GIORNATA DEL 25
Nella mattinata il viavai alla mairie
dell'VIII.°
circondario e nei dintorni era relativamente calmo, e le misure prese alla
vigilia per mantenere l'ordine, da Ernesto Moreau, sembravano garantire la
tranquillità e la sicurezza del quartiere.
Io credetti di potere
abbandonare Piazza Reale e potermi dirigere verso il centro con mio figlio
Victor.
Il turbinìo di un popolo (del
popolo di Parigi!) il giorno dopo aver compiuta una rivoluzione era uno
spettacolo che mi attirava invincibilmente.
Tempo coperto e grigio, ma dolce
e senza pioggia.
Le strade fremevano tutte per il
rumore destato dalla gioia. Si seguitava, con incredibile ardore, a rafforzare
le barricate già erette e se ne costruivano delle nuove.
Delle fiumane di popolo, con
bandiere e tamburi, percorrevano le strade gridando: — Viva la Repubblica!
Si cantava la Marsigliese e
il Morir per la patria!
I caffè rigurgitavano, ma molti
magazzini erano chiusi come nei giorni di festa; e, infatti, tutto aveva
l'aspetto di una festa.
Percorsi così tutti i quai,
sino al Ponte Nuovo. La, io lessi ai piedi di un manifesto della proclamazione
il nome di Lamartine, e, dopo aver veduto il popolo provai non so qual bisogno
di andare a trovare il mio grande amico.
Rifeci dunque la strada con
Victor e mi diressi verso l'Hotel de la Ville.
La piazza era, come alla
vigilia, gremita dalla folla. Intorno al palazzo la gente era così fitta
ch'ella non poteva più muoversi. Gli scalini della gradinata erano
inespugnabili. Dopo inutili sforzi per avvicinarmi appena, stavo per andarmene
quando fui veduto da Froment-Meurice, orefice artista, fratello del mio giovane
amico Paul Meurice. Egli era comandante della guardia nazionale e di servizio,
col suo battaglione, all'Hotel de Ville.
Io gli gridai il mio imbarazzo.
— Largo! urlò con autorità. Largo a Victor Hugo!
E la muraglia umana si aprì, non
so come, davanti alle sue spalline.
Guadagnata la scalinata,
Froment-Meurice ci guidò, traverso ogni sorta di scale, di corridoi, e di sale
ingombre dalla folla.
Vedendoci passare, un uomo del
popolo si staccò da un gruppo e si piantò davanti a noi:
— Cittadino Victor Hugo, disse;
gridate: Viva la Repubblica!
— Quando mi si ordina, non grido
nulla! risposi. Voi conoscete la parola libertà; io la pratico. Griderò sempre:
Viva il popolo! perché mi piace così. Il giorno nel quale griderò: — Viva la Repubblica! sarà perchè
io lo vorrò.
— Egli ha ragione! — Egli ha
detto benissimo! mormorarono alcune voci. E noi passammo.
Dopo molti giri, Froment-Meurice
c'introdusse in una stanzetta e ci lasciò per andare ad annunciarmi a
Lamartine.
La porta vetrata della stanza
nella quale noi ci trovavamo dava su di una galleria da cui vidi passare il mio
amico David d'Angers, il grande scultore. Io lo chiamai. David, repubblicano di
vecchia data, appariva raggiante.
— Ah, amico mio, che bel giorno!
esclamò.
Poi mi narrò che il governo
provvisorio lo aveva nominato Sindaco del XI.°
circondario.
— Vi avranno mandato a chiamare,
io credo, per qualcosa di simile?
— No, risposi, io non fui
chiamato. Vengo da me, per serrare la mano a Lamartine.
Froment-Meurice tornò e mi disse
che Lamartine mi aspettava. Lasciai Victor in quella sala dove sarei tornato a
riprenderlo e seguii di nuovo la mia guida cortese, attraversando degli altri
salotti e giungendo finalmente ad un vestibolo pieno di gente.
— Tutto un mondo di
sollecitatori i mi sussurrò Froment-Meurice.
