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Victor Hugo Lotte sociali IntraText CT - Lettura del testo |
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III.
IL PRIMO PRANZO
24 dicembre 1848. Luigi Bonaparte ha offerto il suo primo pranzo ieri sabato 23, due giorni dopo la sua proclamazione a presidente della Repubblica. La Camera era in vacanze a causa del Natale. Io ero in casa, nel mio nuovo alloggio della via Tour d'Auvergne, occupato, non ricordo più in quale bagattella, totus in illis, allorchè mi fu rimesso un plico al mio indirizzo, portato da un dragone. Ruppì la busta e lessi: «L'ufficiale d'ordinanza di servizio, ha l'onore d'informare il signor generale Changarnier ch'egli è invitato a pranzo all'Eliseo-Nazionale, oggi sabato, alle ore sette». Io scrissi lì sopra; «Rimessa per errore al signor Víctor Hugo». Quindi rimandai la lettera per lo stesso dragone che me l'aveva portata. Un'ora dopo mi giunse una lettera di de Persigny, antico compagno dei complotti del principe Luigi, ed oggi segretario degli ordini. Quella lettera conteneva mille scuse per l'errore commesso e mi preveniva che io ero nel numero degl'invitati. La mia era stata indirizzata per lo stesso errore della busta al rappresentante della Corsica, l'on. Conti. In cima alla lettera del signor di Persigny, era scritto a mano così: Casa del Presidente. Rimarcai la forma di quegl'inviti, perfettamente uguale a quella adottata dal re Luigi Filippo. Siccome io tenevo a non far credere ad una freddezza calcolata, mi vestii. Erano le sei e mezzo, e mi condussi sul campo, all'Eliseo. Suonavano le sette e mezzo quando arrivai. La porta era chiusa a metà; due soldati di linea la vigilavano; il cortile era appena rischiarato; un muratore lo attraversava col suo abito da lavoro, portando una scala sulle spalle. Quasi tutti i cristalli delle finestre dei primi piani erano infranti e rimpasticciati con della carta. Entrai dalla porta della scalinata. Tre uomini di servizio, in abito nero, mi ricevettero; l'uno aprì le porte, l'altro mi tolse il mantello, il terzo mi fece: — Al primo piano, signore! Salii lo scalone d'onore. V'era un tappeto e v'erano dei fiori, ma l'addobbo rivelava un non so che di freddo e di ghiaccio. Al primo piano un usciere mi disse: — Il signore viene per pranzare? — Sì, risposi. Forse sono già a tavola? — Sì, o signore. — Ah, in questo caso io me ne vado. L'usciere gridò — Ma, signore, quasi tutti sono arrivati quando si era già a tavola. Entrate... Si conta sul signore. Rimarcai quella esattezza militare e imperiale, ch'era nelle abitudini di Napoleone I. Con l'imperatore le sette volevan dire le sette. Traversai l'anticamera e poi un salone dove lasciai il mio mantello, ed entrai nella sala da pranzo. Era una sala quadrata, a fondo bianco con ornati stile impero. Alle pareti, delle stampe e dei quadri, di un gusto il più infelice; fra gli altri Maria Stuarda che ascolta Rizio, del pittore Ducis. In fondo alla sala un buffet. Nel mezzo una tavola lunga e tonda alle estremità della quale sedevano una quindicina di convitati. Quella tavola aveva una estremità più alta verso il fondo, alla quale stava seduto il presidente della Repubblica. Egli aveva ai suoi lati due donne; a destra la marchesa di H..., a sinistra la signora Conti, madre del rappresentante. Quando io entrai il presidente si alzò. Andai a lui. Ci prendemmo la mano. — Ho improvvisato questo pranzo, mi disse; non ho che qualche caro amico ed ho creduto che sareste stato del numero. Vi ringrazio di essere venuto. Voi siete venuto da me come io sono venuto da voi, semplicemente. Vi ringrazio. Egli