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Eneide

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  • LIBRO DECIMO
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LIBRO DECIMO

 

S'apre intanto la casa de l'Olimpo

onnipotente, e il Padre degli Dei

e degli uomini Re concilio aduna

ne la stellata sede, onde alto mira

le terre tutte e il campo de' Troiani

e i popoli Latini. Ne la stanza

siedono bipatente; esso incomincia:

«Grandi Celesti, ond'è che vi mutate

e sí lottate con avversi cuori?

Vietai che Italia guerreggiasse i Teucri.

Contro il divieto qual discordia? quale

trepidanza suase o questi o quelli

a cercar l'armi e rompere in battaglia?

Verrà, non l'affrettate, il giusto tempo

di guerra, quando un dí l'aspra Cartago

moverà contro a le romane rocche

un esterminio grande e l'Alpi aperte.

Allor gareggiar d'odii, allor fia bello

sovvertire ogni cosa: ora lasciate

e riposate in un concorde patto».

Giove in breve cosí, ma non già breve

risponde l'aurea Venere:

«Padre, eterno signor d'uomini e cose

(e a chi potremmo avere omai ricorso?),

vedi tu come i Rutuli son baldi

e Turno corre tra la mischia e vola

alto sul carro e gonfio de' successi?

Non bastano a difendere i Troiani

le chiuse mura: entro le porte, in cima

agli spaldi già vengono a le prese,

e le fosse ridondano di sangue.

È lungi e ignaro Enea.

Non mai d'assedio

li francherai? De la nascente Troia

stringe il nemico un'altra volta i muri

e un esercito novo; un'altra volta

sorgerà contro a' Teucri da l'etòla

Arpi il Tidide. Piú non manca, credo,

che le ferite mie: la tua figliuola

attendendo si sta dardi mortali.

Se contro il suo piacer, senza l'assenso

i Troiani salparono a l'Italia,

paghin la colpa e privali d'aiuto:

ma se dietro gli oracoli fur mossi

che sí spessi rendean Superi e Mani,

perché v'ha chi rimuta oggi il tuo cenno

e presume crear novi destini?

Dirò le navi al lido d'Èrice arse?

o il re de le tempeste suscitato

e da l'Eolia i venti furibondi?

o da le nuvole Iride mandata?

Ora move fin l'ombre (l'universo

serbava intatta quella parte), e Alletto

eruppe d'improvviso sotto il sole,

per l'itale città pazza scorrendo.

Non m'affanno d'impero: io lo sperai

a' lieti giorni: vinca, chi tu vuoi.

Se non è regïon che la tua dura

consorte a' Teucri dia, padre, ti prego

per le fumanti ceneri di Troia,

che si possa campar da l'armi Ascanio

incolume, superstite nipote.

Vada per l'onde ignote Enea sbattuto;

qual via Fortuna assegnerà, la corra:

ma questo, ch'io lo salvi e lo sottragga

a l'empia guerra. Ho Amatunta, ho l'alta

Pafo e Citéra con l'idalie case:

quivi senz'armi viva e senza gloria.

Fa' che in fiero dominio signoreggi

Cartagine l'Ausonia: indi nessuna

a le tirie città verrà molestia.

Che valse uscir dal vortice di guerra

e per mezzo sfuggir le argive fiamme

e tanti in terra e in mar rischi patire,

cercando i Teucri il Lazio e una risorta

Pergamo? Deh, non era meglio stare

su le reliquie de la patria estreme,

là dove Troia fu? Padre, oh! tu rendi

agl'infelici Xanto e Simoenta

e fa' che la vicenda si rinnovi

d'Ilio a' Troiani».

La regal Giunone

allor, accesa di furor profondo:

«L'alto silenzio a che romper mi sforzi

e in parole svelar l'intimo sdegno?

Enea qual uom, qual dio l'astrinse a guerra

e lo mosse nemico al re Latino?

Venne in Italia per i fati, e sia,

stimolato dagli estri di Cassandra:

forse che a uscir dal campo l'esortammo

e commettersi a' venti? a dare in mano

e le mura e la guerra ad un fanciullo?

l'etrusca fede e i popoli quïeti

turbar? Qual dio lo spinse al mal, qual nostra

mai prepotenza? dov'è qui Giunone

o da le nuvole Iride mandata?

Indegna cosa a la nascente Troia

gl'Itali porre intorno il fuoco, indegna

stanziar Turno ne la patria terra,

cui fu avo Pilumno e cui fu madre

la dea Venilia: ed i Troiani contro

a' Latini venir con tetra face?

campi altrui soggiogar, portarne prede?

i suoceri trascegliersi e rapire

lor di grembo le spose? con la mano

pace implorare, armar le poppe a guerra?

Tu Enea puoi trarre da le man de' Grai

e porre in luogo suo la nebbia e il vento,

puoi de le navi tu far tante ninfe:

s'io giovo in nulla i Rutuli, è delitto?

È lungi e ignaro Enea. Sia lungi e ignaro.

Hai Pafo e Idalio, hai tu l'alta Citera:

una città ch'è gravida di guerre

e fieri cuori perché tenti? Forse

ci sforziam noi di rovesciarti il frale

stato de' Frigi? noi, o chi di fronte

pose agli Achivi i poveri Troiani?

Qual fu cagione a sollevarsi in armi

l'Europa e l'Asia e dissipar la pace

con un ratto? L'adultero troiano

forse da me condotto espugnò Sparta?

il dardo io diedi e in voluttà la guerra

scaldai? Dovevi allor pe' tuoi temere:

tarda or ti levi a lamentele ingiuste

e vai spargendo inutili corrucci».

Cosí Giunone perorava, e tutti

i Celesti fremean con vario assenso,

come quando i primi aliti nascosi

metton tra 'l bosco un murmure indistinto,

indizio al marinar che viene il vento.

Allora il Padre onnipotente, primo

de le cose signor, parla (al suo dire

ammutisce la casa alta de' Numi

e giú la terra trepida, si tace

il sommo ciel, gli zefiri son cheti,

e l'oceano placido si spiana):

«M'udite dunque e in cuor figgete il detto.

Poi che stringere accordo Ausonii e Teucri

non fu concesso, e la discordia vostra

dura infinita, qual che abbia ciascuno

oggi fortuna, qual solchi speranza,

Teucro o Rutulo, io non farò divario,

o per fati degl'Itali sia stretto

d'assedio il campo o per infausto errore

di Troia e per oracoli sinistri.

