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Erminio Juvalta
Il vecchio e il nuovo problema della morale

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  • Parte prima IL FONDAMENTO DELLA MORALE
    • Capitolo Secondo IL FONDAMENTO CERCATO NELLA REALTÀ
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Capitolo Secondo

IL FONDAMENTO CERCATO NELLA REALTÀ

 

La persuasione che i principi morali, i criteri di valutazione, le norme della condotta, non solo possano ma debbano avere il loro fondamento in un ordine di verità accertabile teoricamente, cioè si possano ricavare da rapporti o leggi validi obbiettivamente, in nessuna altra forma forse appare piú chiaramente che in quella della questione, dibattuta con tanto accanimento, se la morale si fondi sulla scienza o sulla metafisica, e nella natura degli argomenti messi in campo così dall'una come dall'altra parte.

Perché la «scienza» si sforzava di dimostrare che la realtà a cui faceva appello la metafisica era immaginaria o inverosimile, e in ogni caso arbitraria ed incerta, e quindi non poteva su di essa fondarsi nulla di obbiettivamente valido; e la «metafisica» insisteva nel porre in evidenza la relatività, la contingenza, la limitatezza della conoscenza empirica; e l'impossibilità di attingere in essa alcuna verità necessaria ed universale, e perciò una qualsiasi validità né di forma, né di fine, né di doveri.

Ora l'uno e l'altro tipo di argomentazione si svolgevano e si svolgono appunto nell'ambito di questo presupposto: che i principi morali debbano fondarsi su qualche cosa d'altro, che li legittimi, che ne dimostri la certezza, che ne faccia riconoscere la verità; senza avvertire che il fatto stesso del discutere, cioè dell'ammettere la buona fede, cioè dunque la moralità del contraddittore, smentisce il presupposto. Il che concorda con l'osservazione ovvia ma non negabile per la sua massiccia evidenza: che si trovano degli uomini di sincera e provata rettitudine morale fra i seguaci delle piú diverse dottrine.

vale l'obbiezione che si può fare e si fa: che non si tratta di vedere se ci siano delle persone morali, tra i seguaci di una dottrina, ma se questi siano logici o siano coerenti con se stessi; ossia se con quelle dottrine si possa ragionevolmente conciliare quel modo di giudicare e di valutare.

Perché una tale obbiezione non esce dall'ambito del presupposto, anzi lo implica, appunto perché ammette come pacifico che un criterio di valutazione morale abbia una connessione necessaria, cioè logica, con certi principi teorici, e che non possa essere accettato se non in grazia di quei principi. Ma è il presupposto del fondamento teorico che bisogna provare; e non si prova con una petizione di principio. Il criterio morale a non si legittima se non col principio teorico A; se troviamo accettato a con B con C con D e non con A, vuol dire che quella coscienza è illogica, incoerente. Ma perché diciamo noi che sono illogiche le menti che non connettono a con A invece di riconoscere semplicemente l'altra alternativa: che è possibile così l'una come l'altra connessione, che non vi è nessuna necessità intrinseca di dipendenza di a da A?

Appunto perché, se si ammettesse che un medesimo criterio morale può accordarsi con principi teorici diversi, si dovrebbe ammettere che non si fonda né sull'uno né sull'altro, cioè che la fondazione teorica è illusoria.

Insomma il ragionamento si riduce a un procedimento di questo genere: per dar certezza a una valutazione morale è necessaria una certa fondazione teorica; ciò importa che, o non si debba trovare quella certezza senza questa fondazione, o che se si trova, essa sia una certezza erronea, una certezza irragionevole illogica, una certezza che non ci dovrebbe essere. «Tu qui! Ma è impossibile!» dice la metafisica alla morale quando la vede in casa dell'empirista; e il medesimo rimbecca l'empirista alla morale del metafisico.

Ed ambedue hanno torto, perché dove la morale si trova, ella è in casa sua anche quando paia a chi dimora con lei di averla ospite1 in casa propria.

 

* * *

 

Ma se questa fondazione extra-morale della morale è illusoria, donde nasce l'illusione e di che si alimenta?

