GIORNATA DEL 24
A giorno, io vedo, dal mio
balcone, arrivare tumultuando dinanzi alla casa comunale una colonna di popolo
misto alla guardia nazionale.
Una trentina di guardie
nazionali custodiscono il municipio. Con delle grida altissime si domandano
loro le armi.
Rifiuto energico dalle guardie
municipali, e clamori minacciosi dalla folla.
Due ufficiali della guardia
nazionale intervengono:
— Perché spargere ancora del
sangue?... Qualunque resistenza sarebbe inutile!...
Le guardie municipali cedono i
loro fucili e le loro munizioni e si allontanano senza essere disturbate.
Il sindaco dell'VIII mandamento,
Ernesto Moreau, mi manda a pregare perchè io vada al municipio. Egli mi
racconta la terrificante notizia del massacro dei Cappuccini. E, ogni quarto
d'ora, altre notizie arrivano, sempre più gravi.
Questa volta la guardia
nazionale si schiera risolutamente contro il governo e grida: — Viva la Riforma!... — L'esercito,
accasciato per ciò che egli stesso ha compiuto il giorno prima, sembra oramai
che voglia rifiutarsi d'ingaggiare questa lotta fratricida. In via Sainte
Croix-la-Bretonnere le truppe si sono ripiegate davanti alla guardia nazionale.
Mentre discutiamo apprendiamo che alla mairie del IX circondario i
soldati fraternizzano e pattugliano con le guardie nazionali. Due altri
messaggeri in blouse si succedono:
— La caserma di Reuilly è presa!
— E la caserma dei Minimi si è
arresa!
E dal governo io non ho, nè
istruzioni, nè notizie! dice Ernesto Moneau. Ma c'è ancora questo governo? Che
cosa dobbiamo fare?
— Andate sino alla prefettura
della Senna, gli consiglia Perret, membro del Consiglio generale; il palazzo
comunale è a due passi.
— Ebbene, venite con me.
Essi partono. Io faccio una
recognizione intorno a Piazza reale. Dappertutto l'agitazione, l'ansietà,
un'attesa febbrile. Dappertutto si lavora febbrilmente ad inalzar barricate,
già formidabili. Questa volta è qualcosa più di una sommossa; è un'insurrezione.
Io rincaso. Un soldato di
fanteria, in fazione all'ingresso di Piazza reale, parla amichevolmente con la
vedetta di una barricata costruita a venti passi da lui.
*
* *
Alle otto e un quarto, Ernesto
Moreu è tornato dal palazzo comunale. Egli ha veduto Rambuteu e porta delle
notizie un po' migliori. Il re ha incaricato Thiers e Odilon Barrot di formare
un ministero.
Thiers non è molto popolare, ma
Odilon Barrot significa la Riforma. Sventuratamente però la concessione
resta aggravata da una minaccia: il maresciallo Bugeaud è investito del comando
generale della guardia nazionale e dell'esercito. Odilon Barrot significa la Riforma, ma Begeaud vuol
dire la repressione. Il re stende la mano destra e mostra il pugno con la
sinistra.
Il prefetto ha pregato Moreau di
diffondere e di proclamare queste notizie nel suo quartiere, nel sobborgo S.
Antonio.
— È quello che io vado a fare,
mi dice il sindaco.
— Sta bene, gli rispondo; ma
però ascoltate un consiglio: annunziate pure il ministero Thiers-Barrot, ma non
parlate affatto del maresciallo Bugeaud.
— Voi avete ragione.
*
* *
Il sindaco raccoglie una squadra
di guardia nazionale, prende con sè due assessori e i consiglieri comunali
presenti e s'incammina verso piazza Reale.
Un rullo di tamburo chiama a
raccolta la folla. Moreau annunzia il nuovo gabinetto. Il popolo applaude al
grido ripetuto di: — Viva la
Riforma! — Il sindaco aggiunge qualche parola per
raccomandare l'ordine e la concordia ed è nuovamente applaudito con calore.
— Tutto è salvo! mi dice,
serrandomi la mano.