Né i Rutuli prosciolgo. Avrà ciascuno

il danno e la fortuna de la propria

impresa. Giove è re per tutti eguale.

I fati troveran la via».

Pel fiume

indi accennò del suo fratello stigio

dai tetri gorghi torridi di pece,

e tutto al cenno fe' tremar l'Olimpo.

Qui finîr le parole. Allor si leva

Giove da l'aureo trono, ed i Celesti

in cerchio l'accompagnano a le soglie.

I Rutuli frattanto ad ogni porta

premono a studio di atterrar guerrieri

e le mura cerchiar d'incendio. Stretta

ne' valli sta la legïon d'Enea,

né speranza è di fuga. Su le torri

alte i miseri stanno inutilmente,

e rari coronarono gli spaldi.

Asio Imbràside appar, l'Icetaonio

Timete ne la prima schiera, e i due

Assàraci e con Castore il provetto

Timbri: compagni vengono di questi

entrambi di Sarpèdone i germani

Claro e Temone da l'alpestre Licia.

Con isforzo di tutta la persona

un gran sasso, una falda anzi di monte,

porta il lirnesio Acmon, né a Clizio padre

né al fratello Menèsteo inferïore.

Questi col getto, quei volgendo pietre

studiano a la difesa e avventar fuoco

ed incoccare le saette al nervo.

Esso nel mezzo, degno amor di Venere,

è il dardanio fanciullo a capo ignudo;

quale brilla tra 'l biondo oro una gemma

di fregio al collo o al crine, e qual per arte

commesso avorio luccica tra 'l bosso

o il terebinto d'Òrico: i capelli

gli piovon su la candida cervice,

li annoda un cerchio di pieghevol oro.

Te pur l'inclita gente, Ismaro, vide

diriger colpi e attossiccar saette,

di nobil casa di Meonia, dove

esercitano gli uomini le zolle

feraci, dal Pattòlo aureo irrigate.

Anche Mnèsteo vi fu, cui leva a cielo

la prima gloria del cacciato Turno

da la cerchia de' muri, e vi fu Capi,

onde ha suo nome la città campana.

Quelli tra lor le gare aspre di guerra

mesceano: Enea nel cuore de la notte

solcava il mar. Poiché, come da Evandro

entrato al campo etrusco al re ne viene

e al re dice il suo nome e la sua gente,

quel che domanda e quel che apporta, e narra

quali Mezenzio si procacci aiuti,

quanta di Turno sia la vïolenza,

e gli rammenta le vicende umane

pregandolo; Tarcone senza indugio

le forze unisce e stringe l'alleanza.

Libera allor dal fato, i legni sale

la lidia gente, per divin volere

commessa al cenno di straniero duce.

D'Enea la nave innanzi va, con due

frigi leoni sotto al rostro, e l'Ida

sopra, diletto a' profughi Troiani.

Qui siede il grande Enea tra sé volgendo

gli eventi varii de la guerra, e a manca

gli si stringe Pallante, ora chiedendo

degli astri, guide de l'opaca notte,

or di quanto ei sofferse in terra e in mare.

Aprite or l'Elicona, o Dive, e il canto

dettate, quale da le tosche prode

stuolo accompagni intanto Enea, venendo

per la marina su le armate navi.

Primo il mar solca su la bronzea Tigre

Massico, sotto a cui mille da Chiusi

e da Cosa si mossero: saette

son l'armi loro e a l'omero leggieri

goríti ed infallibile arco.

Insieme

dal fiero piglio Abante: i suoi drappelli

tutti in bello fulgean guerresco arnese

e di dorato Apolline la poppa.

Seicento gli avea dati Populonia

di suoi figli agguerriti, Elba trecento,

isola inesauribile miniera

de' Càlibi.

Veniva terzo Asíla,

quel degli uomini interprete e de' numi,

cui le fibre del gregge, cui son chiari

gli astri del ciel, le lingue degli uccelli

e i guizzi de la folgore presaghi,

con mille in campo densi orridi astati.

Glie li sommette alfea d'origin Pisa,

città etrusca di suol.

Bellissimo Àstir

séguita, Àstir fidente nel destriero

e ne le variegate armi. Trecento,

con un unico cuor di seguitarlo,

gli aggiungon quei di Cere e quei che sono

del Minïon ne' campi e Pirgo antica

e da le non leggiere aure Gravisca.

Non io già te, de' Liguri sí prode

condottier, leggermente passerei,

da pochi accompagnato Cupavone,

cui penne in fronte sorgono di cigno:

amore è vostra colpa ed è l'insegna

de la forma paterna. Il grido narra

che nel rimpianto di Fetonte amato,

tra le pioppe e l'ombria de le sorelle,

mentre canta e cantando si consola,

incanutí di molle piuma Cigno,

con la voce dal suol mosso a le stelle.

Il figlio, in nave il coetaneo stuolo

accompagnando, avanti fa co' remi

un gran Centauro: quel sovrasta a l'acqua

e ingente sasso a l'onde alto minaccia,

fendendo i flutti con la lunga chiglia.

Quell'Ocno ancor dal terren patrio a l'armi

guerrieri trae, de l'indovina Manto

figlio e del tosco fiume, ei che co' muri

de la madre ti diè, Mantova, il nome;

Mantova, ricca d'avi, ma non d'una

radice tutti: tre le genti, quattro

sott'ogni gente i popoli; essa capo

de' popoli, dal tosco sangue il nerbo.

Mezenzio n'arma contro sé pur quindi

cinquecento: figliuolo del Benaco,

velato il Mincio de le canne verdi

traeali al mare su l'infesto abete.

Va grave Auleste ed al maneggio insorge

di cento remi che percoton l'onde.

Gran Tritone lo porta e i flutti azzurri

con la conchiglia assorda: insino a' fianchi

nuotando offre sembianza ispida d'uomo,

termina il ventre in mostro; spumeggiante

sotto al selvaggio sen mormora il mare.

Tanti scelti guerrier su trenta navi

in aiuto movevano di Troia

e solcavan co' rostri i campi salsi.

E già dal cielo il dí s'era partito,

e l'alma Febe col notturno carro

batteva il mezzo de l'Olimpo: Enea,

cui non lascia il pensier posar le membra,

esso siede al timone, esso a le vele.

