IV.
Il re Girolamo
Un mattino del marzo 1848, vidi
entrare nel mio salone della Piazza Reale un uomo di mezza taglia di circa
sessantacinque o sessantasei anni, in abito nero, con fiocchetto rosso e bleu
scuro all'occhiello, pantalone largo, scarpe verniciate e guanti bianchi.
Era Girolamo Napoleone, re di
Westfaglia.
Egli aveva una voce dolcissima,
un sorriso carezzevole, piuttosto timido, i capelli lisci e brillanti, e nel
profilo qualcosa dell'imperatore.
Veniva a ringraziarmi del suo ritorno
in Francia, che mi attribuiva, e veniva per pregarmi di farlo nominare
governatore agl'Invalidi.
Mi raccontò che Cremieux, membro
del governo provvisorio, il giorno prima gli aveva detto:
— Se Victor Hugo domanda ciò a
Lamartine, sarà cosa fatta. Una volta tutto dipendeva dalla intervista di due
imperatori, oggi tutto dipende dall'intervista di due poeti.
Io ho risposto al re Girolamo:
— Dite al signor Cremieux, che
il poeta è lui.
Nel novembre del 1848, il re di Westfaglia
abitava al primo piano del n. 3 della via d'Algeri. Egli occupava un piccolo
quartierino ammobiliato di velluto di lana e d'acajou.
Il salone, tappezzato di carta
grigia, rischiarato da due lampade, era ornato da una pendola assai goffa,
stile impero, e da due quadri di un'autenticità assai problematica, benchè il
primo di essi portasse inciso questo nome: Tiziano, e l'altro: Rembrandt.
Sul caminetto eravi un busto in
bronzo di Napoleone, quel busto oramai accolto e che l'impero ci ha legato.
Le sole vestigia della esistenza
reale che rimanevano al principe erano le sue argenterie e le sue porcellane,
ornate della corona reale riccamente incisa e dorata.
Girolamo, a quell'epoca, non
aveva che sessantaquattro anni ma non sembrava neppure. Egli aveva l'occhio
vivo, il sorriso benevolo e dolce, la mano piccola e sempre bella.
Abitualmente era vestito di nero
con una catenina d'oro all'occhiello, dalla quale pendevano tre croci; la Legion d'onore, la Corona di ferro, ed il suo
ordine di Westfaglia, da lui creato ad imitazione della Corona di ferro.
Girolamo parlava bene, sempre
con molta grazia, spesso anche con spirito. Egli era pieno di ricordi, e
ragionava dell'imperatore con un sentimento di rispetto e di fraterno amore che
toccava. Appariva in lui un briciolo di vanità. Avrei preferito un po'
d'orgoglio.
Del resto, egli prendeva
bonariamente tutti i qualificativi che gli attirava quella sua strana
situazione d'uomo che non è più un re, che non è più un proscritto, e che non è
neppure un cittadino.
Ognuno lo chiamava come gli
piaceva.
Luigi Filippo lo chiamava Altezza;
Boulay de la Meurthe
gli diceva Sire e Vostra Maestà; Alessandro Dumas lo chiamava Monsignore.
Io gli dicevo: Principe, e mia moglie gli diceva: Signore.
Egli sul suo biglietto metteva: il
generale Bonaparte.
Al suo posto avrei compreso la
sua posizione in un altro modo: Re o nulla.
Narrato dal re Girolamo
Nel 1847, l'indomani del giorno
nel quale Girolamo era rientrato in Parigi, facendosi notte, avendo atteso
inutilmente il suo segretario e annoiandosi così solo, uscì.
Eravamo alla fine dell'estate.
Gerolamo si diresse da sua figlia, la principessa Demidoff, la cui abitazione
si trovava laggiù, dai Campi Elisi.
Traversò piazza della Concordia,
guardando intorno a se tutte quelle statue, quegli obelischi, e quelle fontane;
in una parola tutte quelle cose nuove per un esule che non vedeva Parigi da
trentadue anni.
Poi seguì il viale delle
Tuileries. Io non so quali ricordi penetrarono poco a poco nella sua anima.
Giunto al padiglione di Flora, entrò sotto il pergolato, voltò a sinistra, mise
il piede sopra al primo gradino di una scala conosciuta sotto quella volta, e
salì.
Aveva fatto appena due o tre
gradini allorchè si sentì afferrare per le braccia. Era il portiere che correva
vicino a lui.
— Ehi! signore, signore!... Dove
andate, si può sapere?...
Girolamo lo guardò con aria
sorpresa; poi rispose:
— Perbacco!... in casa mia.
Pronunciate appena queste parole
si destò subito. Il passato lo aveva stordito per un momento.
Raccontandomi ciò egli
aggiungeva:
— Tornai indietro tutto
vergognoso, facendo mille scuse al portinaio.
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