VI.
Fuga di Luigi
Filippo
Soltanto oggi vengo a sapere
come avvenne la fuga di Luigi Filippo. È interessante conoscere questo episodio
di questa rivoluzione.
Fu Cremieux che disse al re
queste tristi parole:
— Sire, bisogna partire.
Il re, com'è noto, aveva di già
abdicato. Egli guardò fisso Cremieux. Giungevamo all'orecchio le fucilate
continue della piazza Reale, ed era il momento nel quale le guardie municipali
del Chateau-d'Eau lottavano contro le due barricate della via Valois e della
via S. Onorato.
Ogni tanto dei rumori immensi
coprivano il fragore della moschetteria. Era chiaro che il popolo si
avvicinava. Dal palazzo Reale alle Tuileries c'era appena un passo per quel
gigante che si chiama sommossa. Cremieux stese il braccio verso quel rumore
sinistro che giungeva dal di fuori e ripetè:
— Sire, bisogna partire!
Il re, senza rispondere una
parola e senza cessare di guardar fissamente Cremieux, si tolse il cappello da
generale e lo porse a chi gli stava vicino per caso; poi si sfilò l'uniforme
dalle gravi spalline d'argento; quindi disse, senza alzarsi dalla grande
poltrona dov'era rimasto affondato da parecchie ore:
— Un cappello tondo!.... un
soprabito!
Gli fu portato un soprabito ed
un cappello tondo. Dopo un istante non era che un vecchio borghese.
Poi urlò con una voce che
indicava la fretta:
— Le mie chiavi! le mie chiavi!
Le chiavi si fecero aspettare.
Intanto il chiasso cresceva, i
colpi di fucile si avvicinavano ed il rumore terribile aumentava.
Il re ripeteva:
— Le mie chiavi! le mie chiavi!
Finalmente le chiavi furon
trovate e gli furon consegnate.
Egli chiuse un portafoglio che
si mise sotto il braccio; un altro grosso portafoglio fu preso da uno dei suoi
valletti. Era in preda ad una specie di agitazione febbrile. Intorno a lui
tutto era paura e fretta. Si sentiva dire dai principi e dai servi:
— Presto!... Presto!... Alla
svelta!
Soltanto la regina era calma e
fiera.
Ci si mise in cammino. Si
traversò le Tuileries. Il re dava il braccio alla regina, o, per meglio dire,
la regina dava il braccio al re.
La duchessa di Montpensier si
appoggiava a Giulio de Lasteyrie e il duca di Montpensier a Cremieux.
Il duca di Montpensier disse a
Cremieux:
— Restate con noi, signor
Cremieux, non ci abbandonate. Il vostro nome ci può essere utile.
Si arrivò in tal modo alla
piazza della Rivoluzione. Colà, il re, impallidì.
Egli cercò con l'occhio le quattro
vetture delle scuderie, alle quali aveva mandato l'ordine di trovarsì là. Non
c'erano.
All'uscita dalle scuderie il
cocchiere della prima vettura era stato ucciso con un colpo di fucile. E nel
momento nel quale il re le cercava sulla piazza Luigi XV, il popolo le
incendiava su quella del Palazzo Reale.
Ai piedi dell'obelisco v'era un
fiacre, molto piccolo, con un cavallo, fermo.
Il re vi si accostò rapidamente,
seguito dalla regina. In quel fiacre erano quattro donne che portavano sulle
ginocchia quattro bambini.
Le donne erano di Nemours e di
Joinville, con due persone della corte. I quattro fanciulli erano i bambini del
re.
Il sovrano aprì vivamente la
portiera e gridò:
— Scendete! Tutte! Tutte!
Egli non pronunziò che queste
tre parole.
I colpi di fucile diventavano
sempre più terribili. Si udiva la fiumana del popolo che invadeva le Tuileries.
In un salto le quattro donne
furono sul lastrico; quello stesso lastrico sul quale era stato eretto il
patibolo di Luigi XVI.
Il re montò, o, per meglio dire,
balzò nel fiacre rimasto vuoto; la regina lo seguì. Madama di Nemours montò sul
sedile davanti. Il re aveva sempre il suo portafoglio sotto il braccio.
L'altro, ch'era verde e molto grande, fu accomodato nella carrozza con un po'
di fatica. Cremieux lo mise a posto con un pugno.
— Parti! urlò il sovrano.
