò per novo solco a le fredde Orse e su l'arce calcidica leggiero a la fin si librò. Qui reso a terra, a te de l'ali consacrò il remeggio, o Febo, e vasto ti costrusse il tempio. Su la porta è d'Andrògëo la morte, i Cecròpidi poi sforzati a darne in pena ohimè! sette figliuoli ogni anno: ecco l'urna onde uscirono le sorti. Di contro alta sul mar la cnosia terra risponde: ivi ..................................... .......................................................... mista biforme prole il Minotauro,........ ............................................................. ivi quel faticoso avvolgimento di casa; unico Dedalo risolse, pietoso al grande amor de la regina, gl'inganni inestricabili, d'un filo le cieche orme reggendo. E tu gran parte in cosí gran lavoro, Icaro, avresti, se il dolor permetteva: i casi tuoi tentò due volte effigïar ne l'oro, due volte cadder le paterne mani. A tutto seguitando avrebbe volti gli sguardi suoi, se, già mandato innanzi, Acate non mostravasi e con lui di Febo e Trivia la sacerdotessa, Deífobe di Glauco. Ella al re dice: «Non vuol tali spettacoli quest'ora. Meglio sarà sette giovenchi offrire da intatto armento, e tante giusta il rito scelte bidenti». Cosí detto a Enea, (né tardano essi al sacro cenno) i Teucri chiama al gran tempio la sacerdotessa. È l'ampio fianco de l'euboica rupe cavato in antro, e cento larghe entrate v'adducon, cento porte, escono a cento, de la Sibilla oracoli, le voci. S'era giunti a le soglie, ed essa esclama la vergine: «Tempo è di domandare i fati; ecco, ecco il dio!». Tra questo dire, sul limitar, d'un tratto, non eguale né il volto né il color né le rimase composto il crin, ma di furor si gonfia il petto ansante ed il selvaggio cuore: par piú grande né voce ha di mortale, tocca dal soffio già del dio che viene. «Sei lento a' voti ed a le preci, esclama, o teucro Enea, sei lento? E pur non prima si schiuderan de l'ispirata casa le grandi bocche». Cosí detto, tacque. Freddo un brivido corse a' Teucri per le dure ossa, e il re cosí prega dal cuore: «Febo, pio sempre al gran dolor di Troia, che il dardano di Paride reggesti strale contro l'Eacide e la mano, per tanti mari a grandi terre opposti entrai, te duce, e ne' profondi seni de' Massíli e al suol cinto da le Sirti: pure una volta raggiungiam le sponde de l'Italia fuggente, oh fin qui noi la troiana fortuna abbia seguiti! Voi pure omai a la pergàmea gente vi potete placar, Dei tutti e Dee cui dispiacque Ilio e la superba gloria de la Troade. E tu, divina vate, presaga d'avvenir, dammi (non chiedo regno indebito a' fati miei) che i Teucri si posino nel Lazio e le vaganti A Febo e a Trivia allor tutto di marmo un tempio e feste ordinerò dal nome di Febo. Ampio te pur sacrario aspetta ne' regni nostri: ivi porrò tue sorti e gli arcani destini a la mia gente svelati; e scelti avrai ministri, o santa. Sol non fidare a foglie i tuoi presagi, che non volin confusi in preda al vento: prego che parli tu». Qui chiuse il labbro. Ma non di Febo tollerante ancora la profetessa erra per l'antro a furia, se possa il grande iddio scoter dal seno: quello viepiú, l'acerbo cuor domando, preme la indocil bocca e al fren la piega. E de la casa omai le cento grandi porte si spalancarono spontanee e diffusero a l'aure il vaticinio: «O uscito alfin dai gran rischi del mare – ma restano piú gravi in terra –, i Teucri al regno di Lavinio giungeranno, – sgombra il dubbio dal cuor, – ma vorranno anche non esser giunti. Guerre, orrende guerre vedo e il Tebro spumar di molto sangue. Non Símoï né Xanto a te né l'oste dorica verrà meno: un altro Achille già nato è al Lazio, anch'ei figliuol di dea, né contro a' Teucri mancherà mai Giuno, mentre supplice tu ne la strettezza quali non genti implorerai d'Italia, quali città? Causa di tanto danno una sposa di nuovo ospite a' Teucri, di nuovo uno stranier talamo. Tu non cedere a' mali, anzi piú fiero li affronta, per la via che tua fortuna ti darà. Primo t'apparecchia scampo una città, certo nol pensi, greca». Con tali detti la cumèa Sibilla da l'antro sacro fiere ambagi intuona e rugge, d'ombre ravvolgendo il vero: cosí scote le briglie a la fremente e con gli sproni entro la punge Apollo. Quando allentò il furore e la schiumosa bocca fu cheta, prende a dir l'eroe: «Nuova, o vergine, a me né inaspettata faccia non è di mali alcuna: tutti li pregustai, li consumai nel cuore. Prego sol: poi che qui dicon la porta del rege inferno e la palude buia cui riversa Acheronte, a me sia dato a la presenza andar del padre mio: la via m'insegna, il sacro adito m'apri. Lui tra le fiamme e l'incalzar de l'armi sottrassi su questi omeri e salvai da la mischia: compagno al mio viaggio tutti i mari con me, tutte durava le minacce del pelago e del cielo, pur lasso, oltre le forze e la fortuna de la vecchiezza. E ben fu desso a farmi prego e cenno che a te, che a le tue soglie supplice mi rendessi. Or del figliuolo e del padre pietà deh! abbi, o alma, ché tutto puoi, e non inutilmente Ecate ti prepose a' boschi averni. Se Orfeo col suono de le tracie corde richiamar poté l'ombra de la sposa, se Polluce il fratel con morte alterna redense e va e vien per quella via – debbo il gran Téseo ricordarti o Alcide? –, sono disceso anch'io dal sommo Giove». Con tali detti orava e