— Sì, rispondo; purchè Bugeaud
rinunzi ad essere il salvatore!
Ernesto Moreau, seguito dalla
sua scorta, se ne va per ripetere la sua proclamazione sulla piazza della
Bastiglia e nel sobborgo, e io rientro in casa per tranquillizzare i miei.
*
* *
Circa mezz'ora dopo il sindaco e
la sua scorta rientravano, spaventati e disordinatamente alla mairie.
Ecco quello che era successo.
Piazza della Bastiglia era
occupata alle due estremità dalla truppa che se ne stava immobile con l'arma al
braccio. Il popolo circolava liberamente e tranquillamente fra le due file di
soldati. Il sindaco, giunto ai piedi della colonna di Giugno, aveva fatto la
sua proclamazione, e anche là la folla aveva applaudito calorosamente.
Moreau si diresse allora verso
il sobborgo Sant'Antonio. In quel momento alcuni operai si avvicinavano
amichevolmente a dei soldati dicendo: — Ripiegate i fucili! Ripiegateli... —
Sotto l'energico comando del loro capo i militari resistevano. Ad un tratto un
colpo di fucile parte seguito da altri colpi. Il terribile panico del giorno
prima sul boulevard dei Cappuccini riafferra la folla. Moureau, e la sua scorta
sono rovesciati, gettati giú. Il fuoco delle due parti dura più di un minuto e
si contano cinque o sei morti e dei feriti.
Fortunatamente questa volta
eravamo in pieno giorno. Alla vista del sangue che gronda, un brusco risveglio
si è prodotto nelle truppe, e, dopo un momento di sorpresa e di spavento, i
soldati, colti da un irresistibile slancio, hanno alzato il calcio del fucile
in aria gridando:
— Viva la guardia nazionale!
Il generale, impotente a
trattenere i suoi uomini, si è ripiegato sul viale Vincennes. Il popolo resta
padrone della Bastiglia e del sobborgo.
— È un resultato che poteva costare
assai più caro; a me sopra tutti, diceva Ernesto Moreau. E ci mostrava il suo
cappello forato da una palla. — Un cappello nuovissimo! aggiungeva ridendo.
*
* *
Le dieci e mezzo. Tre allievi
della Scuola politecnica sono arrivati al palazzo comunale. Essi raccontano che
gli allievi hanno sfondato le porte della scuola e vengono a mettersi a
disposizione del popolo. Un certo numero di essi si sono distribuiti alle varie
mairies di Parigi.
L'insurrezione progredisce di ora
in ora. Adesso essa vorrà le dimissioni del maresciallo Bugeaud e lo
scioglimento della Camera. Gli allievi della scuola vanno anche più in là e
parlano dell'abdicazione del re.
Che cosa succede alle
Tuileries?... Non più notizie, non più ministero, non più ordini allo stato
maggiore. Io mi decido di andare alla Camera dei deputati passando per il
Palazzo di Città, ed Ernesto Moreau vuole accompagnarmi.
Noi troviamo via S, Antonio
tutta seminata di barricate. Ci facciamo riconoscere all'ingresso e gl'insorti
ci aiutano a scavalcare le pietre ammontate del lastrico.
Avvicinandoci al Palazzo di
Città, dal quale arrivava il rumore di una gran folla, e traversando un terreno
dove si costruiva, vediamo venire davanti a noi, camminando a passi
precipitati, de Rambuteau, il prefetto della Senna.
— Ehi! che cosa fate qui, signor
Prefetto?... gli diciamo.
— Prefetto?... Ma, sono ancora
prefetto, io?.., ci risponde con aria stordita.
Alcuni curiosi che sembravano disposti
poco benevolmente si avvicinavano già, raggruppandosi. Moreau scorge
un'abitazione nuova, da affittare; noi vi entriamo ed il signor de Rambuteau ci
racconta le sue sventure.