Quando il sociologo afferma che le norme morali esprimono le esigenze della vita sociale e si fondano sulle leggi della sociologia, ciò che si tratta di vedere non è già se veramente le norme morali corrispondono o no a tali esigenze e soltanto a quelle; né quali siano, tra le innumerevoli «leggi» scoperte e che si vanno scoprendo, quelle nelle quali la morale trova il suo fondamento; ma si tratta di vedere se dalla sociologia si possa ricavare il valore della società, dalle leggi della vita il valore della vita, dal processo di formazione e di incremento della civiltà il valore della civiltà, in una parola, dai rapporti condizionali il valore del condizionato.

Ora una scienza, qualunque scienza, formula dei rapporti, non valori; i rapporti possono bensì far attribuire un pregio a qualchecosa, se stabiliscono la dipendenza condizionale e causale di un valore da ciò che, appunto per tale connessione, diventa a sua volta un valore mediato; ma il πρῶτον ἄξιον deve essere già dato, posto, riconosciuto come valore, perché sia possibile qualsiasi giudizio assiologico su ciò che ha relazione con esso.

Tutte le piú complicate e piú delicate meraviglie della vita non bastano a darle il benché minimo pregio se non si riconosce già come bene o la vita stessa o almeno alcuni dei fini ai quali può esser volta: anzi non sono «meraviglie» se non perché si illuminano di questo valore finale.

Che la civiltà e la cultura siano da preferire alla barbarie e all'incultura sembra dimostrabile; ed è infatti; ma quando sia ammesso o sottinteso — come accade in effetto — che abbiano piú di pregio o di dignità o di desiderabilità certe facoltà e attività e forme di condotta che certe altre, cioè quando sia già posto e accettato un criterio di valutazione.

Pare a prima vista una pedanteria. — Non si riconosce infatti da tutti che la vita valga la pena di essere vissuta? e anche quelli che la negano a parole, non sentono nell'istinto profondo smentire la loro negazione?

Ammettiamo senza discutere, sebbene la cosa non sia così liquida come pare, l'universalità del consenso od almeno dell'istinto. Si tratta qui di vedere se questo apprezzamento della società e della vita, questo riconoscimento di valore è posto, è dato dalla scienza; se questa voce dell'istinto, questa volontà di vivere abbia o no l'autorità che le si attribuisce o suppone. Cioè si tratta di sapere, insomma, se chi vedesse nella società e nei suoi frutti un groviglio di miserie e di vergogne possa trovar mai nella sociologia la confutazione del suo giudizio; e se a chi trovasse la vita un limbo indifferente possano le leggi della biologia farla apparire desiderabile; e se sia la conoscenza della sociologia o della biologia o della psicologia che darebbe voce all'istinto se fosse muto, e autorità, se non ne avesse, alla sua voce2.

 

* * *

 

Quel che non può dare una conoscenza empirica non può dare una conoscenza metafisica, se non a patto di intendere già per conoscenza metafisica la conoscenza non di una realtà «intelligibile» e in quanto è intelligibile, ma di una realtà già apprezzata o apprezzabile; non la conoscenza di enti ma la conoscenza di valori.

Quando il Rosmini si sforza con grande vigore di dimostrare che la conoscenza dell'essere è conoscenza del grado di entità, e quindi del grado di perfezione delle cose, e che perciò la stima speculativa (la conoscenza del grado di perfezione) può e deve diventare modello e norma della stima pratica (l'assenso del nostro volere), egli assume già nel concetto dell'essere quello di bene, nel concetto di realtà quello di perfezione, cioè di valore; e non deriva il secondo termine dal primo se non perché lo ha surrettiziamente già identificato con esso. La sua «stima speculativa» in quanto è stima, cioè apprezzamento e valutazione, è già pratica, perché non ha luogo se non in rapporto alle «potenze pratiche»; in quanto è speculativa cioè conoscenza obbiettiva, intellezione della realtà, non implica nessun apprezzamento.

Insomma, in quanto è stima non è speculativa, in quanto è speculativa non è stima.