stringea l'are, quando riprese a dir la profetessa: «Divin sangue, Anchisíade troiano, facile è la discesa de l'Averno; dí e notte il fosco Dite ha porta schiusa: ma il piè ritrarre e risalire al sole, questa è l'impresa e la fatica. Pochi, cui benigno amò Giove e acceso ardire a le stelle levò, nati da numi, il poterono. In mezzo è tutto selve, e Cocíto fluendo le circonda del grembo cupo. Ma se tanto affetto, se hai tanto ardore di nuotar due volte lo stigio lago, di veder due volte il Tartaro, e a la folle opera inclini, odi le cose da compirsi avanti. Si cela in un ombroso albero un ramo, d'oro le foglie e la flessibil fronda, a la Giunone inferna consacrato: tutta la selva gli fa velo e l'ombre l'avvolgono nel rezzo de le valli. Ma vietati i segreti di sotterra sono a chiunque non ha colto prima da l'albero l'aurícomo germoglio. Questo come tributo suo la bella Prosèrpina ordinò che le si rechi. Spiccato l'un, non manca l'altro, d'oro, e di metallo egual nasce virgulto. Dunque in alto ricercalo con gli occhi e ritrovato con la man lo spicca: la seguirà da sé docile e pronto se i destini ti chiamano, altrimenti vincerlo non potrai per forza alcuna né schiantarlo col duro ferro. Inoltre ti giace (ah tu nol sai!) morto un amico e di morte contamina la flotta intiera, mentre tu sospeso chiedi responsi a queste soglie. Al suo riposo lui rendi avanti e lo raccogli in tomba. Nere pecore adduci a prima offerta. Solo allora vedrai di Stige i boschi e il regno inaccessibile a' viventi». Disse, e le labbra taciturna chiuse. Enea col volto mesto e fisso il guardo si parte da la grotta e volge in cuore gli ascosi eventi. Il fido Acate è seco tra simili pensier l'orme segnando. Di tante cose discorrean tra loro: qual dicesse la vate amico estinto ed insepolto. E videro Miseno, come fûr presso, su l'asciutto lido, di morte immeritevole finito, l'eolide Miseno, onde non altri piú valse a scoter con la tromba i prodi e ad infiammar squillando la battaglia. Era stato al grand'Ettore compagno e ad Ettore vicino entrava in guerra segnalato pel litüo e la lancia. Poscia che Achille vincitor spogliava quello di vita, del dardanio Enea il fortissimo eroe si pose a fianco, seguace a non minor virtú. Ma intanto che con sua cava conca introna il mare, folle, e squillando chiama in gara i divi, un rivale Triton che gli fu sopra, se credere si vuol, tra le scogliere l'avea ne la spumosa onda sommerso. Dunque tutti fremevano d'intorno in gran compianto, e il pio Enea su tutti. Nessuno indugio, affrettano piangendo de la Sibilla gli ordini, e di tronchi formano a prova l'ara del sepolcro eretto al ciel. Si va ne la foresta annosa, antri profondi de le fiere: precipitan le picëe, percosse suonan da scuri l'elci; ficcan cunei ne' frassini alti e ne le scisse roveri e rotolano grandi orni da' monti. Anch'esso Enea tra tali opere primo esorta i suoi d'eguali armi fornito. E col triste cuor suo ragiona intanto, guardando la foresta immensa, e viene augurando cosí: «Se ora quell'aureo ramo da l'albero apparisse a noi in tanta selva! Poi che ver purtroppo di te parlò, Miseno, la veggente!». Appena detto avea, che due colombe sotto gli occhi di lui venian volando dal cielo e sceser giú sul verde suolo. Riconosce il sovrano eroe gli alati materni e lieto prega: «Oh siate guide, se via c'è; dirigetemi per l'aria ne' boschi ove fa ombra il ricco ramo al suol ferace. E tu ne l'ora incerta non mi mancar, divina madre». E stette, mirando qual dien segno, ove sien volte. E quelle ad avanzarsi pascolando a voli che seguir potesse il guardo. Giunte a la bocca fetida d'Averno, si sollevano rapide e, calando per l'aër lieve, al desïato luogo posan sul duplice albero, dal quale varia fulse tra' rami un'aura d'oro. Qual suole ne le selve al freddo tempo il vischio verdeggiar di fronda nova, cui non la pianta germina, e de' flavi germogli circuir gli agili tronchi; era tale a veder su l'elce bruna quell'oro frondeggiar, tale il virgulto al molle vento susurrava. Enea l'afferra avido e spicca dal suo nodo e a la veggente vergine lo reca. Non meno intanto su la riva i Teucri piangevano Miseno ed a l'infausta salma rendean l'esequie. Una gran pira di pingue pino e rovere segata costrusser prima; d'atre fronde i lati le intrecciano, le pongono davanti il cipresso funerëo, e di sopra la fregiano de l'armi luminose. Parte i caldi lavacri appresta e i rami gorgoglianti a la vampa, e lui gelato lavano ed ungono. Il compianto sorge: adagian poi le membra piante e sopra gettano le purpuree vesti note. S'accostarono al gran feretro alcuni, mesto ufficio, e le faci a mo' de' padri vi tenner sotto con la faccia volta. Insiem s'ardono i doni de l'incenso, le vivande e pioventi olio i crateri. Cadute poi le ceneri, la fiamma finita, i resti e le suggenti brage aspersero di vino e l'ossa accolte Corinèo chiuse in una urna di bronzo. Esso tre volte va con l'acqua pura intorno per gli astanti leggermente rorandoli d'un ramo del benigno ulivo e cosí tutti ebbe lustrati e disse le novissime parole. Ma il pio Enea di gran mole un sepolcro sovrappone a quel prode e l'armi sue e remo e tromba ne l'aërio monte, che Miseno da quello oggi si chiama e il nome per i secoli propaga. Appresso poi sollecito i precetti compie de la Sibilla. Una spelonca