— Io era nel mio gabinetto, con
due o tre consiglieri comunali. Grande rumore nel corridoio. La porta si
spalanca con fracasso. Entra una specie di colosso, capitano della guardia
nazionale, alla testa di un gruppo di esseri fuori della grazia di Dio. —
Signore, mi ha detto costui; bisogna che voi ve n'andiate! — Domando scusa,
signore, questo è il Palazzo di Città, io sono in casa mia e rimango. — Ieri,
forse, potevate dir così, ma oggi questa è casa del popolo. — Eh!... ma... —
Favorite alla finestra e guardate sulla piazza. — La piazza era gremita da una
folla tumultuante nella quale si confondevano gente del popolo, guardie
nazionali e soldati. E i fucili dei soldati erano nelle mani del popolo! Io mi
sono voltato verso gl'invasori e ho detto: — Signori, voi avete mille ragioni;
i padroni siete voialtri. — Benissimo! — ha risposto il capitano. E allora,
quando è così, fatemi riconoscere dai vostri impiegati. — Io ho esclamato: —
Eh, non ci mancherebbe che questa! — Ho preso alcune carte, ho lasciato qualche
ordine, ed eccomi quà. Siccome sento che voi andate alla Camera, se c'è ancora
una Camera, direte al ministro dell'interno, se c'è ancora un ministero, che al
palazzo di Città non c'è più nè prefetto, nè prefettura!...
*
* *
A fatica abbiamo potuto
attraversare l'oceano umano che copriva, con un brusìo di tempesta, la piazza
del Palazzo di Città.
Sul quai della Megisserie
si alzava una barricata formidabile; grazie alla sciarpa del sindaco ce l'hanno
lasciata scavalcare. Al di là i lungo Senna erano quasi deserti. Noi abbiamo
raggiunto la Camera
dei deputati dalla riva sinistra.
Palazzo Borbone era ingombro da
una folla rumorosa di deputati, di senatori e di alti funzionari. Da un gruppo
abbastanza numeroso è uscita la voce agro-dolce di Thiers:
— Ah, ecco quà Victor Hugo! —
Egli è venuto e ci ha domandato notizie del sobborgo S. Antonio. Noi abbiamo
aggiunto anche quelle del Palazzo di Città; egli ha scosso lugubremente la
testa.
— E quì? ho chiesto. Siete
sempre ministro, voi?...
— Io?... ah! io sono già
passato, io! Già passato!... Siamo a Odilon Barrot, presidente del Consiglio e
ministro dell'interno.
— E il maresciallo Bugeaud?
— Rimpiazzato anche lui dal
maresciallo Gerard. Ma questo è nulla. La Camera è sciolta; il re ha abdicato; egli è sulla
strada di S. Cloud, e la
Duchessa d'Orleans è reggente. Ah! la fiumana sale, sale,
sale!
Thiers ha invitato Ernesto
Moreau e me, di andare ad intenderci con Odilon Barrot. La nostra azione nel
nostro quartiere, così importante, può essere molto utile. Ci siamo messi
dunque in cammino per portarci al ministero degli interni.
Il popolo aveva invaso il
ministero ed affluiva sino al gabinetto del ministro, dove andava e veniva una
folla poco rispettosa. Ad una gran tavola, Odilon Barrot, con la faccia rossa,
le labbra chiuse, le mani nei capelli, leggeva dettando a dei segretari.
Appena egli ci vede:
— Voi sapete tutto, non è vero?
Il re abdica, e la Duchessa
d'Orleans è reggente.
— Se il popolo vorrà! esclama un
uomo in blouse passando rasente al tavolo.
*
* *
Il ministro ci conduce presso
una finestra, gettando intorno degli sguardi inquieti.
— Che cosa farete?.... Che cosa
fate? gli dico.
— Ho mandato dei dispacci nella
provincia.
— Era necessario?
— Bisognava bene mettere la Francia al corrente degli
avvenimenti.
— Ma intanto Parigi dà luogo agli
avvenimenti. Ed ha terminato? La
Reggenza, sta bene, ma bisognerà ch'ella sia sanzionata.
— Sicuro, dalla Camera. La Duchessa d'Orleans dovrà
condurre il conte di Parigi alla Camera.