Il governo provvisorio sedeva in
permanenza nel salone a sinistra. Due granatieri della guardia nazionale, con l'arma
al piede, vigilavano alla porta di quella sala, impassibili e sordi alle
preghiere e alle minacce. Dovetti fendere la folla; uno dei granatieri,
avvertito, mi aprì; il pigia pigia degli assedianti volle profittare di quel
momento; urtò e si gettò sulle sentinelle; ma esse, con l'aiuto di
Froment-Meurice, respinsero tutta quella gente e chiusero la porta dietro alle
mie spalle.
Mi ritrovavo in una sala
spaziosa che faceva angolo con uno dei padiglioni dell'Hotel de Ville, da due
lati rischiarata da ampie finestre.
Avrei desiderato di trovare
Lamartine solo; ma vi erano là, seminati per la sala o parlando con degli
amici, tre o quattro dei suoi colleghi del governo provvisorio; Arago, Marie,
Armand Marrast... Lamartine, al mio arrivo, si alzò. Sul suo soprabito
abbottonato come sempre, egli portava un'ampia sciarpa tricolore di seta.
Egli fece qualche passo
venendomi incontro e stendendomi la mano:
— Ah! voi venite con noi, Victor
Hugo! è una bella recluta per la
Repubblica!
— Non correte troppo, amico mio!
gli risposi ridendo. Io vengo semplicemente dal mio amico Lamartine. Voi, per
esempio, non sapete che mentre ieri combattevate la Reggenza alla Camera io
la difendevo in piazza della Bastiglia.
— Sta bene, ieri! Ma oggi...
oggi non c'è più nè Reggenza nè regno. Non è possibile che, nel fondo, Victor
Hugo non sia repubblicano.
— Per principio si, lo sono. La Repubblica, secondo il
mio criterio, è il solo governo razionale, il solo degno delle nazioni. La Repubblica universale
sarà l'ultima parola del progresso. Ma, la sua ora, è propriamente venuta in
Francia? È appunto perchè io voglio la Repubblica che la desidero piena di salute, e che
io la bramo definitiva. Voi interrogherete la nazione, non è vero? Tutta la
nazione?
— Tutta la nazione, certo. Noi
ci siamo tutti intesi, nel governo provvisorio, su questo punto, per il
suffraggio universale. In quel momento, Arago si avvicinò a noi con Armand
Marrast, il quale teneva un plico.
— Mio caro amico, mi dice
Lamartine, sappiate che questa mattina noi vi abbiamo designato come sindaco
del vostro circondario.
— Ed ecco qua il brevetto
firmato da tutti noi, soggiunge Armand Marrast.
— Io vi ringrazio, rispondo, ma
non posso accettare.
— Perchè? riprende Arago. Non è
una carica politica, ma puramente civile.
— Noi siamo stati informati del
tentativo di rivolta al carcere della Force, aggiunge Lamartine. Voi avete
fatto più che reprimerla; l'avete prevenuta. Voi siete amato, rispettato nel
vostro circondario.
— La mia autorità è tutta
morale, rispondo. Ella non può che soffrirne diventando ufficiale. Del resto
poi io non voglio assolutamente spodestare Ernesto Moreau, che in queste
giornate si è lealmente e validamente condotto.
Lamartine e Arago insistevano.
— Non rifiutate il nostro
brevetto.
— Ebbene, risposi, io lo
prendo.... per gli autografi; resta inteso però che lo terrò in tasca.
— Sicuro, tenetelo in tasca,
riprese ridendo Armand Marrast; così voi potrete dire che, dall'oggi al domani,
siete stato pari di Francia e sindaco di Parigi.
Lamartine mi trasse nel vano di
una finestra.
— Non è una carica di sindaco
che io vorrei per voi, riprese egli; è un ministero. Victor Hugo ministro
dell'istruzione della Repubblica! .... Guardiamo, guardiamo, giacchè voi dite
di essere repubblicano...
— Repubblicano... per principio.
Ma, in realtà, ieri io era pari di Francia; ieri io era per la Reggenza; e siccome
ritengo la Repubblica
prematura, sarei anche oggi per la
Reggenza.