Ed ecco tra il viaggio in lui s'incontra

il coro de le sue compagne. Quelle

che di navi esser ninfe in mar divine

l'alma Cibele avea voluto, a schiera

nuotavano ivi, quante erano state

rigide un giorno bronzee prore a riva.

Riconoscono il re da lungi, e intorno

gli danzano. E di lor la piú faconda,

Cimodocèa, dietro seguendo, pone

a la poppa la destra e, fuori emersa

col dorso, cheta remiga sott'acqua

con la sinistra e a lui ignaro dice:

«Sei sveglio, Enea, figlio di numi? Veglia,

ed a le vele libera le sarte.

Siam noi, i pini siam del sacro monte

Ida, or ninfe del mar, siam la tua flotta.

Come il perfido Rutulo voleva

con ferro e fiamma a furia inabissarci,

rompemmo contro voglia i tuoi legami

e per il mare ti cerchiam. La madre

ci diè pietosa queste nove forme

e in grembo a l'acque viver come dee.

Ma il giovinetto Ascanio in muri e fossi

è costretto da l'armi e da' Latini

spiranti guerra. A' comandati luoghi

già sono insiem col valoroso Etrusco

l'Arcade cavalier: frapporre a quelli

le torme sue, che al campo riunirsi

non possano, è il proposito di Turno.

Or sorgi e primo su l'aurora i tuoi

fa' si chiamino a l'armi e prendi il clipeo

che invitto esso ti diede il Dio del fuoco

e il cinse d'oro. Il sole di domani,

se vane non terrai le mie parole,

de' Rutuli vedrà sanguigno mucchio».

Avea detto, e spiccandosi sospinse,

dotta del modo, con la man la poppa:

questa va piú che stral che va col vento;

e cosí l'altre affrettano la corsa.

Il troiano Anchisiade stupisce

ignaro, pur si esalta del presagio

e breve prega riguardando in alto:

«Alma de' Numi genitrice Idèa,

che Dindimo ami e le città turrite

e i leoni a pariglia, or tu m'avvii

a la battaglia, e tu l'augurio adempi

e i Frigi, o dea, benignamente assisti».

Cosí detto, che già tornando in volta

il dí chiariva e avea cacciate l'ombre,

da prima ordina a' suoi che dietro a' segni

s'animino e preparino a la pugna.

Esso diritto poi su l'alta poppa,

già in vista avendo i Teucri ed il suo campo,

con la sinistra sollevò lo scudo

fiammante.

Un grido alzano al ciel da' muri

i Teucri, nova speme attizza l'ire,

e lancian dardi: quali sotto al nembo

si fanno le strimonie gru sentire

che l'aëre traversano rombando

e con lieto clamor fuggono i Noti.

Quella al rutulo re fu maraviglia

e a' duci ausonii, insin che riguardando

vedon le poppe al lido volte e tutto

venire a riva con la flotta il mare.

Arde l'elmo a la cima, e da le piume

fiamma si sparge, e il rilevato centro

de l'aureo scudo un vasto incendio spira;

non altrimenti se per chiara notte

luttuose rosseggiano comete,

o il Sirio ardore, quel forier di sete

e di morbi a' mortali egri, si leva

e del sinistro lume il ciel contrista.

Non però la fidanza a Turno audace

venne men di preoccupare il lido

e i venïenti ributtar da terra;

anzi co' detti i cuori eccita e sprona:

«Quel che bramaste, già fiaccar con mano

potete; in pugno de' guerrieri è Marte.

Or la sua donna ognuno e la sua casa

rammenti, or si rinnovino le glorie

de' padri. Riceviamoli a la sponda,

trepidi ancor ne' primi incerti passi.

Ride agli arditi la fortuna».

Dice, e divisa chi a lo scontro meni,

a chi confidi l'accerchiate mura.

Intanto Enea da l'alte poppe i suoi

coi ponti sbarca. Colgono l'istante

molti che si ritrae languida l'onda

e balzan su l'arena, altri pe' remi.

Esplorando Tarcone ov'è profondo,

ove non frange mormorando il flutto

ma gonfio arriva e senz'intoppo il mare,

là dirige la prora e i soci esorta:

«Ora, miei prodi, date forte a' remi,

via levate in un volo i legni, e in questa

sponda nemica a noi piantate i rostri,

che la chiglia da sé si faccia il solco.

Presa terra una volta, a me non cale

romper la nave ne l'approdo».

Tanto

disse Tarcone, e sul remeggio ritti

lancian quei tra le schiume in suol latino

le navi. I rostri mordono l'asciutto,

e posaron le chiglie; illese tutte,

non, Tarcone, la tua, che urtata, mentre

sopra la secca disegual vacilla

aiutandosi a lungo e dibattendo,

sfasciasi ed i guerrieri in acqua versa.

Impaccio sono a lor le galleggianti

tavole e gli spezzati remi, insieme

l'onda nel rifluir ne porta il piede.

Né Turno inerte si ristà, ma fiero

tutti trascina contro i Teucri e pianta

in su la riva i suoi. Squillano i segni.

Primo assalí le torme agresti Enea,

e, augurio de la pugna, in terra mise

i Latini uccidendo il gran Terone

che contro Enea volenteroso move:

per le maglie di bronzo e per le scaglie

de la tunica d'oro il fianco nudo

gli colpí con la spada. Indi colpisce

Lica, spiccato un dí da la già morta

madre e a te, Febo, consacrato: i rischi

del ferro ei seppe vincer da piccino.

Lí presso, a morte diè Cissèo feroce

e il vasto Gía da l'omicida clava:

d'Ercole l'arma né il possente polso

non li salvò né il genitor Melampo,

compagno fido ognor d'Alcide, mentre

gravi la terra gli offerí fatiche.

Ecco, a Farone che sclamava al vento,

gli configge mentre urla un dardo in bocca.

Tu pur, Cidone, che mal segui Clizio,

nova delizia con la gota bionda

del primo pelo, per la man troiana,

guarito de l'amor che sempre avevi

di giovinetti, misero cadresti,

se incontro non venían stretti a coorte

sette fratelli, a Forco figli, e sette

scoccano strali, che una parte vani

rimbalzano da l'elmo e da lo scudo,

una parte radenti la persona

li sviò l'alma Venere.

Si volge

al fido Acate Enea: «Dammi de l'armi,

né sia che a vuoto io n'abbia una scagliata

contro i Rutuli, quando a' campi d'Ilio

cosí bene colpivano ne' Greci».