— Niente affatto, perchè il
Parlamento è sciolto. Se la
Duchessa deve andare in qualche posto, è al Palazzo di
Città...
— Lo credete? E i pericoli?
— Nessun pericolo. Una madre e
un fanciullo! Io rispondo di questo popolo. Egli rispetterà la donna nella
principessa.
— Ebbene; allora, andate alle
Tuileries, cercate della Duchessa, parlatele, consigliatela, informatela di
tutto.
— Perchè non andate voi stesso?
— Torno adesso. Nessuno sapeva
dov'era la Duchessa;
io non ho potuto avvicinarla. Ma se voi la vedete ditele che io sono a sua
disposizione, che aspetto i suoi ordini. Ah, signor Victor Hugo; io darei la
mia vita per quella donna e quel fanciullo!
Odilon Barrot è l'uomo più
onesto e più devoto di questo mondo, ma è tutto il contrario degli uomini
d'azione; il dubbio e la indecisione si sentono nella sua parola, nel suo sguardo,
in tutta la sua persona.
— Ascoltatemi, mi dice ancora;
quello che importa, quello che urge è che il popolo conosca e sappia questi
gravi cambiamenti, l'abdicazione e la reggenza. Mi promettete di andare a
proclamare tutto ciò nella vostra marie, nel vostro quartiere,
dappertutto dove voi potrete?
— Ve lo prometto.
*
* *
Mi dirigo con Moreau verso le
Tuileries.
Nella via Bellechasse, cavalli
al galoppo. Uno squadrone di dragoni passa come un lampo ed ha l'aria di
fuggire davanti ad un uomo dalle braccia nude che gli corre dietro brandendo un
coltellaccio.
Le Tuilleries sono sempre
guardate dalle truppe. Il sindaco mostra la sua sciarpa e noi passiamo.
All'ingresso, il portiere, al
quale io do il mio nome, ci dice che la Duchessa d'Orleans, accompagnata dal Duca di
Nemours, ha abbandonato il castello col Conte di Parigi, per portarsi senza
dubbio alla Camera dei deputati. Noi non abbiamo da fare altro che riprendere
la nostra strada.
All'imboccatura del ponte del
Carrosello, alcune palle soffiano alle nostre orecchie, tirate sulle vetture
della corte che escono dalle scuderie piccole. Uno dei cocchieri rimane ucciso
a cassetta.
— Sarebbe stupido farsi
ammazzare così, come dei semplici curiosi! mi dice Ernesto Moreau. Passiamo
all'altra riva.
Noi rasentiamo l'Istituto ed il quai
de la Monnaie.
Al Ponte Nuovo, c'imbattiamo in
una folla armata di picche, d'asci e di fucili, condotta, tamburo in testa, da
un uomo il quale agita una sciabola e che è vestito di una livrea del re.
È l'abito del cocchiere ch'è
stato ucciso in via S. Tommaso del Louvre.
*
* *
Quando Moreau ed io arriviamo a
Piazza Reale la troviamo interamente occupata da una folla ansiosa.
Siamo subito circondati e interrogati;
a fatica giungiamo al palazzo del comune. La massa del popolo è troppo compatta
perchè si possa parlare sulla piazza. Salgo col sindaco, con qualche ufficiale
della guardia nazionale e con due allievi del Politecnico sino al terrazzo
della mairie. Alzo la mano, e subito si fa silenzio.
Io dico
— Amici miei, voi aspettate
delle notizie; ecco quello che noi sappiamo. Thiers non è più ministro; il
maresciallo Bugeaud non è più il comandante. (Applausi).
Essi sono rimpiazzati dal
maresciallo Gerard e da Odilon Barrot. (Applausi ma meno generali) La Camera è sciolta. Il re ha
abdicato. (Acclamazioni unanimi). La Duchessa d'Orleans è reggente. (Qualche: Bene!
isolato, misto a dei mormorii sordi.)
Io riprendo
— Il nome di Odillon Barrot è
garanzia che il più largo appello sarà fatto a tutta la nazione, e che voi
avrete un governo sinceramente rappresentativo.