profonda fu che spaventosa s'apre, scogliosa; la difendono il padule nero e la tenebría de le foreste, su la qual non potevano gli uccelli stendere il volo impunemente, tale fiato si esala da la tetra gola [onde dissero il luogo Aorno i Grai]. Quattro giovenchi da le terga nere prima vi trae la sacerdote, in fronte lor versa il vino, tra le corna a sommo un ciuffo strappa e, ritüal primizia, getta a' bracieri, alto Ècate, invocando e nel cielo e ne l'Erebo possente. Altri i coltelli sottopone e il caldo sangue riceve ne le tazze. Enea con la spada un'agnella d'atro vello immola de l'Eumenidi a la madre e a la sua gran sorella, ed una vacca sterile a te, Prosèrpina. I notturni riti a lo stigio re quindi principia e intere ammucchia viscere di tori sopra le fiamme, le ferventi fibre di pingue olio spargendo. Ed ecco, presso al nascente chiaror del primo sole, muggir la terra sotto i piè, le vette cominciare a crollarsi de le selve, e per l'ombra ulular parver le cagne appressando la dea. «Lungi, profani! lungi di qui!» la profetessa grida, «e tenetevi fuor da tutto il bosco. E tu invadi la via, snuda la spada: qui si vuol cuore, Enea, qui petto saldo». Detto cosí, si mise furïosa per l'antro aperto, e a la sua duce mossa quei con securo piè move di pari. Dèi che avete de l'anime l'impero, e ombre mute e Caos e Flegetonte, luoghi per la notte ampia taciturni, dir mi sia dato quel che udii, sia dato col voler vostro rivelar le cose sotterra ne la tenebra sepolte. Andavan sotto la solinga notte scuri per l'ombra e per le case vacue di Dite e i vani regni: era un andare qual per l'incerta luna a luce scarsa ne' boschi, quando Giove ha chiuso il cielo nel buio e l'atra notte ha il color tolto a le cose. Al vestibolo davanti, su la bocca de l'Orco prima prima, l'Affanno e le vendicatrici Angosce posero lor covil, v'hanno dimora pallidi i Morbi e infausta la Vecchiezza e la Paura e mala consigliera la Fame e l'Indigenza ontosa, orrori a vedere, e la Morte e la Miseria, e, fratel de la Morte, evvi il Sopore ed i Piaceri de la mente falsi; e su la soglia la Guerra omicida e i ferrei de l'Eumenidi giacigli e la Discordia pazza avvolta in bende sanguinose le chiome viperine. Nel mezzo i rami e le vetuste braccia un olmo stende fosco, grande, e in quello esser si dice a torme i Sogni vani, sí che piú d'un ve n'ha sott'ogni foglia. Molti altri mostri di diverse fiere, i Centauri s'installano a le porte e le Scille biformi e Briareo centímano e la belva sibilante di Lerna e la Chimera irta di fiamme, le Górgoni, le Arpie, l'uom dai tre corpi. Sobbalzando di subito spavento, qui stringe Enea la spada ed a' vegnenti drizza la punta: e se la savia duce non l'ammonisse che le sono esíli incorporee vite vagolanti che paiono persona, irromperebbe a percotere invan l'ombre col ferro. Di qui la via che mena a le tartaree acque de l'Acheronte. Pien di melma bolle con vasto vortice quel flutto e la molta in Cocito arena erutta. Spaventoso nocchier tien la riviera Caronte, d'un'orrenda squallidezza, cui larga invade irta canizie il mento, s'apron gli occhi di fiamma, e da le spalle pende annodato lurido mantello. Esso regge a la barca e remo e vela; su la ferrigna chiglia i corpi porta, vecchio, ma cruda ha il dio verde vecchiezza. Quivi a riva una gran folla correva, donne e uomini, e corpi senza vita di magnanimi eroi, e giovinetti e vergini, e recati sotto gli occhi de' genitori adolescenti al rogo; quante col primo freddo de l'autunno si spiccano ne' boschi e cadon foglie, o quanta da l'oceano a le spiagge va nuvola d'uccelli, allor che il gelo oltre il mare li caccia a terre apriche. Stavan, pregando di passare i primi, e tendevan le mani per amore de l'altra sponda, ma il nocchiero arcigno ora questi ora quei riceve e gli altri allontana e ricaccia da la riva. Enea, sospeso e scosso a quel tumulto, «Dimmi, o vergine, dice, onde tal ressa al fiume? quale han l'anime desio? per che divario queste son respinte, quelle solcan la livida palude?». E breve a lui l'annosa profetessa: «Nato d'Anchise, manifesta prole degli Dei, l'alto stagno di Cocito tu vedi e la palude stigia, il cui nume temon gli Dei giurare invano. Tutta questa che miri è la meschina turba insepolta, quel nocchier Caronte, quelli i sepolti che trasporta l'onda. Né prima è dato il buio greto e il roco flutto passar che abbian riposo l'ossa. Erran cento anni volitando intorno a questi lidi, e finalmente ammessi rivedono gli stagni desïati». Stette il figliuol d'Anchise e tenne il passo, tutto pensoso e in cuor commosso a quella gravosa sorte. Quivi scorge mesti e privi de l'estremo onor Leucaspi e Oronte duce de la licia flotta, che insiem da Troia pe' ventosi mari portati l'austro sopraffece, d'acqua avvolgendo la nave e i naviganti. Ed ecco che il piloto Palinuro veniva, il qual nel libico passaggio pur ora, mentre guarda gli astri, in mezzo a l'onde da la poppa era caduto. Come a stento tra tanta ombra lui mesto vide, primo gli parla: «O Palinuro, qual degli Dei ti tolse a noi e in mezzo a la marina ti sommerse? Dimmi, ché, non trovato mai fallace innanzi, solo in questo responso mi deluse Apollo, il qual te presagiva immune dal pelago dover giungere a' lidi d'Ausonia. Or questa è la promessa fede?» E quegli: «Né di Febo la cortina