Afferra allor una grande asta e avventa,

che a vol trapassa il bronzo de l'usbergo

di Mèone e squarcia la corazza e il petto.

Alcànore sottentra al suo fratello

che trabocca, e lo regge con la destra:

un'asta vien che gli trafigge il braccio,

indi continua sanguinosa il volo;

e penzolò da l'omero la destra

co' morti nervi. Dal fraterno corpo

tratta la lancia, Numitor si volse

contro ad Enea; né già poté ferirlo

e la coscia sfiorò del grande Acate.

Clauso da Curi del suo fresco fiore

baldo sen viene e con la rigid'asta

coglie di lunge Dríope, affondata

di sotto al mento, e per la rotta gola

parola e vita insiem gli toglie: quello

dà de la fronte al suol e denso versa

di bocca il sangue. Con diverse morti

prostra altri tre de la suprema gente

del tracio Borea, e ancora tre che invia

Ida padre e la patria Ìsmara. Accorre

Aléso con l'aurunco stuol, sottentra

nettunia prole il cavalier Messàpo.

Di ricacciarsi tentano a vicenda:

su le soglie d'Italia è la tenzone.

Come per l'ampio ciel discordi venti

s'azzuffano con furia e forze uguali;

non cedon essi, non le nubi e il mare,

de' cozzanti elementi è lunga lotta:

non altrimenti le troiane schiere

e le schiere latine a fronte stanno;

piede a piede si serra ed uomo ad uomo.

Ma in altra parte, che il torrente aveva

ingombra tutta di travolti sassi

e d'alberi a le sponde sradicati,

come Pallante gli Arcadi, non usi

pugnar pedoni, dar vide le spalle

al Lazio inseguitor (li avea l'asprezza

del luogo fatti scendere di sella),

solo rimedio al misero momento,

or con prece li avviva or con rampogne:

«Compagni, ove fuggite? Per voi stessi

e i vostri vanti, per il regio nome

d'Evandro e i suoi trionfi, per me novo

emulatore del valor paterno,

non fidate ne' piè. La via col ferro

s'ha da far tra' nemici. Ove minaccia

quel piú denso manipolo guerriero,

là voi con me la nobil patria chiama.

Non ci assalgon già Dei; siam combattuti

mortali da mortali, ed abbiam noi

una vita e due mani al par di loro.

Ecco, una gran barriera il mar ci oppone;

manca terra al fuggir: ci volgeremo

al mare o a Troia?».

Cosí dice, e in mezzo

al folto de l'avversa oste prorompe.

Primo gli si offre per suo triste fato

Lago: lui, mentre spicca un ponderoso

sasso, trafigge d'aggiustato dardo,

ove in mezzo a le costole è la spina,

e ritrae l'asta penetrata a l'ossa.

Né lo sorprende, e lo sperava, Isbone;

anzi, precipitante forsennato

per l'aspra morte del compagno, lui

Pallante accoglie pronto e la sua spada

gli profonda nel tumido polmone.

Poi Stènio assale e Anchèmolo, di Reto

da la gente vetusta, oso incestare

de la matrigna il talamo. Gemelli,

voi pur ne' campi rutuli cadeste,

Laríde e Timbro, figli a Dauco; tanto

simiglianti tra lor, che a' lor parenti

eran cagione di gradito errore:

or fece in voi Pallante aspro divario,

che a te spiccò l'evandria spada, o Timbro,

il capo; e te, Laríde, la tua destra,

te tronca cerca, e palpitano in terra

le moribonde dita a stringer l'elsa.

Gli Arcadi, accesi a le parole e a l'alta

vista di sue prodezze, a la battaglia

arma un misto di sdegno e di rossore.

Or Pallante trapassa Rèteo, via

su la biga fuggente. E fu per Ilo

quel breve attimo assai; ché di lontano

contro Ilo la grande asta avea diretta,

e a riceverla Rèteo si frappose,

mentre da te scampava, ottimo Teutra,

e da Tire fratel. Giú da la biga,

dà su rutulo suol gli ultimi tratti.

Come d'estate al desïato vento

mette il pastor d'intorno al bosco il fuoco,

ma corre al mezzo rapida e tutt'una

si fa la veemenza di Vulcano;

quei pago siede e guarda giú le fiamme

che trionfano: in simil guisa tutto

de' compagni il valore in un s'accoglie;

e tu godi, Pallante. Ma il pugnace

Aléso vien, stretto ne l'armi sue,

e uccide di tra lor Ladon, Ferete,

Demodoco; a Strimonio d'un fendente

de la fulgida spada via la destra

spicca levata a la sua gola; un masso

gitta in viso a Toante, e gli sfragella

l'ossa e il cervello in misero miscuglio.

Vate de' fati, il padre avea nascosto

ne' boschi Aléso; ma com'ebbe il vecchio

ne la morte i canuti occhi sopiti,

l'afferraron le Parche e lo dier segno

agli strali d'Evandro. A lui Pallante

mira, prima pregando: «Or tu concedi,

Tebro padre, a lo stral che ho qui su l'ale

felice volo al duro cuor di Aléso.

Tua querce avrà quest'arma e le sue spoglie».

Il dio l'udí: mentre fa scudo Aléso

a Imàone, offerisce l'infelice

a l'arcadica freccia il petto inerme.

Ma dal cader di sí grand'uom sgomenti

Lauso, cuor de la guerra, i suoi non lascia:

previene e prostra, che il fronteggia, Abante,

de la battaglia groppo e indugio.

Cade

Arcade gioventú, cadono Etruschi:

e voi da' Greci invïolati Teucri.

Cozzan pari le parti in duci e in forze.

Gli ultimi urgon le file, né la ressa

lascia l'armi e le man libere.

Incalza

di qua Pallante e là di contro Lauso.

Poco diversa è loro età; son belli:

ma la Fortuna a entrambi avea negato

tornare in patria. Il Re del grande Olimpo

pur non vuol che si affrontino: li attende

il fato lor sotto maggior nemico.

L'alma sorella intanto anima Turno,

che per le file va con l'agil carro,

di sottentrare a Lauso. I suoi veduti,

«È tempo di lasciar la pugna; io solo

Pallante assalgo, solo a me Pallante

si dee; vorrei qui spettatore il padre»;

disse, e cessero i suoi dal pian vietato.