Da parecchi punti mi rispondono
degli applausi, ma appare certo che la massa non è del tutto sodisfatta.
Noi rientriamo nella sala della mairie.
— Adesso, dico a Ernesto Moreau,
è necessario che io vada a ripetere tutto ciò sulla piazza della Bastiglia.
Ma il sindaco è scoraggiato.
— Voi vedete bene ch'è inutile,
mi dice con tristezza. La
Reggenza non è accettata. E voi avete parlato qui in un centro
dove siete conosciuto, dove siete amato! Alla Bastiglia troverete il popolo
rivoluzionario del sobborgo, che potrà anche mettervi in una brutta condizione.
— Io vi andrò, gli rispondo.
L'ho promesso a Odilon Barrot.
— Ho cambiato il mio cappello,
soggiunge ancora Ernesto Moreau; però, rammentatevi di quello che mi è accaduto
questa mattina.
— Stamattina popolo ed esercito
erano l'uno di fronte all'altro e vi era il pericolo di un conflitto; in questo
momento il popolo è solo, il popolo è padrone.
— Padrone... e ostile.
Guardatevi bene!
— Non m'importa. Ho promesso, e
manterrò.
Ho detto al sindaco che il suo
posto era lì, alla mairie, e che vi doveva restare. Ma parecchi
ufficiali della guardia nazionale si presentano spontaneamente per
accompagnarmi, e, fra loro, l'eccellente Launay, mio antico capitano. Io
accetto la loro amichevole offerta, dimodochè noi formiamo un piccolo corteggio
che si dirige, passando da via Pas-de-la-Mule, e per il boulevard Beaumarchais,
verso la piazza della Bastiglia.
*
* *
Là si agitava una folla ardente,
dove dominava l'elemento operaio.
Molti armati di fucili presi
alle caserme e tolti ai soldati. Grida e canti dei Girondini:
Morir per la
patria!...
Gruppi numerosi che discutono e disputano
con passione. Si voltano tutti e ci guardano; poi c'interrogano
— Che cos'abbiamo di nuovo? Che
cosa c'è?...
E ci seguono.
Sento sussurrare il mio nome in
vario senso.
— Victor Hugo?
— È Victor Hugo!
Qualcuno mi saluta. Quando
arriviamo alla colonna di Giugno, tutti si affollano e ci circondano.
Per farmi intendere monto sulla
base del monumento.
Delle mie parole io non
ricorderò, qui, altro che quelle che mi fu possibile di fare intendere o di far
giungere al tempestoso uditorio.
Fu piuttosto un dialogo che un
discorso; ma dialogo d'una voce con dieci, con venti, con cento più o meno
ostili.
Cominciai coll'annunciare subito
l'abdicazione di Luigi Filippo, e, come sulla Piazza Reale, applausi nutriti ed
unanimi accolsero questa notizia. Ma, nello stesso tempo, si gridava
— No! no!... Niente abdicazione!
La decadenza! La decadenza!
Decisamente io stavo per
affrontare un partito assai serio. Quando annunziai la Reggenza della Duchessa
d'Orleans scoppiarono delle violenti proteste.
— No! no! Niente Reggenza!
— Abbasso i Borboni!
— Nè re, nè regina!
— Niente padroni!
Io ripetei:
— No! niente padroni! Io non ne
voglio come non ne volete voi tutti, perchè in tutta la mia vita ho sempre
difeso la libertà!
— E allora, perchè proclamate la Reggenza?
— Perché una Reggente non è un
padrone! Del resto, non sono io... Io non ho nessun diritto di proclamare la Reggenza!
— No! no! no! Niente Reggenza!
Un uomo con la blouse grida:
— Fuori il pari di Francia!
Abbasso il pari di Francia!
E dicendo ciò alza il fucile e mi
prende di mira.
Io lo guardo fisso; quindi alzo
talmente la voce che si fa silenzio:
— Sì; io sono pari di Francia e
come tale parlo! Io ho giurato fedeltà non a una persona di sangue reale, ma
alla monarchia costituzionale. Fintanto che un altro governo non sarà fondato
il mio dovere è quello di esserle fedele! E io ho sempre creduto che il popolo
non abbia mai amato che, in qualsiasi caso, si manchi al proprio dovere!