t'ingannò, Anchisíade condottiero, né mi sommerse un dio ne la marina: ché per sorte il timon schiantato a forza, ch'io stringeva custode e regolava, precipitando trascinai con me. Per le tempeste giuro ch'io non ebbi di me timor, ma che la nave tua, spoglia de l'armi sue, scossa del duce, venisse meno in quel gonfiar de l'onde. Tre tempestose notti per l'immenso mar mi spinse tra' flutti un fiero vento: solo al quarto mattin vidi lontano, su la cresta di un'onda alto, l'Italia. Io mi traea nuotando verso lei, e già terra toccavo, se una gente crudel me grave con le vesti pregne, e che i ronchi ghermía con mani adunche, non assaliva armata, in me pensando, stolta! una preda. Ora mi tiene il flutto e i venti mi percotono sul lido. Dunque pel ciel ti prego e l'aure azzurre, per il tuo genitor, per le speranze del tuo fiorente Giulo, a questo danno strappami, o invitto: o coprimi di terra, ché il puoi, ed il Velín porto ritrova; ovvero, se via v'è, se te ne mostra la diva madre (senza numi, credo, già non prendi a varcar tal fiume e Stige), porgi la destra al misero e mi porta oltre l'acqua con te, sí che in tranquilla sede almeno da morto io mi riposi». Avea detto cosí, cosí riprese la profetessa: «Donde, o Palinuro, cotesta in te sí folle brama? l'acque stigie vedrai tu non sepolto e il fiume severo de l'Eumenidi e a la riva senza cenno verrai? Non isperare che i fati degli Dei pieghino a prego. Ma odi e nota, per conforto al danno: mossi i vicini da celesti segni per le città tutto a l'intorno, l'ossa tue placheranno, le porranno in tomba, a la tomba faranno i riti, e il luogo eterno avrà di Palinuro il nome». A questi detti si temprò l'angoscia e il duolo un tratto uscí dal mesto cuore di quella terra col suo nome gode. Seguono dunque l'intrapresa via accostandosi a l'acqua. Onde il nocchiero infernal non appena li ebbe scorti movere verso il greto per la muta selva il piede, si volge ad assalirli ed a rimproverar cosí: «Chiunque sia tu che armato scendi al nostro fiume, dimmi di costí, dimmi a che ne vieni, e t'arresta. De l'ombre il luogo è questo, del sonno e de la notte soporosa: non può vivi portar la stigia barca. Né davver mi allegrai d'avere accolto Alcíde al passo, e non Tèseo e Pirítoo, benché figli di numi e forti eroi: gettò quegli il guinzaglio al guardïano tartareo, il trasse tremante dal soglio stesso del re; rapir tentaron questi dal talamo di Dite la regina». Breve rispose a ciò l'anfrisia vate: «Non tali insidie qui, lascia gli sdegni, né fanno forza l'armi. Il gran portiere latri eterno da l'antro ed atterrisca l'ombre esangui; Proserpina le soglie invïolata de lo zio possegga. Enea troiano, il valoroso e pio, scende a veder tra l'ombre ultime il padre. Se di simil pietà poco è la vista, e tu conosci questo ramo!» E il trae da la veste. Quel cuor gonfio da l'ira si posa allor; non piú parole: ei guata il sacro dono del fatal virgulto, qual gli apparia dopo gran tempo, e volge verso la riva la sua bruna prora. Poi l'altre anime caccia che sedeano pe' lunghi banchi, libera la tolda, e ne la chiglia il grande Enea riceve: cigolò sotto il peso la contesta carena e molto bevve del padule per gli spiragli: al fin di là dal fiume sicuri espone la veggente e il prode su lo squallido fango e l'ulva bigia. Cerbero immane questi regni introna con latrato trifauce, in un covile là di faccia sdraiato. A lui, che vede tutto arruffar già di serpenti il collo, getta la vate un'offa soporosa di miele e lavorate farine. Esso tre gole aprendo con rabbiosa fame l'acceffa in aria e l'ampio dorso allenta distendendosi enorme in tutto l'antro. Sepolto il guardïano, occupa Enea le soglie e passa rapido la sponda di quell'acqua che piú non si rivarca. Quivi si udiron voci e un gran vagire e degl'infanti l'anime piangenti su l'entrar primo, cui nuovi a la dolce vita strappò da la mammella il nero giorno ed in morte acerba li sommerse. Presso a loro i dannati per ingiusta accusa e spenti. Né già sono i luoghi senza sorteggio e giudice assegnati: indagator Minosse l'urna move, esso la turba de' tacenti aduna e vite e colpe apprende. Indi vicine i mesti hanno lor sedi che illibati si diedero la morte e fecer getto de l'anima per odio de la luce. Come or vorrian ne l'aëre superno la povertà soffrire ed i travagli! I decreti si oppongono e con l'onda li lega l'inamabile palude e nove volte li ravvolge Stige. Né lontano di lí s'aprono in ogni parte i campi del pianto: han questo nome. I riposti sentieri accolgono ivi quei che struggea miseramente amore e una selva di mirti li protegge: li accompagna l'affanno ancora in morte. Quivi discerne Fedra e Procri e mesta Erífile che mostra le ferite del crudel figlio ed Evadne e Pasifae; e va con lor Laödamía, va Cèneo, un dí garzone, or femmina e di nuovo resa per fato ne la forma prima. Fresca de la ferita in mezzo a quelle la fenicia Didone errava per la gran selva. Come prima il teucro eroe le fu presso e per l'ombre la conobbe oscura, quale alcun vede la luna o si crede vederla al novo mese sorger tra nubi, non contenne il pianto e con tenero amor le si rivolse: «Infelice Didone, annunzio vero dunque mi giunse ch'eri morta e corsa di tua mano a la fine! Ah fui cagione de la tua morte! Per le stelle giuro, per i Celesti, o se altro giuramento nel cupo mondo