La cosa appare anche piú manifesta se si bada che l'essere non può servire di criterio alla stima se non perché si ammette un ordine, una gradazione di enti, e quindi di realtà. Ma la realtà, in quanto esistenza, non ha gradi; ciò che si può graduare è il pregio o il valore (in qualunque entità esso sia riconosciuto), non l'esistenza delle cose; e la realtà è graduata perché sono graduati pregi, o i beni, o i valori che essa ci presenta realizzati.

Che i due termini siano diversi e l'uno non deducibile dall'altro appare manifesto dalla necessità di assumere, secondo la profonda e costante tendenza del platonismo, il concetto di perfezione come sintesi dei due concetti del reale e del bene, o con espressioni piú moderne, dell'esistenza e del valore.

Ora la perfezione non si può intendere se non in relazione con un modello, con un disegno attuato o da attuarsi, con una finalità; e la finalità implica una valutazione, cioè una scelta, cioè una volontà.

Ed eccoci alla sorgente unica e comune della impossibilità di derivare un criterio di morale dalla realtà obbiettiva, empirica o metempirica, da qualsiasi dato o legge o induzione o verità teoretica, sia scientifica, sia metafisica.

Una realtà data o possibile non può dare un criterio di valutazione se non la si considera come una finalità, ossia se non le si riconosce un valore. E il giudizio con il quale si afferma il valore di un oggetto è diverso e non deducibile dal giudizio col quale ne affermiamo l'esistenza o la possibilità o la connessione modale o condizionale con altri oggetti. Apprendere come le cose sono, è tutt'altra cosa dal valutarle3.

Ora la conoscenza, o è teoretica, e ci oggetti e fatti e rapporti di oggetti e di fatti come sono, cioè come dobbiamo concepirli per comprenderli; o li interpreta e li giudica come utili o nocivi, buoni o cattivi, preferibili o non preferibili, superiori o inferiori, e non è piú conoscenza, o almeno non piú conoscenza soltanto; e il criterio del buono e del cattivo, dell'utile e del disutile, del bello e del brutto è criterio di preferenza, di scelta, di valutazione che essa non trova nelle cose se non perché ve l'ha già posto, e ponendovelo ha ubbidito, consciamente o no, a un interesse che non è teorico, ma è pratico nel senso che può restare a questa parola anche dopo le analisi del pragmatismo: pratico nel senso che, se si suppone tolta la volontà, è tolta non soltanto la molla che spinge a ricercare e a trovare le distinzioni tra gli oggetti, ma sparisce la distinzione stessa tra gli oggetti.

Ora, quando si intenda chiaramente e in tutta la sua portata questa irreducibilità dei giudizi di valore ai giudizi di esistenza o causali o teoretici (o percettivi, come mi parrebbe preferibile chiamarli), e la conseguente impossibilità di ricavare gli uni dagli altri, di pretendere che un giudizio di ciò che è, possa servir di fondamento a un giudizio di ciò che vale o che merita di essere, apparirà piú manifesta la insolubilità della questione del fondamento intesa in questo senso e cercata in questa direzione, e le ragioni di questa insolubilità.

E con ciò si chiarisce anche l'inanità della controversia accennata fra metafisica e scienza e se ne spiega nello stesso tempo l'insistenza.

 

* * *

 

In breve (e trascurando le inevitabili inesattezze delle formule riassuntive): La realtà si può interpretare come sistema di forze e come sistema di valori.

Se si interpreta come sistema di forze se ne fa una costruzione puramente intelligibile, conoscitiva, anassiologica, estranea ad ogni moralità perché estranea ad ogni valutazione; sia essa costruzione scientifica, sia metafisica, empirica o a priori, monistica, dualistica o pluralistica.

Se queste forze si giudicano cioè si valutano, cioè si vede o si pone in esse, o operante per esse, un ordine, o un conflitto, o un processo di attuazione di fini, allora la conoscenza della realtà diventa conoscenza dei valori, e i fini della natura o della Provvidenza diventano il modello o il criterio del giudicare morale; e il fondamento della morale si troverà nella conoscenza di questa realtà; si consideri essa come scienza o come metafisica.