— Le nazioni sono al di sopra
delle dinastie, riprese Lamartine. Anch'io sono stato monarchico....
— Voi eravate un deputato eletto
dalla nazione; io era un pari nominato dal sovrano.
— Il re, scegliendovi ai termini
della Costituzione in una delle categorie nelle quali si reclutavano i membri
della Camera alta, non fece che onorare i pari e onorare se stesso.
— Io vi ringrazio, gli risposi;
ma voi guardate le cose dal di fuori; io le osservo nella mia coscienza.
Fummo interrotti da una scarica
lunga di fucilate che scoppiò ad un tratto giú sulla piazza. Una palla venne a
spezzare un cristallo al di sopra delle nostre teste.
— Che cosa succede, ancora?
gridò dolorosamente Lamartine.
Armand Marrast e Marie uscirono
per correre a vedere ciò che accadeva.
— Ah, amico mio, sussurrò
Lamartine; come questo potere rivoluzionario è duro a portarsi! quali e quante
responsabilità si hanno da prendere dinanzi alla propria coscienza, e dinanzi
alla storia! Da due giorni io non so più come vivo. Ieri avevo qualche capello
bianco; domani sarò canuto.
— Si, ma voi fate il vostro
dovere di uomo grande, gli risposi.
Dopo pochi minuti Armand Marrast
tornó.
— Non fu contro di noi, disse.
Non mi hanno saputo spiegare la ragione di questa nuova dolorosa catastrofe.
C'è stato come una collisione; i
fucili hanno esploso... come, perchè? forse un malinteso? forse una questione
fra socialisti e repubblicani? Non si sa.
— Ma, vi sono dei feriti?
— Si, ed anche dei morti.
Seguì un silenzio lugubre. Io mi
alzai.
— Senza dubbio voi avete da
prendere delle misure.
— Ah! quali misure? riprese
tristamente Lamartine. Stamattina noi abbiamo risoluto di decretare ciò che
voi, in piccolo, avete potuto fare nel vostro quartiere. La guardia nazionale;
ogni francese soldato ed elettore. Ma ci vuol del tempo; e intanto, mentre si
aspetta...
E mi mostrò sulla piazza
l'ondeggiare di tutte quelle migliaia di teste.
— Vedete?... È come il mare...
Entrò un ragazzetto tenendo un
porta-pranzo.
— Ah, benissimo, disse egli.
Ecco la mia colazione. Volete favorire con me, Victor Hugo?...
— Grazie, ma a quest'ora io ho
già mangiato.
— Io no, invece, e muoio assolutamente
di fame. Tuttavia, fatemi compagnia; poi vi lascerò libero.
Egli mi fece entrare in una sala
che dava sopra ad una corte interna. Un giovanotto, dalla figura dolce, si alzò
e fece l'atto di ritirarsi. Era il giovane operaio che Luigi Blanc aveva fatto
aggiungere al governo provvissorio.
— Restate, Alberto, gli disse
Lamartine. Io non ho da dire a Victor Hugo nulla che possa esser segreto.
Io ed Alberto ci scambiammo il
saluto.
Il ragazzetto accennò a
Lamartine, sulla tavola, delle cotolette in un piatto di terraglia, un panetto,
una bottiglia di vino ed un bicchiere. Tutta quella roba usciva da uno dei
vinai là vicini.
— Ebbene, chiese Lamartine, e la
forchetta?
— Credevo che lei l'avesse quì.
Se vuole che io vada a prenderne una... Però, ho durato fatica a portar
soltanto, cotesto fin quà.
— Bah! disse Lamartine; a la
guerre, comme â la guerre!
Egli spezzò il pane, prese una
cotoletta per l'osso e schiacciò le noci coi denti.
Quando ebbe finito gettò gli ossi
nel caminetto. In tal modo trangugiò tre cotolette e bevve due bicchieri di
vino.