vale, io di mal cuore, o regina, dal tuo lido partii. Ma i voleri de' Numi ed i lor cenni mi sospinsero, come or per quest'ombre e lo squallore de la notte immensa: né credere io potea col mio partire darti tanto dolore. Arresta il passo, e non sottrarti al guardo mio. Chi fuggi? l'ultima volta che ti parlo è questa». Con tali detti Enea l'ardente cuore leniva e bieco riguardante, e al pianto l'inteneriva: quella a terra fissi gli occhi teneva in altra parte volta, né piú si muta a quel parlar nel viso che se aspra selce o sia marpesia punta. Alfin via si spiccò, sparve nemica tra l'ombrifera selva ove lo sposo primo a l'affetto suo Sicheo risponde e la eguaglia d'amor. Ma pur pensoso del duro caso Enea lungi la segue col pianto e la commisera fuggente. Indi segue il fatal vïaggio. E omai ne' campi erano estremi ove appartati gl'incliti in guerra si radunano. Ivi Tídeo gli viene incontro e il prode in armi Partenopeo, la pallida sembianza di Adrasto insiem, ivi i compianti al mondo Dardanidi caduti ne la guerra. Sospirò nel guardarli in lunga schiera tutti, Glauco e Tersíloco e Medonte, d'Antènore i tre figli e Polibéte sacro a Cerere, e Idèo che ancora il carro, ancora l'armi ritenea. Frequenti gli son l'anime intorno a destra e a manca, né averlo visto è assai, piace indugiare e andar di pari e chiedere a che venga. Ma i principi de' Danai e le falangi agamennonie come vider prima l'eroe per l'ombra e l'armi luminose, a smarrirsi di subita paura, chi volto in fuga come un dí a le navi e chi levando una voce sottile, ma il grido manca tra le labbra schiuse. E vide là con la persona a brani Deífobo di Priamo, crudelmente mutilo il viso, il viso e le due mani, devastate le tempie senza orecchi, e tronco il naso con deforme piaga. Sí che a stento il conobbe vergognoso che tentava celar suo reo supplizio, e gli si volse con la nota voce: «Valoroso Deífobo, progenie del gran sangue di Teucro, e chi mai volle, chi poté far di te simile strazio? La fama mi recò che ne l'estrema notte tu stanco de' Pelasghi uccisi cadevi in mucchio di confusa strage. Su la proda retèa tumulo vuoto allor ti eressi ed a gran voce i Mani chiamai tre volte; là son l'armi e il nome: ma te, amico, non potei vedere né in terren patrio sul partir comporre». Il Priàmide a ciò: «Tu non lasciasti, amico, nulla, tu rendesti tutto a Deífobo e a l'ombra del suo frale. Ma i fati miei ed il delitto atroce de la Spartana m'han ridotto a questo orrore, questi segni ella m'impresse. Come l'ultima notte in falsa gioia passammo, sai; ben ricordarlo è forza. Quando il fatal cavallo col suo salto fu di Pergamo in vetta e pregno espose gli armati fanti, ella fingendo un coro chiamò le frigie a l'evoè de l'orgia; teneva essa nel mezzo una gran fiamma e i Danäi da l'arce alta chiamava. Da le fatiche me vinto e dal sonno ebbe l'infausto talamo, e m'avvolse abbandonato una dolce quïete, a la placida morte somigliante. L'egregia moglie tutte l'armi intanto leva di casa, e avea dal capezzale sottratta la fedel mia spada; e chiama Menelao spalancandogli l'entrare, sicura già che ciò sarebbe pegno prezïoso a l'amante e avrebbe forse spento il ricordo de l'oltraggio antico. A che m'indugio? Invadono la stanza; gli vien compagno, consiglier d'infamia, l'Eolide. Innovate, o Dei, lo scempio pei Greci! se con pia bocca il richiedo. Ma quali casi te, dimmi a vicenda, qui vivo abbiano addotto. Per errori vieni del mar o per divin consiglio? e in quale angustia sei, da visitare le tristi senza sol pallide case?». Tra gli alterni parlari avea l'Aurora de l'etereo sentier varcato il mezzo con le rosee quadrighe, e forse tutta spendevano cosí l'ora concessa, ma la duce ammoní, ma la Sibilla breve parlò: «La notte appressa, Enea, e noi passiamo lagrimando il tempo. Il luogo è qui che in due la via si parte: la destra che del gran Dite s'affretta a la città, per questa è il nostro elisio vïaggio; la sinistra de' malvagi le pene adempie e al reo Tartaro adduce». Deífobo a l'incontro: «Sii pietosa, o gran sacerdotessa; andrò, la schiera rifarò piena e tornerò nel buio. Va', gloria nostra, va', con miglior fato». Tanto disse, e tra 'l dir si volse indietro. Enea riguarda e d'improvviso vede gran città sotto una rupe a sinistra, cerchiata di tre mura, e intorno fiume fiammeggiante il tartareo Flegetonte e travolgente romorosi massi. In faccia è una gran porta e tutto acciaio colonne cui schiantar non forza d'uomo né potrebbe de' Superi la guerra. Ferrea una torre sorge in alto, e assisa Tisífone con manto sanguinoso al vestibolo veglia e notte e giorno. Indi sospiri e suon d'aspre percosse e strider ferro e strascicar catene s'udia. Ristette sbigottito Enea in orecchi a lo strepito. «Che colpe sono? o vergine, parla: e di che pene soffrono? qual tumulto è che si leva?». E cosí prese a dir la profetessa: «Duce inclito de' Teucri, a nessun pio dato è calcar la scellerata soglia: pur, quando mi prepose a' boschi averni, Ecate stessa mi mostrò le pene divine e le mi fe' percorrer tutte. Radamanto di Cnoso ha questi regni durissimi: ei condanna, ode le colpe, e sforza a quelle rivelar che, lieto altri d'un vano eludere, produsse a l'ora de la morte inespïate. Subitamente armata di flagello balza a ghermire i rei la punitrice Tisífone e, protesi con la manca