Al ritrarsi de' Rutuli, al comando

superbo il giovinetto è fiso in Turno

e move gli occhi per la gran persona,

osa fiero guardar tanta minaccia

e questo rende al grido del tiranno:

«Ora o il vanto avrò io di tue rapite

opime spoglie o d'una morte degna:

a questo e a quel mio padre è pronto; lascia

di minacciar». E in mezzo al campo avanza.

Freddo agli Arcadi in cuor s'accoglie il sangue.

Turno balzò giú da la biga, e a piedi

si fa vicino: qual vola il leone,

se da l'alta vedetta un toro ha scorto

lungi nel campo meditar battaglia,

non dissimile appar Turno che viene.

Come al tiro de l'asta il credé giunto,

ecco primo ir Pallante, se a l'ardito

oltre sue forze arrider voglia sorte,

e riguardando l'ampio cielo esclama:

«Per l'ospitalità nostra e la mensa

cui venisti tra via ti prego, Alcide,

aiuta l'alta impresa. Moribondo

le sue strappar mi vegga armi cruente,

e vincitor me specchino languenti

le pupille di Turno».

Udí la prece

Alcide; immenso in fondo al cuor si preme

un rammarico e versa inutil pianto.

Allor benigno il Padre al figlio dice:

«Fisso a ognuno è il suo dí; breve è la vita

per tutti e irrevocabile, ma il nome

è opra di virtú rendere eterno.

Tanti di Troia sotto l'alte mura

cadder figli di Dei; cadde con gli altri

Sarpèdone mia prole. Ed anche Turno

chiama il suo fato, e omai tocca la meta».

Disse, e gli occhi ritorce dal paese

de' Rutuli.

Pallante a tutta forza

scaglia l'asta e dal fodero la spada

strappa fuori fulgente. A volo quella

coglie ove il pettoral tocca le spalle

e per gli orli del clipeo insinüata

giunge a sfiorar le gran membra di Turno.

Turno allor, bilanciatala buon tratto,

lancia la trave sua ferrata in punta

contro Pallante e cosí dice: «Or vedi

se l'arme mia piú penetrabil fosse».

Avea detto, e lo scudo a tante piastre

e di ferro e di bronzo, e cui rafforza

cuoio taurino tante volte in giro,

la cuspide col suo terribil colpo

l'attraversa per mezzo, e le difese

fora de la lorica e il petto grande.

Quegli si strappa indarno il caldo ferro:

escon per una via la vita e il sangue.

Cade su la ferita; sopra lui

sonaron l'armi, ei la nemica terra

batte morente con bocca sanguigna.

Turno standogli sopra:

«Arcadi, a Evandro riportate fidi:

Pallante, qual si meritò, gli rendo.

Ogni fregio di tomba, ogni conforto

di sepoltura, lo concedo. Poco

a lui non costerà l'ospite Enea».

Disse, e calcò del piè sinistro il morto,

il gran peso strappandogli del balteo

e l'impresso delitto: in una stessa

nuzïal notte indegnamente spenta

una schiera di giovani e cruenti

i talami, che in molt'oro avea sculto

Clono Eurítide; e Turno de la spoglia

gode e d'impadronirsene trionfa.

O mente umana del destino inconscia

e del futuro, e di serbar misura,

inorgoglita de l'evento lieto!

Tempo a Turno verrà che ad ogni prezzo

vorrebbe non aver tocco Pallante,

queste spoglie odïando e questo giorno.

Ma i compagni con lagrime e lamento

su lo scudo riportano Pallante

numerosi. Oh dolore ed onor grande

che al padre tornerai! Questo dí primo

a la guerra ti diè, questo ti toglie,

pur gran mucchio di Rutuli lasciando.

Né solo il grido omai di sí gran danno,

ma piú certo messaggio accorre a Enea,

essere a un filo da la morte i suoi,

stringer l'aiuto agli sconvolti Teucri.

Miete davanti a sé con la sua spada

impetüoso e si fa larga via,

te de la fresca uccisïon superbo,

Turno, cercando. Egli ha Pallante, Evandro,

ogni cosa negli occhi, e le lor mense

cui prima venne e le congiunte destre.

Quattro giovani usciti di Sulmona,

altrettanti cresciuti su l'Ufente

viventi afferra, da immolare inferie

a l'ombra e sparger del captivo sangue

l'accesa pira. Avea poi tratta a Mago

l'infensa asta lontan: quel si fa sotto

accorto, l'asta il ventilò passando,

e supplice gli abbraccia le ginocchia:

«Per l'anima paterna e le speranze

io ti scongiuro del crescente Giulo,

che tu vivo mi lasci al figlio e al padre.

Ho un'alta casa, v'è talenti ascosi

di cesellato argento e pesi d'oro

scolpito e grezzo. Non di qui dipende

la vittoria de' Teucri ed una vita

peserà poco a tanto». Aveva detto.

Enea gli fa questa risposta: «I molti

che tu dici d'argento e d'or talenti

serbali a' figli tuoi. Fu Turno il primo

a toglier via tali commerci in guerra,

quando uccise Pallante. Cosí l'ombra

d'Anchise padre, cosí sente Giulo».

Indi gli pone la sinistra a l'elmo

e, la cervice al supplice piegando,

v'immerge il ferro fino a l'elsa.

Presso

l'Emònide si stava, sacerdote

di Febo e Trivia, cui cingea di sacre

bende le tempie l'infula, e lustrava

tutto a le vesti e a le belle armi. Lui

assalisce e persegue e sul caduto

soprastando l'immola e de la grande

ombra il copre: le scelte armi Seresto

si accolla, a te, Gradivo re, trofeo.

Cèculo da Vulcano generato

e da' monti de' Marsi Umbron disceso

ristorano le file. Le sbaraglia

il Dardanide. Ad Ànxure recisa

la manca aveva d'un fendente e tutto

il cerchio de lo scudo: avea costui

fatto qualche bravata e la parola

s'era creduto riuscir possente,

e s'esaltava forse promettendo

la canizie a sé stesso ed anni lunghi.

Tàrquito baldo e luminoso in armi,

cui al silvestre Fauno procreava

Dríope ninfa, si fe' contro al fiero:

ei ritrae l'asta e avventa, e gli conficca

la lorica e l'usbergo ponderoso;

poi, mentre prega indarno e vuol pur dire,

gli getta il capo per le terre e, il tronco

tepido rotolando, anche soggiunge

con inimico cuore: «Or costí giaci,

o tremendo. Non te l'ottima madre

porrà sotterra e nel sepolcro avito:

rimarrai preda de' rapaci uccelli,

o in mar gittato, andrai con l'onda, e i pesci

ti lambiranno ingordi le ferite».

