XIX
Morte di
Balzac.
Il 18 Agosto 1850, mia moglie,
che nel corso della giornata era stata fuori per visitare la moglie di Balzac,
mi disse che egli era morente. Corro da lui.
Balzac era affetto da diciotto
mesi da una ipertrofia del cuore. Dopo la rivoluzione del Febbraio, era andato
in Russia e vi si era ammogliato. Qualche giorno prima ch'egli partisse,
l'avevo incontrato sul boulevard; e si lamentava già e respirava
affannosamente. Nel maggio 1850, era tornato in Francia, ammogliato, ricco e
morente. Arrivando aveva già le gambe enfiate. Quattro medici, a consulto,
l'esaminarono. Uno di essi; Louis, mi disse il 1 luglio: Egli non ha nemmeno
sei settimane di vita. Era la stessa forma di malattia di Federico Souliè.
Il 18 Agosto avevo a pranzo il
generale Luigi Hugo, mio zio. Appena alzato da tavola, lo lasciai e presi una
carrozza che mi condusse nel viale Fortunée, n. 14 nel quartiere Beanjon.
Là dimorava Balzac. Egli aveva
comprato ciò che restava del palazzo del sig. De Beanjon, qualche fabbricato
sfuggito per caso alla demolizione; aveva magnificamente mobiliato quelle
stanzuccie, e ne aveva fatto un grazioso appartamento che aveva la porta
principale sul viale Fortunée, e per giardino, semplicemente, una corte lunga e
stretta, le cui lastre erano interrotte quà e là da delle aiuole.
Suonai. Era un chiaro di luna
velata di nubi. La strada era deserta. Nessuno venne. Suonai ancora. La porta
si aprì. Una donna di servizio comparve, con un candeliere in mano. Che cosa
desidera il signore? mi domandò — piangeva. Le dissi il mio nome. Mi si fece
entrare nel salone che era al pianterreno, e nel quale si vedeva, sopra una «console»
rimpetto al camino, il busto colossale di Balzac, modellato da David.
Una candela era accesa, posta
sopra una ricca tavola ovale in mezzo alla sala, sostenuta da sei statuette
dorate, di finissimo gusto.
Un'altra donna venne; essa pure
piangeva e mi disse:
— Muore. — La signora è
ritornata nel suo appartamento. I medici lo hanno lasciato fin da ieri. Ha una
piaga alla gamba sinistra. Vi è cancrena. I medici non sanno ciò che fanno.
Dicevano che l'idropisia del signore era una idropisia cotennosa, un'infiltrazione
come dicono, tale da ridurre la pelle e la carne spesse come il lardo, e render
perciò impossibile la puntura. Ebbene, il mese scorso, il signore, andando a
letto, ha urtato un mobile lavorato ad intagli, la pelle si è rotta, e tutta
l'acqua che aveva nel corpo è uscita. I medici hanno detto: «Guarda!...» Ciò li
ha meravigliati, e dopo quel giorno gli hanno fatto delle punture — I medici
hanno detto: «Imitiamo la natura». Ma è venuto fuori un ascesso alla gamba. È
il Sig. Roux che l'ha operato.
Ieri hanno tolto la fasciatura.
La piaga, invece d'esser venuta o supporazione, era asciutta e bruciava. Allora
essi hanno esclamato: È perduto! e non sono più tornati. Se ne sono cercati
quattro o cinque ma inutilmente. Tutti hanno risposto: «Non c'è da fargli
niente» — Ha passato una brutta nottata. Stamattina alle nove non parlava più.
La signora ha fatto chiamare un prete. Questi è venuto e ha dato al signore
l'estrema unzione. Egli ha fatto segno di capire. Un'ora dopo ha stretto la
mano a sua sorella, la signora De Luville. — Dalle undici in qua rantola e non
vede più nulla. Non arriverà a domattina. Se voi volete, signore, anderó a
cercare il sig. Da Luville che non è ancora andato a letto.
La donna mi lasciò. Aspettai per
qualche istante. La candela rischiarava appena gli splendidi mobili del salone
ed i magnifici quadri di Porbus e di Holbein, attaccati alle pareti. Il busto
di marmo si drizzava incertamente in quell'ombra come lo spettro dell'uomo che
stava per morire. Un odor di morte aleggiava nella casa.
Il sig. De Luville entrò e
confermò quanto mi aveva detto la donna di servizio. Chiesi di vedere Balzac.
Traversammo un corridoio,
salimmo una sala coperta d'un tappeto rosso, ed ornata a profusione d'oggetti d'arte,
vasi, statue, quadri, mensole sopportanti degli smalti, poi un altro corridoio,
e vidi una porta aperta. Sentii un rantolo alto e lugubre. Ero nella camera di
Balzac.
Un letto era in mezzo a questa
camera. Un letto d'«acajou» avente ai piedi ed a capo delle traverse e
delle cinghie che indicavano un apparecchio di sospensione destinato a muovere
il malato.