i torvi serpi, chiama le sorelle. Allor su l'aspro cardine stridenti s'apron le porte maledette. Vedi qual guardia è su l'entrare e in quale aspetto? Dentro dimora piú crudele, enorme con le cinquanta nere gole, l'Idra. Viene il Tartaro alfin che si sprofonda tanto due volte, quanto sale il guardo fino a la faccia del celeste Olimpo. Là, de la Terra antico parto, a l'imo son gettati i Titani fulminati; i due Aloídi là vidi giganti che alzâr le mani a lacerare il cielo, a cacciar Giove da' superni regni. Anche Salmonèo vidi che l'acerba pena pagò, mentre di Giove i fuochi iva imitando e i fremiti d'Olimpo. Ei con quattro cavalli ed isquassando una fiaccola via pe 'l suol de' Grai e la città ch'è a l'Elide nel mezzo trïonfava e adorato esser voleva: stolto, che i nembi contraffare e il fulmine osò non imitabile co 'l bronzo e lo sfrenato scalpito sonante. Ma il Padre onnipotente di tra i folti nuvoli il dardo gli avventò, non faci già né baglior di fumiganti tede, e lo travolse vorticoso a l'imo. Tizio del pari si vedeva, figlio de la Terra comun madre, disteso per nove interi iugeri le membra: grande avvoltoio con l'adunco rostro morsecchiandogli il fegato immortale e le viscere fertili a le pene adocchia il pasto e gli abita entro il petto, né a le fibre rinate è tregua mai. A che parlar de' Làpiti, d'Issíone e di Pirítoo, sopra i quali penzola un macigno caduco e par che cada? Risplendono aurei piè di genïali alti letti e imbandite avanti agli occhi vivande con regal magnificenza, ma la Furia maggior s'acquatta presso e le mani accostar vieta a le mense e con la face levasi e con l'urlo. Quivi color che in vita ebbero in odio i lor fratelli o percossero il padre o frode ordirono al cliente o soli il tesoro abbracciarono adunato senza a' suoi farne parte (e piú son questi) o furon morti in adulterio od armi seguitarono ingiuste e de' signori la fede vïolarono, prigioni aspettano la pena. Oh! non cercare saper qual pena, o qual norma e fortuna sommerse in pianto le misere genti. Voltano altri un gran sasso, o stretti a' raggi pendon di ruote: siede l'infelice Teseo e in eterno sederà; per l'ombre Flegia sventuratissimo a gran voce grida a tutti: – Imparate da l'esempio seguir giustizia e non spregiar gli Dei –. Vendé per oro altri la patria e fiero signor le impose, fe' leggi e disfece a prezzo; assalse de la figlia il talamo altri e vietate nozze; ardiron tutti nefanda colpa e fu l'ardir compiuto. Se cento lingue in cento bocche avessi e ferrea voce, non potrei le forme tutte abbracciare de' misfatti, tutte ad una ad una nominar le pene». Poi che di Febo la ministra annosa ebbe detto cosí, «Su via, soggiunge, il cammino e il proposito compisci. Affrettiam. Fatte a' fuochi de' Ciclòpi veggo le mura e l'arco de la porta ov'è prescritto a noi di porre il dono». Aveva detto e pe' sentieri opachi superano di pari l'intervallo fino a la soglia. Vi s'accosta Enea, ad un'acqua corrente si deterge e davanti a la porta il ramo affigge. Ciò fatto alfin, resa a la Dea l'offerta, giunsero a' luoghi lieti ed agli ameni verzieri de le selve fortunate e a le sedi felici. Un ciel piú largo qui veste i campi di purpurea luce; mirano un loro sole e loro stelle. Ne l'erbose palestre esercitarsi parte gode e lottare in fulva arena, parte co' piè batte le danze e canta. Anch'esso il Tracio sacerdote in lunga veste a la melodia tempera il vario suon de le sette voci, or con le dita toccandole or col pettine d'avorio. Quivi è di Teucro la progenie antica, splendidi figli, generosi eroi, a miglior tempo nati, e Ilo e Assàraco e Dardano progenitor di Troia. L'arme in disparte e i vuoti carri mira; l'arme son fitte a terra, e sciolti e vaghi pascolano i cavalli per il prato. L'amor ch'ebbero vivi a' carri e a l'armi, l'uso di pascer fulgidi cavalli, li accompagna cosí dopo il sepolcro. Ecco a destra e a sinistra ne discerne a banchettar tra 'l verde altri o cantare in coro giocondissimo peana tra l'odorosa selva degli allori, onde di sopra immenso in mezzo a selve il fiume de l'Erídano si volve. Ivi la schiera che patí ferite pugnando per la patria, e i sacerdoti che vissero illibati, e i vati buoni che parole dicean degne di Febo, o quelli che abbellirono la vita trovando l'arti, e quei che per ben fare lasciarono di sé memori gli altri; tutti una nivea benda hanno a la fronte. A lor dintorno sparsi la Sibilla cosí si volse ed a Museo su tutti (ché intorno a lui è un popolo e il sogguarda emergente con gli alti òmeri): «Dite, felici anime, dinne, ottimo vate: Anchise ov'è? Qual regïon l'accoglie? Per lui venimmo e traversammo i fiumi paurosi de l'Erebo». L'eroe breve cosí le rese la risposta: «Nessuno ha luogo certo; abitiam l'ombre de' boschi e per i grembi de le rive andiamo e i prati freschi di ruscelli. Ma voi, se cosí porta in cuor l'affetto, questo giogo varcate, e dopo questo vi porrò per agevole sentiero». Disse e davanti mosse il piede, e i campi luminosi da l'alto addita: quindi abbandonano i vertici del colle. Ma il padre Anchise in seno a la convalle verde le raccolte anime, che al sole dovean salire, con attenta cura mirava e tutte andava rassegnando de' suoi le schiere ed i nipoti cari, lor fati e lor fortune, indoli e imprese. Com'egli vide per i prati Enea venirgli incontro, coralmente stese