Thuret, il cameriere privato del
re, si attaccò dietro. Ma non potè sostenersi. Allora si provò a montare sul
cavallo; finalmente decise di correre a piedi. La vettura lo sorpassò.
Il fiacre, partendo, aveva preso
la strada di Neuilly. Thuret corse sino a S. Cloud, credendo di raggiungere il
re. Là egli seppe che era ripartito per il Trianon.
In quel momento, la principessa
Clementina e suo marito il duca di Sassonia-Coburgo, arrivavano con la
ferrovia.
— Presto, signora, disse Thuret,
riprendiamo il treno e partiamo per il Trianon. Il re è là.
Fu così che Thuret riuscì a
raggiungere il sovrano.
Intanto, a Vessailles, il re si
era procurato una berlina ed una specie di vettura omnibus. Egli occupò la
berlina con la regina. Il suo seguito prese l'omnibus. A queste vetture furono
attaccati dei cavalli da posta e si partì per Dreux.
Strada facendo il sovrano si
tolse il suo falso cappello e si mise un berretto di seta nera sino agli occhi.
La sua barba non era fatta dal giorno prima. Non aveva dormito. Era
irriconoscibile. Egli si volse alla regina la quale gli disse:
— Voi avete cento anni!
Prima di arrivare a Dreux ci
sono due strade; quella a dritta, la migliore, ben selciata e che fanno tutti;
l'altra a sinistra, è mal tenuta e piena d'ostacoli, ed è anche più lunga. Il
re disse:
— Cocchiere, prendete a
sinistra!
Fece bene, perchè egli era
odiato a Dreux. Una parte della popolazione lo aspettava sulla strada a destra con
delle intenzioni ostili. Prendendo dall'altra parte si salvava da due pericoli.
Il sotto prefetto di Dreux,
prevenuto, lo raggiunse e gli rimise dodicimila franchi, seimila in biglietti e
seimila in tanti sacchetti d'argento.
L'omnibus seguì piano piano, e
come poteva, la strada; la berlina lo abbandonò e si diresse verso Evreux.
Il re conosceva laggiù, ad una
lega prima di arrivare alla città, una casa di campagna appartenente ad uno dei
suoi devoti, il signor di...
Era notte alta quando si giunse
a quella casa. La vettura si fermò.
Thuret discese, e suonò alla
porta; suonò lungamente. Alla fine apparve qualcuno.
Thuret domandò:
— Il signor di....?
Il signor di... non c'era.
Eravamo d'inverno e quel proprietario si trovava in città.
Il suo fattore, chiamato Renard,
ch'era venuto ad aprire, spiegò questo a Thuret.
— Fa lo stesso, disse il servo;
vi è qui un vecchio signore ed una vecchia signora, amici del vostro padrone,
che sono molto stanchi. Apriteci.
— Non ho le chiavi del
quartiere, rispose Renard.
Il re era affranto dalla fatica,
dalle sofferenze, e dalla fame. Renard guardò quel vecchio e ne fu commosso.
Allora riprese:
— Ma il signore e la signora
possono entrar lo stesso. Se non posso aprir loro il castello, posso offrire la
fattoria. Entrino. Intanto manderò a cercare il mio padrone, a Evreux.
Il re e la regina smontarono.
Renard li condusse nella sala terrena della fattoria. V'era un bel fuoco. Il re
era rattrappito:
— Ho molto freddo, disse.
Quindi, riprese: Freddo.., e fame.
E Renard:
— Signore; se vi piace la zuppa
di magro.,,
— Oh, molto, esclamò il sovrano,
Si mise al fuoco una zuppa di
magro e si misero in tavola i resti del pranzo; poi si fece una frittata. Il re
e la regina sedettero, e con loro sedettero allo stesso desco tutti i contadini
della fattoria; Renard il fattore, i garzoni barrocciai, ed anche Thuret,
cameriere.
Il re divorò tutto quello che
gli si mise dinanzi. La regina non mangiò.
Nel bel mezzo del pasto la porta
si aprì. Era il signor di..,. Giungeva col calesse da Evreux. Egli scorse
subito Luigi Filippo, ed esclamò
— Il re?!
— Silenzio! sussurrò il sovrano.
Ma era tardi.
Il signor di... rassicurò il re.
Renard era un brav'uomo. Potevano fidarsi di lui. Tutta la fattoria era abitata
da gente sicura.
— Ebbene, disse il sovrano;
bisogna che io riparta subito. Come si fa?
— Dove desiderate di andare?
chiese Renard.