Ma perché quelle forze siano apprezzate come valori occorre che siano dati i valori a cui si ragguagliano tali forze; e perché i fini della natura siano i fini di una Provvidenza è necessario che il processo della natura sia riferito ad uno scopo il cui valore di bontà è già dato e riconosciuto. Così il criterio della valutazione non si ricava dalla conoscenza della realtà se non perché la realtà era già stata valutata secondo il principio che si pretende di ricavarne; e non si trova in essa il fondamento della morale se non perché la coscienza morale ha spirato nell'intimo della realtà quell'anima di bene che crede di estrarne come suo principio e fondamento.

Ed è anche facile comprendere perché gli assertori della fondazione metafisica si sentissero meglio armati alla difesa e piú vivaci nell'attacco.

La scienza interdicendosi — nel programma se non nell'attuazione — ogni interpretazione finalistica, e quindi ogni valutazione della realtà, si trovava piú manifestamente a disagio quando pretendeva di derivare dai suoi rapporti obbiettivi un criterio, che ne aveva deliberatamente escluso. E quando voleva trovare nelle leggi un valore morale troppo facilmente rendeva palese la propria incoerenza. Perciò volgeva i suoi sforzi a considerare e a spiegare la moralità come un prodotto naturale o un risultato meccanico di un giuoco di forze per sé spoglio di ogni finalità. Onde la tendenza costante dell'«etica scientifica» a identificare il problema nel fondamento col problema dell'origine, la valutazione con la spiegazione; e a considerare una reale o pretesa naturalità come criterio di moralità.

E la metafisica poteva tanto piú trionfalmente mettere in chiaro l'equivoco, e dimostrare l'impotenza assiologica della scienza quanto piú sentiva non solo non estranea, ma legittima, ma implicita nella propria costruzione della realtà, una interpretazione teleologica; ed era avvezza a considerare la morale come sua pupilla perché... ne amministrava il patrimonio.

 

* * *

 

Ma se il problema della fondazione teorica, nella forma classica, e, direi (nel senso piú bello della parola), ingenua, di derivazione dei valori da una realtà, è insolubile, perché o urta contro una radicale irreducibilità, o si riduce a una petizione di principio, essa non sparisce se non per lasciar scoperto dietro di sé il problema che nascondeva o adombrava, e nel quale attraverso Kant si è venuto via via trasfigurando.

Non si tratta piú di trovare nella conoscenza della realtà la prova che le nostre valutazioni sono «vere», poiché le valutazioni sono, come espressioni di una esperienza interiore sui generis, valide per sé; ma di sapere se su questi dati valutativi si può costruire una conoscenza oggettiva; se i valori morali siano prova dell'esistenza di certe condizioni e di quali; se sia possibile, non trovare nella realtà il fondamento del valore, ma trovare nel valore il fondamento della realtà. Il problema si aggira sempre in ultimo attorno al medesimo dubbio: se il mondo, la natura, la vita abbiano un significato morale, se l'anima dell'universo guardi al medesimo fine che la coscienza morale; se gli sforzi della volontà buona siano fecondi di frutti durevoli o siano un lavoro di Sisifo, che ogni coscienza riprende faticosamente per lasciare che ciascun'altra rifaccia, destinato in ultimo a cadere pur esso nel nulla, uno sforzo piú grande.

Ma l'atteggiamento è diverso. L'ontologismo metafisico subordinava, almeno nella riflessione consapevole e nella costruzione logica, il giudizio di valore al giudizio di realtà.

Nella filosofia dei valori il giudizio di realtà è subordinato, anche nel processo riflessivo e costruttivo, al giudizio di valore.

Il momento che nell'intellettualismo ontologico era nascosto e inconsapevole, quello della assunzione tacita del concetto di valore nel concetto di realtà, nella filosofia dei valori diventa chiaro e consapevole e si allarga nel tentativo di tradurre il passaggio psicologico in processo discorsivo e di fondare un sistema di verità teoretiche su quella certezza che veramente era ed è il dato iniziale, l'ubi consistam di ogni costruzione etica, sia scientifica o metafisica, progressiva o regressiva, ascendente o discendente: la certezza diretta e intuitiva dei valori morali.