le due palme e gli corser per le guance le lagrime e dal labbro le parole: «Venisti alfin, e la pietà che il padre da te si attese vinse il cammin duro: m'è concesso veder, figlio, il tuo viso e rinnovare i soliti colloqui. Questo io credeva, questo ebbi per certo contando l'ore, né il mio cuor m'illuse. Per quante io terre te, per quanti mari corso ricevo! tra perigli quanti sbattuto, o figlio! come fui sgomento che ti nocesse il regno de la Libia!». E quegli: «O padre, l'ombra tua, la tua ombra dolente col mostrarsi spesso mi sforzò di venire a queste sedi. Nel Tirreno è su l'ancore la flotta. Porgi deh padre, porgimi la mano e non sottrarti da l'amplesso mio». Cosí diceva e l'inondava il pianto. Tre volte allor tentò de le sue braccia cingergli il collo, tre l'ombra invan cinta sfuggí le mani, pari a lievi venti e similissima a un alato sogno. Intanto Enea ne la riposta valle vede in disparte un bosco e susurranti selvatici virgulti e il letèo fiume nuotare avanti a le placide case. Volavano ivi intorno ombre infinite: e come quando a la serena estate ne' prati in varii fior posano l'api od a candidi gigli errano intorno, sembra tutto un ronzio quella campagna. A la súbita vista trasalisce e le cose ricerca inconscio Enea, quale fiume sia dunque e quali genti colmino sí molteplici le rive. Il padre Anchise allor: «L'anime a cui novelli corpi spettano per fato a la corrente bevono di Lete tranquille linfe e lunghe oblivïoni. Ben queste a te narrar e offrirti al guardo, questa de' miei progenie annoverarti da gran tempo desio, sí che tu meglio goda con me de la raggiunta Italia». «O padre, e si dee credere che alcuna anima su da qui risalga a l'aure e torni a' lenti corpi? oh le infelici qual provano del dí sí fiera brama?» «Io tel dirò, né ti terrò sospeso, o figlio mio». Cosí riprende Anchise e rivela per ordine le cose. «Primieramente il ciel, le terre, i campi fluidi e il lucente globo de la luna e il titanio astro entro uno spirto nutre e una mente pe' membri sparsa avviva tutta la mole e al gran corpo si mesce. La stirpe indi è degli uomini e de' bruti, le vite degli alati, e quanti mostri sotto il marmoreo piano il mar produce. Vivida una scintilla, una celeste origine que' germi hanno, per quanto nocivo non li grava il corpo e ottunde terreno frale e moriture membra. Di qui tema e desio, dolore e gioia in lor, né sanno piú scernere il cielo chiusi ne l'ombra di carcere cieco. E allora pur che con l'estremo raggio la vita li lasciò, non tutto il male per i miseri e non dileguan tutti i corporëi vizi, ché profonda - mente in copia ed a lungo concresciuti forza è che abbian mirabile rigoglio. Dunque sono da pene esercitati e soddisfanno de' peccati antichi. Sospese a la balía de' lievi venti s'espongono talune anime, ad altre sotto ad un vasto vortice l'impressa colpa si lava o la si brucia al fuoco: soffriam ciascuno l'ombra sua. Siam quindi avvïati per l'ampio Elisio, e pochi ne' lieti campi dimoriam, se prima un lungo dí, pieno del tempo il giro, non tolse la contratta macchia e puro lascia il senso celeste e la favilla di quel semplice soffio. Tutte queste, poi che volser di mille anni la ruota, presso al fiume di Lete èvoca Iddio, cosí che, fatte immemori, di nuovo escan del cielo a riveder la volta e rientrar s'invoglino ne' corpi». Poi ch'ebbe detto, Anchise il suo figliuolo e la Sibilla insiem conduce in mezzo de l'adunata risonante turba, e sale un balzo, onde potesse tutte vedersi avanti quelle folte schiere e de' vegnenti ravvisare i volti. «Su via, qual gloria a la dardania stirpe s'aspetti in avvenir, quali nepoti da l'italico ceppo, anime chiare che fioriranno un dí nel nostro nome, dirò, te de' tuoi fati ammaestrando. Quegli, il vedi, che giovine si appoggia a l'asta pura, tien per sorte il luogo piú prossimo a la luce e primo a l'aure misto uscirà d'italo sangue, Silvio, albano nome e tua tardiva prole, che in selve a te longevo la consorte Lavinia produrrà, re di re padre, onde la nostra schiatta su la Lunga Alba dominerà. Quel suo vicino è Proca fregio de la teucra gente, e Capi e Numitor e Silvio Enea che nel nome ed insiem pietoso e prode rinnovellerà te, come riceva lo scettro d'Alba. Quali giovinezze! e quanto, guarda, raggiano di forza! ombrati di civil quercia le tempie. Questi Nomento e Gabi e di Fidene la città, questi l'arci collatine ti porranno su' vertici e Pomezio ed il Castello d'Inuo e Bola e Cora, allora nomi, or terre senza nome. Indi si aggiungerà compagno a l'avo Romolo di Mavorte, e a lui del sangue di Assàraco Ilia sarà madre. Vedi come sul capo eretti ha due cimieri e il padre già di deïtà lo impronta? Ecco, figliuol, che per gli auspíci suoi adeguerà quella famosa Roma l'impero al mondo e l'animo a l'Olimpo, unica sette colli in sé cerchiando, fiera di forti genitrice: quale innanzi vien la berecinta madre per le frigie città turrita in cocchio, lieta del parto degli Dei, ben cento abbracciando nepoti e tuttiquanti dominatori eterni de le sfere. Or qua piega gli sguardi, a questa gente de' tuoi Romani. È qui Cesare e tutta la prosapia di Giulo, destinata sotto l'ampia ad uscir volta del cielo. È questi, è l'uom che a te promettere odi sí spesso, Augusto Cesare, germoglio del Divo, che l'età de l'oro al Lazio rifarà per le terre un