— Ecco un pasto primitivo, mi
disse. Però è sempre qualcosa di più e di meglio del nostro pranzo d'ieri. In
tutti, noi non avevamo che un po' di formaggio e del pane, e bevemmo dell'acqua
nella stessa tazza sbocconcellata. Quello che mi fa rabbia si è che stamani un
giornale denunziava l'orgia di questa notte del governo provvisorio!
*
* *
Quando, uscendo, entrai nella
sala dove io avevo lasciato mio figlio Victor, non lo trovai più.
Pensai che, stanco di star lì ad
aspettarmi, fosse tornato a casa solo.
Allorchè scesi sulla piazza
della Greve la folla era ancora tutta commossa e costernata per la
inesplicabile collisione avvenuta poco prima.
Vidi passare il cadavere di uno
dei colpiti, spirato pochi minuti prima. Era il quinto, mi dicevano. Lo si
trasportava come gli altri alla sala di S. Giovanni, dove erano esposti tutti i
morti della vigilia, piú di un centinaio,
Prima di rientrare sulla Piazza
Reale feci un giro per visitare tutti i nostri posti. Davanti la caserma dei
Minimi, un ragazzetto di una quindicina d'anni, armato di un fucile tolto ad un
soldato di linea, montava fieramente la guardia.
Mi sembrava di averlo già
veduto, la mattina o il giorno prima.
— Dunque, sei di guardia
un'altra volta? gli chiesi.
— No, mi rispose; non un'altra
volta; sono sempre di guardia, perchè nessuno, ancora, è venuto a levarmi di
quì.
— Ah, senti...! E allora, da
quanto tempo ti trovi costì?...
— Eh, saranno... sicuro; saranno
circa diciassette ore!
— Come?... E non hai dormito?
Non hai mangiato?
— Sì, si; ho mangiato...
— Ah, dunque sei andato a
prendere un boccone di qualche cosa?
— Oh, no!... O che una
sentinella può abbandonare il suo posto?... Stamattina mi sono messo a gridare,
rivolto alla bottega ch'è là di faccia, che avevo fame... e allora mi hanno
portato un po' di pane.
Presi l'impegno di far subito
cambiare quel bravo ragazzo.
Arrivato a Piazza Reale domandai
di Victor. Egli non era rincasato. Sentii un brivido, e, non so perchè, la
visione di quei morti trasportati nella sala di S. Giovanni, traversò subito la
mia mente.
Se il mio Victor fosse rimasto
travolto in quella sanguinosa baraonda?
Trovai un pretesto per uscire di
nuovo. Vacquerie era là; gli sussurrai sottovoce l'angoscia che mi teneva
agitato, ed egli si offrì per accompagnarmi.
Andammo subito a cercare
Froment-Meurice, i di cui magazzini erano nella via Loban, accanto all'Hotel de
Ville, e lo pregai di farmi entrare nella sala di S. Giovanni.
Sul principio egli cercò di
distogliermi dall'idea di vedere quel triste spettacolo; avendolo veduto il
giorno avanti, ne era ancora impressionatissimo. Il quadro appariva orribile.
In quelle sue reticenze e in quel consiglio mi parve di scoprire l'idea di
volermi tener nascosto qualche cosa. Fu allora che insistei di più, e fu allora
che partimmo.
Nella grande sala S. Giovanni,
trasformata in una vasta morgue, si stendeva su dei letti da campo la lunga
fila dei cadaveri, per la più parte irriconoscibili.
Passai quella lunga rivista,
fremendo tutte le volte che qualcuno di quei cadaveri era giovane e coi capelli
castagni.
Oh! si; era davvero uno
spettacolo orribile quello di quei poveri morti tutti insanguinati! Ma io non
saprei descriverlo; tutto ciò che io vedevo di ognuno di essi era... che
nessuno era mio figlio. Finalmente arrivai all'ultimo e respirai.
Appena uscito da quel funebre
luogo vidi corrermi incontro Victor. Egli aveva abbandonato la sala, dove mi
aspettava, appena aveva udito lo sparo dei fucili; poi, non gli era stato più
possibile rientrare; allora era andato a far visita ad un amico.
|