Vi fu intorno a me un mormorio
d'approvazione e nello stesso tempo qualche: — Bravo! quà e là.
Però, quando accennai a
riattaccare: — Se la
Reggenza... — le grida e le proteste raddoppiarono. Non mi si
lasciò dire che una cosa sola. Quando un operaio mi gridò:
— Noi non vogliamo esser
governati da una donna!
Io risposi, vivamente
— Io pure non voglio esser
governato da una donna, e nemmeno da un uomo! È appunto perchè Luigi Filippo
volle governare che la sua abdicazione è oggi necessaria e giusta. Ma una donna
che regna nel nome di un fanciullo...! Non v'è in questo una garanzia per tutti
coloro che pensano ad un governo personale?... Guardate la regina Vittoria
d'Inghilterra...
— Noi siamo francesi! si grida.
— Niente Reggenza!
— Niente Reggenza? Ma allora,
che cosa?... Nulla è preparato, nulla è maturo, nulla! È lo sfacelo totale, la
rovina, la miseria, la guerra civile, forse? In qualunque caso l'ignoto!
Una voce, una sola voce, grida:
— Viva la Repubblica!
*
* *
Nessun altro gli fece eco.
Povero gran popolo incosciente e cieco! Egli sa ciò che non vuole, ma non ciò
che vuole!
Da quel momento, il chiasso, le
grida, le minacce divennero tali che io rinunziai a farmi intendere. Il bravo
Lunaye mi disse
— Voi avete fatto quello che
volevate, quello che avevate promesso. Adesso non ci resta che ritirarsi.
La folla si aprì difronte a noi,
curiosa e inoffensiva. Ma, a venti passi dalla colonna, l'uomo che mi aveva
minacciato col suo fucile mi raggiunse, e, prendendomi nuovamente di mira,
gridò:
— A morte il pari di Francia!
— No! rispetto al grand'uomo!
esclamò vivamente un giovane operaio facendogli abbassar subito l'arma.
Ringraziai con la mano
quell'amico sconosciuto, e passai.
Alla mairie, Ernesto
Moreau che, a quanto sembra, era stato per noi in preda ad una viva ansietà, ci
accolse con gioia, e mi felicitò con entusiasmo. Ma io sapevo troppo bene che
questo popolo, anche preso dalla passione, si conserva sempre giusto, per cui
non avevo alcun merito, non essendovi stata, per me, la ragione di nessuna
inquietudine.
Mentre sulla piazza della
Bastiglia accadevano questi fatti, ecco quanto avveniva al Palazzo Borbone.
Vi è in questo momento un uomo
il cui nome è su tutte le bocche, ed a cui pensano tutte le anime; è questi
Lamartine.
La sua eloquente e viva Istoria
dei Girondini viene ad insegnare per la prima volta alla Francia, la Rivoluzione. Fin
qui egli non era che un uomo illustre; adesso è diventato popolare e, si può
dire, egli ha in mano Parigi.
Nel disastro di tutto, la sua
influenza può essere decisiva. Se lo sono sussurrato nella redazione del National,
dove le probabilità di una Repubblica sono state vagliate e pesate, e dove si è
sbozzato un progetto di governo provvisorio nel quale Lamartine non entra.
Nel 1842, allorquando
discutendosi la Reggenza
la scelta era caduta sul duca di Nemours, Lamartine aveva calorosamente perorato
per la Duchessa
d'Orleans.
Aveva egli oggi le stesse idee?
che cosa voleva egli? che cosa avrebbe fatto? Era necessario saperlo.
Armand Marrast redattore capo
del National, prese con se tre repubblicani dei più noti; Bastide,
Hetzel l'editore, e Bocage, l'eminente artista drammatico che ha creato la
parte di Didier nella Marion de Lorme.Tutti e quattro si portarono alla
Camera dei deputati. Vi trovarono Lamartine ed andarono a conferire con lui in
uno dei tanti gabinetti.