dí regnate da Saturno, e dilaterà l'impero sui Garamanti e gl'Indi: oltre le stelle giace la terra, oltre le vie de l'anno e del sol, ove regge aërio Atlante su gli òmeri il girar degli astri ardenti. Per l'avvento di lui fin d'ora il caspio regno trema e il meotico paese di responsi divini, e perturbate del settemplice Nilo erran le bocche. Né Alcide in vero tanto mondo corse, benché ferí la cerva piè-di-bronzo e tranquillò le selve d'Erimanto e fe' tutta tremar Lerna con l'arco, né il trionfante Libero che volge le redini di pampino guidando da Nisa giú le apparigliate tigri. E dubitiamo ancor di propagare il valor con le imprese, o v'è paura che ci vieti posare in suol d'Ausonia? Ma là presso chi è, cinto de' rami de l'olivo, che porta i sacri arredi? Conosco il crine ed il canuto mento del re romano che la città prima con leggi fermerà, mandato al soglio da la piccola sua povera Curi. Gli sottentrerà Tullo, e la quïete scoterà de la patria, gli allentati cuori a l'armi movendo e le falangi già da' trionfi disavvezze. Il segue Anco piú baldanzoso e che già troppo mostra goder de l'aure popolari. I re Tarquini e l'anima superba vuoi pur vedere e del vendicatore Bruto i recuperati fasci? Ei primo di console l'impero e le severe scuri riceverà; padre i figliuoli, a nuova guerra intesi, per la bella libertà chiamerà sotto la pena. Infelice! per quanto i discendenti l'ammireranno: vincerà l'amore di patria e l'infinito ardor di gloria. I Deci e i Drusi ancor discosto guarda e Torquato severo per la scure e Camillo tornante co' vessilli. Quelle due poi che in eguali arme vedi splendere ora concordi anime a l'ombra, oh qual tra loro dolorosa guerra, sórte che siano al lume de la vita, quante susciteranno e schiere e stragi, da' varchi alpini il suocero e da l'arci di Monèco scendendo, e fatto forte il genero d'opposti orïentali! No, figli, il cuor non avvezzate a guerre sí fiere, e non volgete il bel vigore contro il sen de la patria. E tu deh! primo cessa, che da l'Olimpo origin prendi, tu getta l'armi, sangue mio! Quei spingerà su l'alto Campidoglio vincitor di Corinto la quadriga, insigne per gli spenti Achivi. Quegli Argo e Micene agamennonia e anch'esso abbatterà l'Eacide disceso dal fortissimo Achille, vendicando gli avi di Troia e il tempio di Minerva. E in silenzio chi te, grande Catone, o lascerebbe te, Cosso? o di Gracco la prole, o i due, due fulmini di guerra, Scipíadi, strage de la Libia, o il forte in povertà Fabrizio, o te, Serrano, che semini il tuo solco? Ove me stanco, Fabii, traete? Il Massimo tu sei, solo che a noi tardando salvi Roma. Foggeranno altri gli spiranti bronzi con piú mollezza, il credo, trarran vivi dal marmo i volti; a perorar le cause migliori, a disegnar con verga il corso degli astri, a dire il sorger de le stelle: tu con l'impero i popoli governa, Romano, queste saran l'arti tue, ed a la pace norma dà, clemenza ai sommessi e sterminio dei superbi». Cosí diceva Anchise, e agli ammiranti soggiunge: «Vedi come vien Marcello superbo de le spoglie opime e a tutti vincitore sovrasta. In gran fortuna ei terrà salde le romane cose, prostrerà cavalcando i Peni e il Gallo ribelle, ed a Quirino padre il terzo da' suoi nemici appenderà trofeo». Allora Enea (ché gli vedeva insieme un giovin bello di sembianza e d'armi, ma con la fronte scura e gli occhi bassi) «Padre, e quegli chi è che sí accompagna l'eroe? suo figlio o alcun de l'alta gesta de' nipoti? Qual premer di seguaci intorno gli è! quanta grandezza in lui! Ma triste notte gli ravvolge il capo». Il padre Anchise allor con lagrimose ciglia «Oh, dice, figliuol, non domandare un cordoglio acerbissimo de' tuoi. I fati al mondo il mostreranno solo e piú nol patiranno vivo. Troppo forte a voi parve la romana stirpe, o Celesti, se fermo avea tal dono. Quanti sospiri d'uomini quel Campo spargerà ne la gran città di Marte! e quale funeral, Tebro, vedrai oltrescorrendo al tumulo recente! Non giovinetto de l'iliaca gente a sí alto sperar leverà gli avi latini, né già mai d'altro germoglio avrà tal vanto la romulea terra. Oh sua pietà! sua fede antica! e invitta destra a la guerra! Impunemente a lui non si sarebbe offerto in armi alcuno, sia che pedone entrasse in campo, o sia che a spumoso destrier pungesse i fianchi. Ahi! misero fanciullo, ove tu possa sforzare i fati, tu sarai Marcello. Lasciatemi che gigli a piene mani, purpurei fiori, sparga, e almen di questo nembo l'anima avvolga del nipote, con inane tributo». Cosí vanno per quella intorno regïon ne' vasti campi de l'aria e passano ogni cosa. Poi che Anchise per tutto addusse il figlio e l'animo gli accese de l'amore de la sorgente fama, indi le guerre che avrà gli narra, il popolo laurente e la città gli mostra di Latino, e come ogni cimento o sfugga o sfidi. Sono del Sonno due le porte, l'una è, dicono, di corno, onde si dona agevole a le vere ombre l'uscita, lucida l'altra e candida di avorio, ma falsi al ciel ne invia sogni l'Averno. Poi ch'ebbe allor tali discorsi Anchise al figlio vòlti e a la Sibilla, e fuori messili per l'eburnea porta, quegli a le navi s'affretta e a' suoi si rende. Poi, costeggiando, al porto di Gaeta dirige il solco: l'àncora da prora si getta in mar; stanno le poppe a riva. |
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