— Qual'è il porto più vicino?...
— Honfleur.
— Allora, io vado a Honfleur.
— Sia, rispose Renard.
— Quanto c'è di qui?
— Ventidue leghe.
Il re, spaventato, ripetè:
— Ventidue leghe?!
— Domani mattina sarete a
Honfleur, disse Renard.
Renard aveva un carretto che gli
serviva per andare al mercato. Egli era allevatore e negoziante di cavalli.
Attaccò al suo carretto due dei suoi migliori e piú forti animali.
Il re si cacciò in un angolo,
Thuret nell'altro; Renard, come cocchiere, sedette nel mezzo, fra i due. Tra i
piedi si mise un gran sacco d'avena; e si partì.
Erano le sette di sera.
La regina non partì che due ore
dopo, nella berlina della posta.
Il re aveva cacciato i biglietti
di banca nella tasca. Quanto ai sacchetti d'argento, gli davano noia.
— Ogni tanto mi aspettavo che il
re mi dicesse: Gettali via!
Così mi narrava Thuret dandomi
questi particolari. Si traversò Evreux non senza penare. All'uscita, presso la
chiesa di S. Taurin, un assembramento fermò la vettura.
Un uomo afferrò il cavallo per
la briglia e disse:
— Dicono che il re voglia
salvarsi passando di quì!
Un altro mise una lanterna sotto
gli occhi del sovrano. Finalmente una specie di ufficiale della guardia
nazionale che sembrava guardasse attentamente i finimenti dei cavalli con
intenzione sospetta, esclamò:
— Toh!... È papà Renard! .. Lo
conosco io, cittadini!
Poi, chinandosi verso l'angolo
dove stava seduto Thuret, gli sussurrò sottovoce:
— Riconosco l'amico ch'è seduto
là, dall'altra parte. Partite, lesti!
Thuret mi ha detto dopo:
— Quell'uomo parlò a tempo,
perchè, credendo ch'egli volesse tagliare le cinghie dei cavalli, avevo già
aperto il coltello, e stavo per balzare e per...
Renard schioccò la frusta e si
abbandonò Evreux.
Si corse tutta la notte. Ogni
tanto ci si fermava agli alberghi che s'incontravano sulla strada e Renard
faceva mangiare una porzione d'avena ai cavalli.
Egli diceva a Thuret:
— Scendete. Assumete un'aria
tranquilla, e datemi del tu.
Egli dava del tu anche al re.
Il sovrano abbassava il suo
berretto di seta nera sul naso, e si manteneva in un silenzio profondo.
Alle sette del mattino si giunse
a Honfleur. I cavalli avevano fatto ventidue leghe senza mai fermarsi, in dodici
ore. Essi erano fiaccati.
— Era tempo! esclamò il re.
Da Honfleur il sovrano raggiunse
Trouvílle. Egli sperava nascondersi in una casa altravolta affittata da
Duchatel, quando questi andava, nelle vacanze, a fare dei bagni di mare. Ma la
casa era chiusa.
Si rifugiarono nell'abitazione
di un pescatore.
Il generale Rumigny giunse nella
mattinata e mancò poco non facesse fallire tutto. Un ufficiale lo riconobbe
sulla porta.
Finalmente il re riuscì ad
imbarcarsi. Il governo provvisorio si prestò molto.
Tuttavia, all'ultimo momento, un
commissario di polizia volle far lo zelante. Egli salì sul bastimento dove il
sovrano si era imbarcato e visitò la nave da cima a fondo.
Sotto il ponte guardò a lungo
quel vecchio signore e quella vecchia signora ch'erano seduti in un canto e che
avevano l'aria di vigilare sui loro sacchi da notte.
Tuttavia non se ne andava.
Ad un tratto il capitano trasse
l'orologio e disse:
— Signor commissario di polizia,
restate o partite?
— Perchè questa domanda? chiese
il funzionario.
— Perchè, se fra pochi minuti
non sarete sul suolo francese, domani mattina vi troverete su quello
d'Inghilterra.
— Partite?
— Subito!
Il commissario si rassegnò a
malincuore, e scese, convinto di lasciarsi sfuggire una buona preda.
Il bastimento partì.
In vista dell'Havre mancò poco
che la nave non fosse rovesciata — il tempo era cattivo e la notte nera — da un
altro battello che, strisciando, portò via parte dell'alberatura. Le avarìe
furono riparate alla meglio e l'indomani mattina il re e la regina erano in
Inghilterra.
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