Parlarono tutti l'uno dopo l'altro;
essi dissero quali erano le loro convinzioni e le loro speranze; aggiungendo
che sarebbero stati felicissimi di sapere che Lamartine era d'accordo con loro
per la realizzazione immediata della Repubblica.
Intanto però giudicavano che l'intermezzo
della Reggenza fosse necessario, e domandavano, per lo meno, che Lamartine li
aiutasse ad ottenere delle garanzie serie per evitare di tornare indietro. Essi
aspettavano con emozione la sua decisione in quel grande arbitraggio.
Lamartine ascoltò
silenziosamente le loro ragioni, poi li pregò di volerlo lasciar raccogliersi
per qualche minuto. Egli si sedette presso la finestra, davanti ad un tavolo;
prese la testa fra le mani e pensò. Gli altri stettero a guardarlo
rispettosamente, in silenzio. Minuto solenne.
— Noi sentivamo passar la Storia! mi narrava Bocage.
Lamartine si alzò; e, levando la
testa, esclamò:
— Io combatterò la Reggenza!
*
* *
Un quarto d'ora dopo la Duchessa d'Orleans
giungeva alla Camera, tenendo per la mano i suoi due figli, il Conte di Parigi
e il Duca di Chartres. Odillon Barrot non era vicino a lei. Il Duca di Nemours
l'accompagnava.
Ella fu acclamata dai deputati;
ma... la Camera
disciolta aveva sempre dei deputati?
Cremieux salì alla tribuna e
propose nettamente un governo provvisorio.
Odillon Barrot, che si era
andati a chiamare al ministero, finalmente apparve, e perorò la causa della
Reggenza, ma senza calore e senza energia. Poi, ecco che una fiumana di popolo
e di guardie nazionali, con armi e bandiere, invade la sala. La Duchessa d'Orleans,
circondata dai suoi amici, si ritira coi suoi fanciulli.
La Camera, allora, si
smarrisce sommersa in una specie d'assemblea rivoluzionaria.
Ledru-Rollin arringa quella
folla. Poi arriva Lamartine, atteso ed acclamato. Egli combatte, come aveva
promesso, la Reggenza.
Tutto era detto. I nomi per un
governo provvisorio erano già stati gettati alla folla. Gridando ora si e ora
no, il popolo elesse così, successivamente: — Lamartine, Dupont de l'Eure,
Arago, e Ledru-Rollin, all'unanimità; Cremieux, Garnier-Pages e Marie, a
maggioranza.
I nuovi governanti si misero
subito in cammino per recarsi all'Hotel de Ville.
Alla Camera dei deputati, nei
discorsi degli oratori, nemmeno in quello di Ledru-Rollin, mai una sola volta
la parola Repubblica era stata pronunziata. Ma adesso, al di fuori, nella
strada, questa parola, questo grido, gli eletti dal popolo lo sentono
echeggiare dappertutto; egli vola su tutte le bocche; egli riempie tutta
Parigi.
*
* *
I sette uomini che, in quei giorni
supremi ed estremi, tenevano nelle loro mani le sorti della Francia, erano
strumenti abbandonati alla fede della folla, che non è il popolo; all'azzardo,
che non è la Provvidenza.
Sotto la pressione della
moltitudine, nello smarrimento e nel terrore del loro trionfo che li stordiva,
essi decretarono la
Repubblica senza avere il tempo di riflettere alla grande
cosa che facevano.
Quando, separati e dispersi per
l'urto violento della folla, essi poterono ritrovarsi e riunirsi, o piuttosto;
quando poterono nascondersi in una sala dell'Hotel de Ville, presero un mezzo
foglio di carta in testa al quale erano stampate queste parole: — Prefettura
della Senna — Gabinetto del Prefetto. — Il signor De Rambuteau,
probabilmente, quella mattina stessa aveva adoperato lo stesso pezzo di carta
per scrivere qualche biglietto galante a quelle che egli chiamava le sue
piccole borghesi.