Senza respiro Antèo persegue e Luca,

prime file di Turno, e il forte Numa

e il nato dal magnanimo Volcente

fulvo Camerte, tra la gente ausonia

ricchissimo che fu di campi e tenne

il regno de la taciturna Amicla.

Quale Egeon, cui cento braccia e cento

mani, e in cinquanta bocche e petti il fuoco

narran che ardesse, allor che contro a Giove

fulminante altrettanti fragorosi

scudi squassava e tante stringea spade;

cosí per tutto il piano infuria Enea

invitto, da che prima il ferro tinse.

Or la quadriga affronta di Nifeo:

come i cavalli videro i gran passi

e il piglio orrendo, paurosi indietro

precipitando rovesciano il duce

ed il carro strascinano a la riva.

Frattanto in bianca biga entra nel mezzo

Lúcago col fratel Lígere: questi

regge le briglie, quei ruota la spada.

Spiacque ad Enea lor fervido furore,

e grande si attraversa a lancia tesa.

Lígere a lui:

«Non i cavalli di Diomede o il carro

vedi d'Achille o de la Frigia i campi:

or qui per te avran fine e l'armi e gli anni».

Volan del folle Lígere gli accenti:

ma non rende parole il teucro eroe,

sí scaglia il colpo a l'avversario. Chino

Lúcago avanti a stimolar col brando

la pariglia, ne l'attimo che avanza

il piè sinistro e s'apparecchia a l'urto,

per gl'imi bordi del fulgente clipeo

sottentra l'asta e il manco inguine fora.

Scosso dal carro ei moribondo rotola

al suol, e amaro il pio Enea gli dice:

«Lúcago, lento correr di cavalli

non tradiva il tuo carro, né lo volse

vano adombrare dai nemici; sei

tu a balzar via da la biga». Detto,

dà di piglio a' corsier. Le palme inerti

sdrucciolato dal carro anche il fratello

triste porgea: «Per te, per i parenti

che tal ti generarono, o Troiano,

odi la prece e lasciami la vita».

E ancor prega, ma Enea: «Tu non parlavi

dianzi cosí. Muori, né abbandonare

fratello il tuo fratel». Poi d'un fendente

gli schiude, covo de la vita, il petto.

Tale il dardanio condottier menava

strage pe' campi, col furor d'un'acqua

torrente o d'atro turbine.

A la fine

prorompon da l'accampamento Ascanio

giovinetto e i suoi prodi invan cerchiati.

Intanto Giove volgesi a Giunone:

«O mia sorella e insiem dolce consorte,

come pensavi, e il tuo pensier non erra,

è Venere a sorreggere i Troiani,

non la lor destra vivida a la guerra

e il fiero cuore de' perigli amico».

Sommessa Giuno a lui: «Fulgido sposo,

perché pungi l'afflitta e timorosa

de' severi tuoi detti? Oh! se in amore

la forza avessi ch'ebbi e aver dovrei,

ciò non mi vieteresti, Onnipotente,

ch'io sottraessi a la battaglia Turno

e incolume il serbassi a Dauno padre.

Or muoia e paghi del buon sangue i Teucri.

Ei tuttavia da noi deriva il nome,

Pilumno è suo bisavolo, e d'offerte

larghe e frequenti a te colmò gli altari».

E breve a lei il Re de l'alto Olimpo:

«Se un indugio s'implora de la morte

per il caduco giovine e tu intendi

ch'io questo intenda, fa' che Turno fugga

e lo rapisci agl'incalzanti fati.

Tanto posso assentir. Che se piú alta

grazia in cotesto supplicar si cela,

se muovere e mutar pensi la somma

de la guerra, speranze nutri vane».

E Giuno lagrimosa: «Or se in tuo cuore

gli concedessi quel ch'esiti a voce?

e salda rimanesse a lui la vita?

Senza colpa or l'attende un triste fine,

se ombra di vero io so. Deh m'illudessi

io di falsa paura e, tu che il puoi,

piegassi a miglior sorte il tuo pensiero!».

Detto ch'ebbe cosí, da l'alto cielo

subito si calò cinta e precorsa

dal nembo, a ritrovar le schiere d'Ilio

e de' Laurenti il campo. Ivi la dea

di vana nebbia una lieve ombra imbelle

in sembianza d'Enea, mirabil vista,

riveste di dardanie armi, e lo scudo

finge e il pennacchio del divino capo;

voci vane le dà, suon senza mente,

ed un andare che somiglia il suo:

tali de' morti è fama errar fantasmi,

o illudon sogni gli assopiti sensi.

L'ombra innanzi a le file imbaldanzisce

e sfida Turno pur con dardi e detti.

Turno la insegue e di lontan le avventa

l'asta fischiante: quella in fuga è volta.

E Turno che credeva Enea fuggire,

nel turbato pensier quella accogliendo

speranza inane: «Dove fuggi, Enea?

non disertare il talamo promesso:

per questa man ti si darà la terra

che cercasti per mar». Cosí l'insegue

urlando e vibra la snudata spada,

e non vede ch'è vento il suo trionfo.

Fermata al piede d'un eretto scoglio

con le scale calate e il ponte pronto

trovavasi una nave, in che venuto

Osinio re da' lidi era di Chiusi.

L'ombra d'Enea fuggente paurosa

vi salí, sparve giú ne' fondi: Turno

non però meno incalza e sorvolando

gl'impedimenti l'alto ponte varca.

Appena tocca avea la prora, e Giuno

rompe il canape e via spicca la nave

indietro per il mar.

Intanto Enea

va chiamando l'assente a la battaglia

e molti in che s'affronta a morte invia.

Già la lieve ombra piú non cerca i fondi,

ma vola in aria e mescesi a le nubi,

mentre naviga Turno al vento buono.

De' fatti ignaro, ingrato de lo scampo,

egli si guarda dietro ed alza al cielo

con la voce le palme: «Onnipotente

Padre, e di macchia tal degno mi credi

e tal castigo m'infliggesti? Dove

vo, donde mossi? quale ontosa fuga

cosí m'apparta? Ancor vedrò le mura

de' Laurenti e le tende? E quelle schiere

a me seguaci ed a' miei segni, e quanti,

oh vergogna! lasciai preda di morte,

e già vedo i dispersi e de' caduti

odo il lamento? Che farò? qual basta

voragine profonda ad inghiottirmi?