Balzac era in quel letto, colla
testa appoggiata ad un mucchio di guanciali ai quali erano stati aggiunti dei
cuscini di damasco rosso tolti al divano della camera. Aveva il volto violaceo,
quasi nero, voltato a destra, la barba non fatta, i capelli grigi e tagliati
corti, gli occhi spalancati e fissi. Lo vedevo di profilo, e somigliava così
all'Imperatore.
Una donna, vecchia,
l'infermiera, ed un servitore stavano in piedi di quà e di là dal letto. — Una
candela era accesa dietro il capo del letto, sopra una tavola; un'altra sul
cassettone, vicino alla porta. — Un vaso d'argento stava sul comodino.
Quell'uomo e quella donna tacevano, come sotto un'impressione paurosa, ed
ascoltavano il rantolo profondo del morente.
La candela, a capo del letto,
illuminava un ritratto d'uomo giovane, roseo e sorridente, che era sospeso
vicino al caminetto.
Dal letto esalavano emanazioni
insopportabili. Sollevai la coperta e presi la mano di Balzac. Era madida di
sudore. La strinsi. Non rispose alla pressione.
Era in questa medesima camera
che io ero venuto a trovarlo un mese prima. Egli era allegro, fiducioso, senza
dubbio sulla sua guarigione; mostrava la sua enfiagione ridendo. Avevamo molto
parlato e discusso di politica; egli mi rimproverava la «mia demagogia» — Egli
era legittimista. Mi diceva: «Come mai avete potuto rinunziare così serenamente
a quel titolo di pari di Francia, che è il più bello dopo quello di re di
Francia!» — E mi diceva anche: «Io ho la casa del sig. De Beaujon, meno il
giardino, ma colla tribuna nella piccola chiesa del canto della via. Ho là,
sulla mia scala, una porta che da sulla chiesa. Un giro di chiave, e posso
andare alla messa. Tengo più a quella tribuna che al giardino».
Quando l'avevo lasciato, mi
aveva accompagnato faticosamente fino a quella scala, mi aveva mostrato quella
porta, ed aveva detto forte a sua moglie: — E soprattutto, mostra a Hugo tutti
i miei quadri.
L'infermiera mi disse: — Morirà
allo spuntar del giorno.
Scesi, colla mente piena di
quella visione livida; traversando il salone, rividi il busto immobile,
impassibile, altero e radioso nell'ombra, e feci il paragone fra la morte e
l'immortalità.
Tornato a casa, era una domenica,
trovai molte persone che mi aspettavano, fra le quali Riza-Bey, incaricato
d'affari del governo Turco, Navaprete, il poeta spagnolo, il conte Arrivabene,
profugo italiano. Dissi loro: — Signori, l'Europa sta per perdere un'anima
grande.
Morì nella notte. Aveva
cinquantun'anno.
*
* *
Lo si seppellì il mercoledì
Fu prima esposto nella cappella
Beaujon e passò da quella porta la cui chiave gli era più preziosa di tutti i
giardini paradisiaci dell'antico «fermier» generale.
Giraud, il giorno stesso della
sua morte aveva fatto il suo ritratto. Si voleva fare anche l'impronta del
volto, ma non fu possibile, tanto rapida era stata la decomposizione.
Il giorno dopo la morte, al
mattino, gli operai che dovevan far la maschera trovarono il volto deformato,
il naso caduto sulla guancia. Egli fu posto in una bara di quercia foderata di
piombo.
Il servizio funebre fu fatto a
San Filippo. — du Roule. Io pensavo, accanto a quel feretro, che in
quella chiesa la mia seconda figlia era stata battezzata, e che non avevo
rivisto quel tempio dopo quel giorno. Nei nostri ricordi la morte si unisce
alla nascita.
Il ministro dell'interno,
Baroche, venne al funerale. Egli sedeva, in chiesa, vicino a me, davanti al
catafalco, e di tanto in tanto mi rivolgeva la parola. Mi disse: — era un uomo
distinto. — Gli risposi: — era un genio.
Il corteo traversò Parigi e
andò, lungo i «boulevards» al «Père Lachaise». Cadevano goccie di
pioggia quando lasciammo la chiesa e quando giungemmo al cimitero. Era uno di
quei giorni in cui sembra che dal cielo piovano stille di pianto.
Andammo sempre a piedi. — ero a
destra, in testa al feretro; Alessandro Dumas era dall'altra parte.
Quando giungemmo alla fossa che
era scavata lassù, sulla collina, trovammo una folla immensa, la strada era ripida
e stretta, i cavalli stentavano a trascinare il carro che ad un tratto
indietreggiò. Mi trovai stretto fra le ruote ed una tomba. Poco mancò che non
fossi schiacciato. Alcune persone ritte sulla tomba mi alzarono di peso fino a
loro.
Fu calato il feretro nella fossa
che era vicina a quelle di Carlo Nodier e di Casimirro Delavigne. Il prete
disse l'ultima preghiera, io pronunziai poche parole. Mentre parlavo, il sole
tramontava e Parigi intiera mi appariva lontano, nello splendore nebuloso del
tramonto. Quasi ai miei piedi, cadeva, smottando, la terra nella fossa, ed io
ero interrotto dal rumore sordo di quelle zolle che cadevano su quel feretro.
|