La
persuasione che i principi morali, i criteri di valutazione, le norme della
condotta, non solo possano ma debbano avere il loro fondamento in un ordine di verità
accertabile teoricamente, cioè si possano ricavare da rapporti o leggi validi
obbiettivamente, in nessuna altra forma forse appare piú chiaramente che in
quella della questione, dibattuta con tanto accanimento, se la morale si fondi
sulla scienza o sulla metafisica, e nella natura degli argomenti messi in campo
così dall'una come dall'altra parte.
Perché
la «scienza» si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva appello la
metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria ed
incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente
valido; e la «metafisica» insisteva nel porre in evidenza la relatività, la
contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità di
attingere in essa alcuna verità necessaria ed universale, e perciò una
qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di doveri.
Ora
l'uno e l'altro tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto
nell'ambito di questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche
cosa d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia
riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè
dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore,
smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non
negabile per la sua massiccia evidenza: che si trovano degli uomini di sincera
e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine.
Né
vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci
siano delle persone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano
logici o siano coerenti con se stessi; ossia se con quelle dottrine si possa
ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare.
Perché
una tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica,
appunto perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale
abbia una connessione necessaria, cioè logica, con certi principi teorici, e
che non possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il
presupposto del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una
petizione di principio. Il criterio morale a non si legittima se non
col principio teorico A; se troviamo accettato a con B
con C con D e non con A, vuol dire che quella
coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi che sono illogiche le
menti che non connettono a con A invece di riconoscere
semplicemente l'altra alternativa: che è possibile così l'una come l'altra
connessione, che non vi è nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a
da A?
Appunto
perché, se si ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi con
principi teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né sull'uno né
sull'altro, cioè che la fondazione teorica è illusoria.
Insomma
il ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza
a una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa
che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se
si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica,
una certezza che non ci dovrebbe essere. «Tu qui! Ma è impossibile!» dice la
metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo rimbecca
l'empirista alla morale del metafisico.
Ed
ambedue hanno torto, perché dove la morale si trova, ella è in casa sua anche
quando paia a chi dimora con lei di averla ospite1 in casa propria.
* * *
Ma se
questa fondazione extra-morale della morale è illusoria, donde nasce
l'illusione e di che si alimenta?
Quando
il sociologo afferma che le norme morali esprimono le esigenze della vita
sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta di vedere
non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a tali esigenze e
soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli «leggi» scoperte e che
si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo fondamento; ma si
tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il valore della
società, dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo di
formazione e di incremento della civiltà il valore della civiltà, in
una parola, dai rapporti condizionali il valore del condizionato.
Ora
una scienza, qualunque scienza, formula dei rapporti, non dà valori; i rapporti
possono bensì far attribuire un pregio a qualchecosa, se stabiliscono la
dipendenza condizionale e causale di un valore da ciò che, appunto per tale
connessione, diventa a sua volta un valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto, riconosciuto come valore,
perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico su ciò che ha relazione con
esso.
Tutte
le piú complicate e piú delicate meraviglie della vita non bastano a darle il
benché minimo pregio se non si riconosce già come bene o la vita stessa o
almeno alcuni dei fini ai quali può esser volta: anzi non sono «meraviglie» se
non perché si illuminano di questo valore finale.
Che la
civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e all'incultura sembra
dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o sottinteso — come accade in
effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o di desiderabilità certe
facoltà e attività e forme di condotta che certe altre, cioè quando sia già
posto e accettato un criterio di valutazione.
Pare a
prima vista una pedanteria. — Non si riconosce infatti da tutti che la vita
valga la pena di essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole, non
sentono nell'istinto profondo smentire la loro negazione?
Ammettiamo
senza discutere, sebbene la cosa non sia così liquida come pare, l'universalità
del consenso od almeno dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo
apprezzamento della società e della vita, questo riconoscimento di valore è
posto, è dato dalla scienza; se questa voce dell'istinto, questa volontà di
vivere abbia o no l'autorità che le si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di
sapere, insomma, se chi vedesse nella società e nei suoi frutti un groviglio di
miserie e di vergogne possa trovar mai nella sociologia la confutazione del suo
giudizio; e se a chi trovasse la vita un limbo indifferente possano le leggi
della biologia farla apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della
sociologia o della biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se
fosse muto, e autorità, se non ne avesse, alla sua voce2.
* * *
Quel
che non può dare una conoscenza empirica non può dare una conoscenza
metafisica, se non a patto di intendere già per conoscenza metafisica la
conoscenza non di una realtà «intelligibile» e in quanto è intelligibile, ma di
una realtà già apprezzata o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma
la conoscenza di valori.
Quando
il Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza
dell'essere è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione
delle cose, e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado
di perfezione) può e deve diventare modello e norma della stima pratica
(l'assenso del nostro volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello
di bene, nel concetto di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non
deriva il secondo termine dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già
identificato con esso. La sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè
apprezzamento e valutazione, è già pratica, perché non ha luogo se non in
rapporto alle «potenze pratiche»; in quanto è speculativa cioè conoscenza
obbiettiva, intellezione della realtà, non implica nessun apprezzamento.
Insomma,
in quanto è stima non è speculativa, in quanto è speculativa non è stima.
La
cosa appare anche piú manifesta se si bada che l'essere non può servire di
criterio alla stima se non perché si ammette un ordine, una gradazione di enti,
e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto esistenza, non ha gradi;
ciò che si può graduare è il pregio o il valore (in qualunque entità esso sia
riconosciuto), non l'esistenza delle cose; e la realtà è graduata perché sono
graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci presenta realizzati.