Lamartine tracciò questa frase
sotto la dettatura degli urli terribili del di fuori:
«Il governo provvisorio dichiara
che il governo provvisorio della Francia è il governo repubblicano, e che la
nazione sarà immediatamente chiamata a ratificare la risoluzione del governo
provvisorio e del popolo di Parigi».
Io ho tenuto nelle mie mani
questo brandello, questo foglio sgualcito e macchiato d'inchiostro. La febbre
del momento vi è ancora impressa su e palpita sempre. Le parole, gettate giù
con fretta, sono appena formate. Appello, è scritto: Appelo.
*
* *
Quando quelle sei righe furono
scritte, Lamartine passò il foglio a Ledru-Rollin.
Ledru-Rollin si alzò e lesse ad
alta voce la frase:
— «Il governo provvisorio
dichiara che il governo provvisorio della Francia è il governo repubblicano...
»
— Ecco due volte la parola provvisorio,
disse.
— Bisogna cancellarla per lo
meno una volta, aggiunse Ledru-Rollin.
Lamartine comprese tutta la
portata di quest'osservazione grammaticale ch'era semplicemente una rivoluzione
politica.
— Bisogna aspettare che la Francia sanzioni tuttociò,
disse egli.
— Quando io ho la sanzione del
popolo, rispose Ledru-Rollin, passo sopra alla sanzione della Francia.
— Del popolo di Parigi. Ma chi è
che sa quello che in questo momento può volere il popolo francese? osservò
Lamartine.
Vi fu un momento di silenzio.
Di fuori si udiva il mormorio
della folla, che sembrava l'oceano lontano.
Ledru-Rollin riprese:
— Il popolo vuol subito la Repubblica; la Repubblica... senza
aspettar troppo.
— La Repubblica senza
indugio?...1 chiese Lamartine sorridendo e
nascondendo sotto quel sorriso una obiezione alle parole di Ledru-Rollin.
— Noi siamo qui
provvisoriamente, noi, ripetè Ledru-Rollin; ma la Repubblica no!
Cremieux prese la penna dalle
mani di Lamartine, cancellò la parola: provvisorio in fondo alla terza
linea e scrisse accanto: attuale.
— Il governo attuale?
Sia! disse Ledru-Rollin, alzando leggermente le spalle.
Il sigillo della città di Parigi
era lì sul tavolo. Dal 1830, la nave vogante sotto un cielo cosparso di fiori
di giglio e con la impresa: — Proelucent clarius astris, era scomparso
dal bollo della città. Quel bollo non era più che un semplice cerchio che
rappresentava un grande zero e che nel centro portava questa sola frase: — Città
di Parigi.
Crèmieux prese il bollo e
l'appose in fondo a quel pezzo di carta, così affrettatamente che la impronta
venne alla rovescia.
Essi però non ebbero il tempo di
sottoscrivere quel documento. Li avevano scoperti; una fiumana impetuosa
batteva alla porta della sala nella quale si erano rifugiati.
Il popolo li chiamava, li
esigeva nel salone delle sedute del Consiglio comunale.
Essi furono accolti da questo
grido
— La Repubblica! Viva la Repubblica! Proclamate la Repubblica!
Lamartine, interrotto in
principio da queste grida, riuscì tuttavia colla sua voce potente a calmare
tanta febbrile impazienza.
I membri del governo provvisorio
poterono dunque, così, uscire e tornare a riprendere la loro seduta e la loro
agitata discussione.
I più ardenti volevano che si
dicesse: «Il governo provvisorio proclama la Repubblica...» I
moderati proponevano invece che si scrivesse: «Il governo provvisorio desidera la Repubblica....» Ma
Cremieux fece adottare un mezzo termine: «Il governo provvisorio vuole la Repubblica...». Si
aggiunse: «Salvo la ratificazione del popolo, che sarà immediatamente
consultato».
La notizia fu subito annunziata,
nella sala e sulla piazza, alla folla la quale non volle sentir altro che la
parola: Repubblica, e che salutò
questo nome con una grande acclamazione.
La Repubblica era fatta. Alea
jacta, come più tardi ebbe a dire Lamartine.
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