 





1 Neppure vale a toglier peso al fatto l'osservazione che questa possibilità di coesistenza indifferente è soltanto apparente, perché dovuta a difetto di riflessione e di rigore logico; e sia inattendibile, perché dove si avvera, manca la competenza richiesta. Un libriccino pubblicato dal Lalande alcuni anni fa (Précis raisonné de Morale pratique, Alcan, 1907) si distingue dai molti consimili nostrani e di fuori (qui non occorre accennare ad altri pregi) per questa circostanza caratteristica: che il catechismo morale che vi è esposto e spiegato era stato sottoposto all'esame e aveva raccolto il consenso esplicito dei piú noti e autorevoli moralisti di credenze e di opinioni filosofiche diversissime. La testimonianza dei «competenti» veniva in questa occasione a confermare quello che è un luogo comune della storia delle dottrine e della pratica morale: che sul valore e sul contenuto delle norme morali siamo tutti d'accordo, perché tutti siamo d'accordo, quanto all'essenziale, nel giudicare la nostra condotta o l'altrui: Tutti «quali che siano le convinzioni filosofiche e religiose ed anche se non abbiamo in proposito convinzioni di sorta» (Varisco, Massimi e problemi, Nota VI: Metafisica e morale. E il Varisco, come è noto, è persuaso che una vera morale implichi una Metafisica «definitiva»). Quanto all'accordo sul «contenuto» forse, come si vedrà in seguito, pare piú largo di quel che in realtà non sia. Ma qui si tratta del valore. Quanto poi alla «Metafisica... definitiva» si chiede: a che stregua si giudicherà la metafisica adatta a fondare la morale? Non si ammette già che il criterio sarà fornito dall'accordo con la «vera morale» e cioè, dunque, che la vera morale è già data prima e fuori della Metafisica?



2 Neanche è da credere che tutto si riduca a questo salto; e che superato il passaggio incolmabile dall'effetto al fine e dalla conoscenza al valore, fatto proprio dalla scienza il presupposto iniziale di valutazione che essa non può dare, ogni difficoltà di questo genere sia allontanata.

Per interpretare le leggi naturali come leggi morali bisogna scegliere tra le leggi necessarie e le condizioni utili a una forma di vita e le leggi e condizioni utili a una forma diversa. Ad ogni nuovo passo, ad ogni bivio si sostituisce alla conoscenza obbiettiva la valutazione, si rende necessaria una scelta; e la valutazione se anche non è espressa, e sottintesa.

Caratteristica, a questo proposito è la affermazione del Levy-Bruhl che «la conquista metodica della realtà» cioè «un'arte razionale fondata sulla scienza della realtà sociale» deve prendere il posto della «concezione immaginaria di un ideale» (La Morale et la Scienze des mœurs, Cap. V).

Questa «conquista metodica» della realtà sarà pur guidata, — e non può essere altrimenti — se non da un ideale, ché ogni ideale è soppresso, dall'idea di qualche cosa che si pone come piú desiderabile o migliore. Ma quale è il criterio di questo meglio? di quella amélioration che, come dice poche righe piú sotto delle parole citate, non bisogna disperare di portarvi? Questo criterio non può essere il reale stesso che bisogna modificare e migliorare; sarà dunque, di nuovo, in ideale o qualche cosa che lo sostituisce. «L'ombra sua torna ch'era dipartita».



3 Il pragmatismo, anche per chi è pragmatista, qui non ha nulla da vedere. Può essere verissimo che anche la nostra conoscenza sia stimolata, sorretta, guidata, controllata da un interesse (l'interesse teorico) e come tale sia, anzi è senz'altro, un valore (intellettuale): ma ciò non muta d'un ette la distinzione notata.

Senza volontà di conoscere non ci sarebbe conoscenza; sta benissimo, o almeno possiamo qui lasciar di discutere; ma la conoscenza è volontà di conoscere le cose come sono cioè come appaiono a chi non è mosso da altro interesse che quello del conoscere; e il valutare è giudicare le cose così conosciute (cioè costruite in conformità all'interesse teoretico) rispetto a finalità distinte da quelle del conoscere, cioè a interessi di altro genere, edonistico, estetico, morale, e via dicendo.

Altro è dire che in Engadina fa fresco e altro dire che amano il fresco quei che vi passano l'estate.





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