Se la saldezza di un giudizio
dovesse giudicarsi dall'accordo delle dottrine che cercano di stabilirne il
fondamento, nessuna specie di giudizi sarebbe piú incerta dei giudizi morali.
Se così non è, se i giudizi, o almeno alcuni, sono, nonostante l'incertezza del
fondamento, riconosciuti e accolti come validi incontestabilmente, può apparire
legittimo il dubbio, o che il «vero» fondamento non sia ancora trovato, o che
non si possa trovare: cioè che il problema sia insolubile. E in questo caso: se
sia insolubile per difetto di mezzi, ossia per radicale nostra incapacità a
risolverlo; o perché è un problema mal posto, cioè nella forma con la quale si
presenta, illusorio e fittizio.
Dichiarando subito che a mio credere
il problema è insolubile, ed è insolubile perché fittizio, m'è appena
necessario di soggiungere che ciò non equivale in nessun modo (come potrebbe
parere a prima vista) a ritenere prive di significato ed infeconde le indagini
e le discussioni delle quali fu lievito, né tanto meno ad ammettere che,
rimosso il problema fittizio, nessun problema gli sottentri, anzi non ne
rampollino piú altri al luogo suo.
Mostrare come e perché un
problema sia mal posto, non è altro in effetto che la preparazione necessaria a
sostituirgliene degli altri.
* * *
Il problema del fondamento è
ispirato primamente e dominato, si può dire, in tutte le sue forme da una
preoccupazione pratica e apologetica: Bisogna dimostrare che la morale ha ragione; che quel che essa suggerisce o
prescrive è veramente bene che la sua
autorità è legittima e deve essere
rispettata. Ora un tal modo di porre il problema presuppone manifestamente che
su ciò che la coscienza morale prescrive non cada dubbio; o che, se il dubbio
sorge nasca non da incoerenza o
opposizione di criteri diversi o contrastanti, ma da errore e confusione di
interpretazioni e di giudizio nelle applicazioni concrete. Il che si accorda
con la osservazione di fatto che fino a quando il presupposto è legittimo, cioè
nei limiti nei quali corrisponde a una convinzione universale saldamente
stabilita, non è questa o quella dottrina sul fondamento della morale che fa
accettare o respingere i dettami della coscienza morale, secondo che si
accordano o no con la dottrina, ma sono le convinzioni morali che fanno
accettare e respingere una dottrina secondo che è o appare adatta o disadatta a dar ragione della loro
certezza, a mostrarne la validità.
Questa preoccupazione pratica
spiega l'insistenza e la pertinacia degli sforzi volti a risolvere un problema
radicalmente insolubile: di giustificare ciò che è presupposto in ogni
giustificazione; di derivare da delle idee una volontà; di creare con dei
ragionamenti un potere; illusione che si rivela
nelle forme piú svariate e negli indirizzi piú diversi, e per la quale accade,
cosa notissima, che a ciascun sistema
riesce assai piú facile dimostrare l'insufficienza degli altri, che provare la
sufficienza propria.
Il problema fu infatti inteso in
modi diversi, e la soluzione cercata in direzioni corrispondenti, distinte e
chiaramente separabili; sebbene il piú delle volte variamente intrecciate e
sovrapposte l'una all'altra in un medesimo indirizzo di pensiero e anche in uno
stesso sistema.
Infatti la domanda: «Perché
dobbiamo noi fare, cioè volere ciò che la coscienza morale ci detta», che è la
forma piú larga e indifferenziata in cui il problema si esprime, suggerisce
quattro tesi o tipi di soluzione diversi:
I. Considerare i principi e le
norme morali come «verità» di cui si cerca il fondamento in una realtà
obbiettivamente data alla coscienza.
II. Dimostrare la bontà di ciò che
la morale prescrive, cioè derivarne le norme da un fine ossia da un bene o
ordine di beni (qualunque ne sia poi la natura) che ne giustifichi
l'osservanza.
III. Provarne l'autorità; e
cercare di questa autorità il fondamento: a)
sia nella storia; b) sia in una
volontà distinta dal volere personale e che si impone ad esso.
Ciascuno di questi tipi di
soluzione deve essere esaminato piú brevemente che sia possibile, ma esaurientemente.
|