mi prese un'altra volta la mano. Il principe della Moskowa, ch'era accanto al generale Changarnier, mi fece posto accanto a lui, e io mi assisi alla tavola. Procurai d'affrettarmi, poichè il Presidente aveva fatto interrompere il pranzo per darmi il tempo di raggiungere gli altri. Si era alla seconda portata. Difronte a me avevo il generale Rulhieres, antico pari, ministro della guerra; il rappresentante Conti e Luciano Murat. Gli altri convitati mi erano ignoti. Fra essi v'era un giovane capo squadrone, decorato della Legion d'onore. Soltanto questo capo squadrone era in uniforme; gli altri avevano il frac. Il principe portava un abito nero con la rosetta della Legion d'onore all'occhiello. Tutti chiacchieravano col proprio vicino. Sembrava che Luigi Bonaparte preferisse la sua vicina di destra a quella di sinistra. La marchesa di H... ha soltanto trent'anni. Begli occhi, pochi capelli, bocca larga, la pelle bianca, il petto fresco, le braccia belle e le più belle manine del mondo, due spalle ammirabili. In questo momento ella è separata dal signor M. di H.... Ha fatto otto figli, i primi sette con suo marito. Nei primi tempi ella andava a trovare il consorte nel salotto, di pieno giorno, e gli diceva — Vieni, dunque! E lo conduceva a letto. Qualche volta un domestico veniva a dire: — La signora marchesa chiede il signor marchese. Il marchese obbediva. Tuttociò faceva ridere coloro ch'erano lì. Oggi, il marchese e la marchesa si sono scottati. — Voi sapete, mi dice sottovoce la Moskowa, che ella è stata l'amante di Napoleone, figlio di Girolamo; oggi lo è di Luigi. — Ebbene, rispondo io; cambiare un Napoleone con un Luigi è una cosa... che si vede tutti i giorni. Questo cattivo scherzo non m'impedì di mangiare e di osservare. Le due donne, sedute ai lati del presidente, avevano delle sedie con la spalliera quadra. Il presidente invece sedeva sopra ad un seggiolone con la spalliera rotonda. Volendo trarre delle induzioni guardai anche le altre sedie e mi accorsi che quattro o cinque convitati, nel numero dei quali ero anch'io, avevano dei seggioloni uguali a quelli del presidente. Erano tutti in velluto rosso con frange e bordure dorate. Un'osservazione più seria fu questa: tutti i presenti chiamavano il presidente della Repubblica, Monsignore e Vostra Altezza. Io che lo chiamavo Principe avevo l'aria di un demagogo. Quando ci alzammo da tavola il principe mi chiese notizie di mia moglie; poi mi fece tutte le sue scuse per la mancanza del servizio. — Io non sono ancora a posto, mi disse. L'altro ieri, quando sono arrivato, è stato un miracolo se mi è riuscito di trovare un materasso per dormire. Tuttociò non doveva sorprendere, essendo stato Cavaignac che aveva fatto il letto a Bonaparte. Il pranzo era stato mediocre ed il principe aveva ragione di scusarsi. Il servizio in porcellana bianca, comunissimo; l'argenteria borghese, usata e rozza. Nel mezzo della tavola eravi un bel vaso montato in cuoio dorato di cattivo gusto, Luigi XVI. Ad un tratto udimmo una musica nella sala vicina. — È una sorpresa, ci disse il presidente. È l'orchestra dell'Opèra. Di lì ad un istante fu distribuito un programma scritto a mano che indicava i cinque pezzi che stavano per essere eseguiti: 1.° Preghiera della Muta. 2.° Fantasia sui motivi scelti della Regina Ortenzia. 3.° Finale del Robert Bruce. 4.° Marcia Repubblicana. 5.