Almen deh! voi pietà m'abbiate, o venti:

contro le rupi, il cuor di Turno implora,

contro gli scogli e ne le secche sirti

sbattete il legno, ove a' Rutuli io sfugga

e al grido de l'infamia». In cosí dire

ondeggia vario il suo pensier, se debba

per cosí gran disdoro forsennato

col ferro punitor passarsi il petto,

o gettarsi nel mar, nuotare a riva

e contro l'armi ritornar de' Teucri.

Tentò tre volte l'una e l'altra via,

tre lo ritenne e lo frenò la somma

Giuno di lui tutta pietosa. Ei scorre

per l'alto, e addotto vien dal flutto amico

a l'antica città del padre Dauno.

Intanto per i moniti di Giove

fiero ne la battaglia entra Mezenzio

ed urta i Teucri trionfanti. Fanno

testa i Tirreni e tutti contro ad uno

tutte appuntano in lui l'ire e le frecce.

Ei, come scoglio che s'avanza in mare

a fronteggiare le bufere e i flutti

e de l'aria e de l'acque al furor dura

immobilmente, atterra Ebro figliuolo

di Dolicàone, e Làtago con lui

e Palmo fuggitivo, ma la faccia

a Làtago d'un gran pezzo di monte

coglie in pieno, col poplite reciso

ir lascia Palmo e strascinarsi lento,

l'armi dà in dono a Lauso, che sen voglia

guernir le spalle ed impennar la fronte.

Evante frigio insiem prostra e Mimante

coetaneo di Paride e compagno:

diè questo figlio ad Àmico Teano

la stessa notte che, di face incinta,

la regina cissèa Paride espone;

dorme costui ne la città paterna,

copre il laurente suol Mimante oscuro.

E come quel cinghial giú da le vette

cacciato da' canini ceffi, dopo

molti anni che il pinifero Monviso

e la palude laurentina il cinse,

ne' canneti pasciuto, or tra le reti

s'arresta fremebondo e tutto irsuto;

né osando alcuno d'appressar, di lungi

mandano i colpi e le sicure grida;

cosí quelli che in giusta ira Mezenzio

hanno, hanno orrore di venirgli a fronte;

l'investono lontan di strali e d'urli;

impavido esso e in ogni parte vòlto

digrigna, e scrolla da le schiene i dardi.

Era venuto da l'antica terra

di Còrito Acron greco, interrompendo

profugo gli sponsali. Il vide lungi

le schiere in mezzo scombuiar, vermiglio

di piume e d'ostro che gli diè la sposa.

Qual digiuno leon spesso tra' cupi

covili errando (cruda fame il preme),

se rapida camozza o un cervo scorge

da le corna ramose, a spalancate

fauci balza e arruffando la criniera

su le viscere è chino, il sangue imbruna

l'ingorda bocca;

tal ne' folti nemici urta Mezenzio.

Cade il misero Acron, co' piè percote

ne' moti estremi l'atra terra e arrossa

le infrante armi. Sdegnò colpire invece

Orode in fuga e di scagliata punta

fargli cieca ferita, anzi l'affronta

e a petto a petto con lui sta, vincendo

non di sorpresa ma in duello acerbo.

Poi, posto sul caduto il piede, e a l'asta

poggiando: «In terra è l'alto Orode, o prodi,

non ispregevol parte de la guerra».

Levano quelli allor lieto peana.

Ma quel morente: «O tu, chiunque sei,

vittoria non godrai senza vendetta,

né a lungo: te pur mira un fato eguale

e su la terra stessa giacerai».

A ciò Mezenzio tra il sogghigno e l'ira:

«Or muori. Di me poi vegga il gran Padre

de' Numi e re degli uomini». Ritrasse

in cosí dir la lama da la piaga:

cade l'ombra su quello e il ferreo sonno,

si chiudon gli occhi ne la eterna notte.

Cèdico uccide Alcàtoo, Sacràtore

Idaspe; ha morte da Rapon Partenio

e il robustissim'Orse, da Messàpo

e Clonio ed Erichète di Licàone,

quegli atterrato per lo stramazzare

del focoso destrier, questi pedone.

Pedone Agide licio anche avanzava;

de l'avito valor Vàlero erede

l'abbatte: Salio abbatte Tronio, e lui

Nealce con l'insidie e la saetta

che vien di lunge ed improvvisa coglie.

Già ragguagliava il fiero Marte i lutti

di alterne morti: vincitori e vinti

uccidevan, cadevano del pari;

ignota a questi e a quelli era la fuga.

Quel vano vicendevole furore

e il tanto travagliarsi de' mortali

in Olimpo commiserano i Numi.

Venere mira e la saturnia Giuno

da opposta parte: in mezzo a le migliaia

la pallida Tisifone imperversa.

Ma crollando la enorme asta Mezenzio

torvo pel campo va. Quale Orïone,

quand'a piè fa la via per l'alto mare,

grande a l'onde con l'omero sovrasta,

o da' monti recando un orno annoso

cammina in terra e tra le nubi ha il capo:

tal move con le vaste armi Mezenzio.

Enea che lo spiò tra schiera e schiera

s'appresta ad incontrarlo: e quegli attende

impavido il magnanimo nemico,

e gigantesco sta; poi misurato

con gli occhi il tratto al gitto de la lancia:

«La destra ch'è il mio dio, l'asta che vibro

or m'assistano. Cinto de le spoglie

de l'ucciso predone, o Lauso, io voto

te ad Enea trofeo». Disse, e da lungi

scagliò la sibilante asta, ma il volo

ne ribatté lo scudo, e quella viene

a trapassar tra il fianco e il ventre Antore,

l'ottimo Antore d'Ercole compagno

che partitosi d'Argo appresso Evandro

in itala città s'era posato.

Di ferita non sua quell'infelice

or cade e cerca con lo sguardo il cielo

e tra il morir la dolce Argo rammenta.

Allor l'asta il pio Enea scaglia: pel curvo

cerchio di bronzo triplice, pe' densi

lini ed i tre taurini cuoi trascorse,

e l'inguine ferí senz'altra forza.

Lieto al vedere de l'etrusco il sangue

rapido Enea la spada trae dal fianco

e al vacillante avventasi. Profondo

gemé Lauso a tal vista e per l'amore

del padre suo rigò di pianto il volto.

Qui di tua dura morte e del valore,

se alcuna età remota a l'alto fatto

fede darà, non tacerò già io

né di te, memorando adolescente.