Che i
due termini siano diversi e l'uno non deducibile dall'altro appare manifesto
dalla necessità di assumere, secondo la profonda e costante tendenza del
platonismo, il concetto di perfezione come sintesi dei due concetti del reale e
del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esistenza e del valore.
Ora la
perfezione non si può intendere se non in relazione con un modello, con un
disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità implica una
valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà.
Ed eccoci
alla sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di
morale dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o
legge o induzione o verità teoretica, sia scientifica, sia metafisica.
Una
realtà data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si
considera come una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il
giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non
deducibile dal giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possibilità o
la connessione modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose
sono, è tutt'altra cosa dal valutarle3.
Ora la
conoscenza, o è teoretica, e ci dà oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di
fatti come sono, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli; o li
interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non
preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non piú
conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e del
disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di
valutazione che essa non trova nelle cose se non perché ve l'ha già posto, e
ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teorico,
ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi
del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta
non soltanto la molla che spinge a ricercare e a trovare le distinzioni
tra gli oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti.
Ora,
quando si intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità
dei giudizi di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o
percettivi, come mi parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente
impossibilità di ricavare gli uni dagli altri, di pretendere che un giudizio di
ciò che è, possa servir di fondamento a un giudizio di ciò che vale o che
merita di essere, apparirà piú manifesta la insolubilità della questione del
fondamento intesa in questo senso e cercata in questa direzione, e le ragioni
di questa insolubilità.
E con
ciò si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e
scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza.
* * *
In
breve (e trascurando le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive): La
realtà si può interpretare come sistema di forze e come sistema di valori.
Se si
interpreta come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente
intelligibile, conoscitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità
perché estranea ad ogni valutazione; sia essa costruzione scientifica, sia
metafisica, empirica o a priori, monistica, dualistica o pluralistica.
Se
queste forze si giudicano cioè si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o
operante per esse, un ordine, o un conflitto, o un processo di attuazione di
fini, allora la conoscenza della realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini
della natura o della Provvidenza diventano il modello o il criterio del
giudicare morale; e il fondamento della morale si troverà nella conoscenza di
questa realtà; si consideri essa come scienza o come metafisica.
Ma
perché quelle forze siano apprezzate come valori occorre che siano dati i
valori a cui si ragguagliano tali forze; e perché i fini della natura siano i
fini di una Provvidenza è necessario che il processo della natura sia riferito
ad uno scopo il cui valore di bontà è già dato e riconosciuto. Così il criterio
della valutazione non si ricava dalla conoscenza della realtà se non perché la
realtà era già stata valutata secondo il principio che si pretende di
ricavarne; e non si trova in essa il fondamento della morale se non perché la
coscienza morale ha spirato nell'intimo della realtà quell'anima di bene che
crede di estrarne come suo principio e fondamento.
Ed è
anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione metafisica si
sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco.
La
scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni
interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava
piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti
obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva
trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la
propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la
moralità come un prodotto naturale o un risultato meccanico di un giuoco di
forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la tendenza costante dell'«etica
scientifica» a identificare il problema nel fondamento col problema
dell'origine, la valutazione con la spiegazione; e a considerare una reale o
pretesa naturalità come criterio di moralità.
E la
metafisica poteva tanto piú trionfalmente mettere in chiaro l'equivoco, e
dimostrare l'impotenza assiologica della scienza quanto piú sentiva non solo
non estranea, ma legittima, ma implicita nella propria costruzione della
realtà, una interpretazione teleologica; ed era avvezza a considerare la morale
come sua pupilla perché... ne amministrava il patrimonio.
* * *
Ma se
il problema della fondazione teorica, nella forma classica, e, direi (nel senso
piú bello della parola), ingenua, di derivazione dei valori da una
realtà, è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità, o si
riduce a una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar
scoperto dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale
attraverso Kant si è venuto via via trasfigurando.
Non si
tratta piú di trovare nella conoscenza della realtà la prova che le nostre
valutazioni sono «vere», poiché le valutazioni sono, come espressioni di una
esperienza interiore sui generis, valide per sé; ma di sapere se su questi dati
valutativi si può costruire una conoscenza oggettiva; se i valori morali siano
prova dell'esistenza di certe condizioni e di quali; se sia possibile, non
trovare nella realtà il fondamento del valore, ma trovare nel valore il
fondamento della realtà. Il problema si aggira sempre in ultimo attorno al
medesimo dubbio: se il mondo, la natura, la vita abbiano un significato morale,
se l'anima dell'universo guardi al medesimo fine che la coscienza morale; se
gli sforzi della volontà buona siano fecondi di frutti durevoli o siano un
lavoro di Sisifo, che ogni coscienza riprende faticosamente per lasciare che
ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno
sforzo piú grande.
Ma
l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo metafisico subordinava, almeno nella
riflessione consapevole e nella costruzione logica, il giudizio di valore al
giudizio di realtà.
Nella
filosofia dei valori il giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo
riflessivo e costruttivo, al giudizio di valore.
Il
momento che nell'intellettualismo ontologico era nascosto e inconsapevole,
quello della assunzione tacita del concetto di valore nel concetto di realtà,
nella filosofia dei valori diventa chiaro e consapevole e si allarga nel
tentativo di tradurre il passaggio psicologico in processo discorsivo e di fondare
un sistema di verità teoretiche su quella certezza che veramente era ed è il
dato iniziale, l'ubi
consistam di ogni costruzione etica,
sia scientifica o metafisica, progressiva o regressiva, ascendente o
discendente: la certezza diretta e intuitiva dei valori morali.
|