° La vittoria, passo doppio. Nella disposizione d'animo e d'inquietudine nella quale, come tutta la Francia, anch'io mi trovavo, non potei fare a meno di notare quella Vittoria, a passo doppio, che veniva dopo la Marcia repubblicana. Mi alzai da tavola senza essermi tolto l'appetito. Passammo nel salone, diviso dalla sala d'aspetto che io avevo attraversato arrivando. Quel grande ambiente appariva assolutamente misero, tutto bianco, con delle figure sul genere pompeiano a tutte le pareti e col mobilio stile impero, tranne le sedie ed e i sofà in stoffa dorata molto eleganti. C'erano tre finestre alle quali corrispondevano in facciata sull'altra parete altrettanti grandi specchi della stessa forma, dei quali uno, quello nel mezzo, era una porta. Le tende delle finestre erano di un bel satin bianco, a fiori persiani, molto ricche. Mentre conversavamo, il principe della Moskowa e io, di socialismo, della Montagna, del comunismo, ecc., Luigi Bonaparte venne e mi condusse da un lato. Egli mi chiese quello che io pensavo del momento. Fui riserbato. Gli dissi che le cose si mettevano bene; che la responsabilità era molta, ma grande; che bisognava tranquillizzare la borghesia e sodisfare il popolo, dare agli uni la calma e agli altri il lavoro, la vita a tutti; che dopo tre governucci, i Borboni, Luigi, e la Repubblica di febbraio, occorreva un governo grande; che l'Imperatore aveva fatto ciò con le guerre, e che adesso, lui, doveva far lo stesso con la pace; che il popolo francese, essendo da tre secoli un popolo illustre, non doveva diventare basso e ignobile; ch'era questa dimenticanza della fierezza del popolo e dell'orgoglio nazionale che aveva, prima di tutto, perduto Luigi-Filippo; che, in una parola, bisognava incoronare la pace. — E come? mi chiese Luigi Napoleone. — Con la grandezza delle arti, delle lettere, delle scienze; con le vittorie delle industrie e del progresso. Il lavoro del popolo può compiere dei miracoli. Del resto, la Francia è una nazione che sa conquistare; quando ella non fa delle conquiste con le armi vuol farne col suo ingegno e col suo spirito. Tenete a mente questo e andate avanti. Dimenticandolo sareste perduto. Egli rimase pensieroso per un momento, e si allontanò. Poi mi tornò vicino, mi ringraziò e riprendemmo la nostra conversazione. Parlammo della stampa. Gli consigliai di rispettarla profondamente e di crearle accanto una stampa dello Stato. — Lo Stato senza un giornale, in mezzo ai giornali, gli dissi, occupato a governare mentre intorno a lui si fanno della pubblicità e delle polemiche, sembra un cavaliere del quindicesimo secolo che si ostina a battersi all'arma bianca contro ai nostri cannoni; egli è sempre battuto. Posso convenire che tutto ciò è nobile, ma dico anche ch'è cretino. Egli mi parlò dell'Imperatore. — Fu qui che io lo vidi per l'ultima volta. Rientrando in questo palazzo non ho potuto nascondere la mia emozione. L'Imperatore mi fece condurre vicino a lui e mi posò la mano sulla testa. Io avevo sette anni. Ciò accadde nel gran salone al piano terreno. Poi Luigi Napoleone mi parlò della Malmaison. — La sì è rispettata. L'ho rivisitata minuziosamente sei settimane fa, ed ecco come: ero andato a vedere il signor Odilon Barrot a Bougival. — Pranzate con me, mi disse lui. — Volentieri! Erano le tre. — Che cosa facciamo mentre aspettiamo di pranzare? — Andiamo a vedere la Malmaison, disse Barrot. Partimmo. Eravamo soli. Giunti alla Malmaison sonammo. Un portiere venne ad aprire il cancello. Barrot prese la parola. — Vorremmo visitare la Malmaison. Il portiere rispose: — E impossibile! — Come! impossibile? — Ho degli ordini precisi. — Da chi? — Da Sua Maestà la Regina Cristina, la quale, presentemente, è padrona del Castello. — Ma il signore è un forestiero venuto apposta. — Impossibile! — Perbacco, esclamò Odilon Barrot, è strano che questa porta