Quegli arretrando inerte ed impedito

da lo scudo traea l'asta nemica.

Balzò tra l'arme il giovine; ad Enea

che già levava il braccio a novo colpo

si fe' sotto e la spada e lui rattenne.

Gridando l'assecondano i compagni,

mentre che sotto l'egida del figlio

il genitor partisse, e di lontano

saettando respingon l'avversario.

Enea ne freme ma si tien coperto.

E come, allor che grandinando i nembi

scoppiano, ogni arator fugge da' campi,

ogni colono, e il viator ripara

lungo il greto del fiume o sotto il ciglio

d'un'alta rupe, mentre intorno è scroscio,

per tornar poi tornando il sole a l'opre;

cosí sotto quel turbine di dardi,

fin che a pien si scateni, Enea resiste,

e a Lauso sgrida e Lauso pur minaccia:

«Dove corri a morir con ardimento

oltre le forze? Il tuo bel cuor t'inganna».

Persiste quei ne la baldanza folle,

e omai piú fiera nel dardanio duce

levasi l'ira, omai l'ultimo stame

filan le Parche a Lauso: Enea la forte

spada in lui attraversa e tutta immerge.

Passò quella e la targa, armi leggiere

de l'audace, e la tunica che a lui

tessuta avea di fine oro la madre,

e sangue il grembo empí: mesta la vita

discese a l'ombre e abbandonò le membra.

Come il figliuol d'Anchise il volto vide,

vide il volto che tutto scolorava,

alta n'ebbe pietà, stese la destra,

e del paterno duol sentí la stretta.

«Per valor tanto, o povero fanciullo,

che ti può dare il pio Enea, de l'alta

indole degno? Sieno tue quell'armi

di che godevi, e al cenere ed a' Mani

de' padri tuoi, se a grado l'hai, ti rendo.

Pur ti consoli de l'infausta morte

che per la man del grande Enea tu cadi».

Gli esitanti compagni esso ammonisce,

e dal suol lo solleva che nel sangue

lorda i capelli al modo usato adorni.

Intanto il genitore al Tebro in riva

tergea con l'acqua le ferite, e al piede

respirava d'un albero. In disparte

l'elmo di bronzo sta sospeso a' rami,

e posan le pesanti armi sul prato.

Giovani eletti lo circondano: esso

egro anelante appoggia la cervice,

piovendogli la gran barba sul petto.

Molto chiede di Lauso, e manda e manda

a richiamarlo ed a recargli il cenno

de l'affannato padre.

Ma i compagni

Lauso portavan sopra l'armi morto,

piangendo, grande con la grande piaga.

Ben riconobbe i gemiti da lunge

il cuor presago di sventura: ei tutta

sparge di polve sua canizie, e leva

alto le palme, e su lui s'abbandona.

«O figlio, e tanto amor posi a la vita

che offrir soffersi a la nemica destra

l'unigenito mio per me? Son vivo

ancora io dunque, perché tu sei morto?

Or sí, misero me, duro m'è il fato,

or sí m'è scesa la ferita addentro!

O figlio, e son pur io che il nome tuo

macchiai di colpa, e venni in ira e privo

del soglio e de lo scettro avito. Pena

a la patria ed al popolo che m'odia

io doveva: oh l'avessi a lor pagata

per qual sia morte questa vita rea!

Pur vivo, e ancora gli uomini e la luce

non lascio. Ma li lascierò».

Dicendo

cosí si leva su l'infermo fianco

e, affranto pur da la ferita acerba,

non avvilito, vuol che gli si adduca

il suo cavallo. Era sua gloria e gioia,

e con quello vincea sempre a la guerra.

Or cosí parla a quel malinconioso:

«O Rebo, a lungo, se v'è cosa lunga

per i mortali, siam vissuti. O in oggi

riporterai trofeo cruento il capo

d'Enea, con me vendicando lo strazio

di Lauso, o, se non è forza che basti,

cadrai con me, ché a sdegno hai tu, mio bravo,

cenno straniero e dardani padroni».

Disse, ed accolto su l'usato dorso

ambe le mani si gravò di dardi,

con l'elmo in capo fulgido e chiomato,

e cosí corse verso la battaglia

– alto rimorso in cuor gli ferve e insieme

una demenza nata di dolore –,

e là Enea a gran voce tre volte

chiamò.

Enea che lo conobbe, lieto

esclama: «Cosí voglia il Re de' Numi,

l'alto Apollo cosí, che tu incominci

ad offrirti al cimento».

Ciò solo disse e l'affrontò con l'asta.

E l'altro: «Perché me tenti, o spietato,

impaurir, poi che m'hai tolto il figlio?

Unica via d'uccidermi fu quella.

Morte non temo né ho riguardo a iddio.

Cessa, ch'io vengo per morire e prima

questi doni ti porto». In cosí dire

gli avventa un dardo e un altro ancora e un altro,

e in larga ruota gli cavalca intorno

saettando, ma saldo è l'aureo scudo.

Tre volte quei cinse il nemico in cerchi

verso manca e traea dardi; tre volte

il teucro eroe girò con sé la densa

selva crescente sul ferrato arnese.

Ma poi che il piú tardar gli pesa e tante

punte spiccare e l'inegual certame

lo stringe, pieno di pensier la mente

al fin prorompe e tra le cave tempie

del pugnace destrier scaglia la lancia.

Dritto s'alza il quadrupede agitando

i piè nell'aria e sul guerrier caduto

poi anch'esso trabocca in mucchio, prono

sopra il riverso con la spalla. Un grido

divampa al ciel de' Teucri e de' Latini.

Accorre Enea traendo fuor la spada.

«Or dov'è, dice, quel Mezenzio fiero

e quell'anima impavida?». L'etrusco,

poi che con gli occhi al ciel bevve la luce

e risentito fu, gli dà risposta:

«Nemico amaro, a che sgridi e minacci?

Non è orror ne la morte e con tal cuore

al duello non venni, né il mio Lauso

mi pattuí con te simili accordi.

Ti chiedo sol, se co' nemici vinti

usa indulgenza, lascia questa salma

coprir di terra. So che acerbo intorno

mi sta l'odio de' miei: tu quel furore

allontana, ti prego, e mi concedi

una col figlio mio la sepoltura».

Cosí detto, riceve ne la gola

non inconscio la spada e sopra l'armi

con tutto il sangue suo versa la vita.





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