rimanga chiusa al nipote dell'Imperatore! Il portiere trasalì e gettò il suo berretto a terra. Era un vecchio soldato al quale si era dato quel posto. — Il nipote dell'Imperatore?! gridò. Oh! sire, entrate! Egli voleva baciare i miei abiti. Noi visitammo il castello. Tutto era sempre al suo posto. Io riconobbi subito ogni cosa; il gabinetto del primo console, la camera di mia madre, la mia. I mobili sono sempre gli stessi, in molte camere. Ho ritrovato una piccola poltroncina che avevo quando ero bambino. Io dissi al principe: — Ecco! i troni spariscono e rimangono le poltroncine. Mentre noi conversavamo venne vicino anche qualcun'altro, fra quali Duclerc, l'ex ministro delle finanze della Commissione esecutiva; poi una vecchia signora, vestita tutta di velluto nero che io non conoscevo; poi lord Normanby, ambasciatore d'Inghilterra che il presidente condusse vivamente in un salone vicino. Io avevo veduto lo stesso lord Normanby condotto nello stesso modo, e dalla stessa parte, dal re Luigi Filippo. In quel suo salone il presidente aveva l'aria molto timida, come di chi non crede di essere in casa sua. Egli andava e veniva da un gruppetto all'altro piuttosto come un estraneo imbarazzato che come un padrone di casa. Del resto egli parla a tempo e qualche volta con spirito. Invano ha cercato di sbottonarmi sul suo ministero. Io non volevo dirgliene, nè bene, nè male. Il ministero non è che una maschera, o, per meglio dire, non è che un paravento dietro al quale si cela un brutto figuro. Thiers è lì dietro. Ciò comincia ad annoiare Luigi Bonaparte. Bisogna ch'egli tenga fronte a otto ministri che tutti cercano di circondarlo. Ognuno tira l'acqua al proprio mulino. Fra i ministri qualche nemico nascosto. Le nomine, le promozioni, le liste giungono tutte già fatte dalla piazza Saint-Georges. Bisogna chinar la testa, accettare e sottoscrivere. Ieri, Luigi Bonaparte si rammaricava col principe della Moskowa. Egli diceva: — Vogliono far di me il principe Alberto della Repubblica. Odilon Barrot sembrava triste e scoraggiato. Oggi è uscito dal Consiglio accasciato. Il principe della Moskowa era presente. — Ebbene, gli ha detto, come vanno le cose? Odilon Barrot ha risposto: — Pregate per noi! — Diavolo, ha esclamato il principe. Tuttociò è tragico! Odilon Barrot ha ripreso: — Che cosa volete che si faccia? Come ristabilire questa vecchia società che crolla da tutte le parti? Lo sforzo che noi facciamo per sostenerla minaccia di mandarla in briciole. La si tocca e si disfà. Ah! pregate per noi Ed ha alzato gli occhi al cielo. Sono uscito dall'Eliseo verso le dieci. Nel momento nel quale me ne andavo il presidente mi ha detto: — Aspettate un momento! Poi è entrato in una stanza vicina, ed è risortito quasi subito con dei cartoncini in mano che mi ha dato dicendomi. — Per la signora Victor Hugo. Erano dei biglietti per assistere alla rivista di quest'oggi dalla galleria della Guardia Nobile. Andandomene, io pensavo. Pensavo a quel brusco installamento, a quella etichetta affettata, a quel miscuglio di borghesia, di repubblica e d'impero, a quel fondo di una cosa grande che si chiama: il presidente della Repubblica; a tutto quel seguito, a tutte quelle persone, a quello strano caso. Non è poco interessante e non è poco curiosa, e non è nemmeno poco caratteristica la situazione di quest'uomo al quale si può dire e gli si dice, da tutte le parti, in una volta: principe, altezza, signore, monsignore e cittadino. Tuttociò imprime confusamente il suo sigillo su questo personaggio; serve a chiunque, per qualunque fine.
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