Illusione
poco meno antica accompagnata da sforzi parimenti tenaci, e forse piú multiformi
di tradurla in dottrina rigorosa, è quella di credere che si possa ricavare la
valutazione morale da qualche bene indiscutibilmente supremo, del quale essa
esprima le esigenze e formuli le condizioni necessarie.
Questo
sommo bene, questo fine supremo, questo valore, sorgente prima, termine ultimo
di tutti i valori si credette di trovare: o in un dato della coscienza
empirica, un fine inerente alla vita e subordinante di fatto tutte le
tendenze, aspirazioni e attività dell'uomo; o in un fine che domina bensì, ma
trascende la vita e la natura umana, e subordina di diritto ogni altra
forma di bene e ogni criterio di valutazione.
Alle
due diverse concezioni del fine rispondono due tipi principali di dottrine
morali, dei quali è facile rilevare la corrispondenza coi due tipi di dottrine
sulla fondazione di cui si è detto nel capitolo precedente. Ma la
corrispondenza non è coincidenza. Là l'origine dell'illusione era nella pretesa
di derivare la valutazione morale da una realtà la cui conoscenza si impone
all'intelletto; qui di derivarla da fin bene il cui valore è ammesso, o si
suppone che debba essere ammesso incontestabilmente come supremo o massimo, o
almeno superiore ad ogni altro.
Ora
l'illusorietà della pretesa consiste in ciò: che il valore morale non è morale
se non a patto che se ne riconosca, o, meglio, se ne senta la superiorità, la
preminenza su ogni altro valore; il suo essere morale consiste (con ciò non si
escludono gli altri caratteri) in questa sua supremazia.
Perciò
ogni tentativo di assegnare un bene supremo che lo giustifichi, si riduce
all'uno od all'altro termine di questa alternativa: o di ammettere che questo
bene è già esso stesso il valore morale che si crede di derivarne, o di
mostrare che ciò a cui si dà valore morale, è valore anche per altri
rispetti; cioè sarebbe un valore (di altro genere) anche se non fosse valore
morale.
I
tentativi che si raccolgono intorno al primo tipo (fine: la felicità, o il
piacere) riescono di solito (quando e nella misura che possono) a quest'ultimo
risultato; quelli del secondo tipo (fine: il possesso del divino,
l'avvicinamento a Dio, la santità) riescono di solito al primo: a presupporre
quel che credono di derivare.
* * *
Dell'utilitarismo
in generale e delle sue diverse forme sarebbe fastidioso, e non è qui
necessario, ripetere per la centesima volta le critiche note.
Basta
mettere in chiaro quel che meno fu notato e che piú importa al nostro scopo:
cioè non tanto le lacune, le insufficienze e le incongruenze dei tentativi,
ingegnosi assai piú che fortunati, di ricondurre le norme morali al criterio
dell'utilità, e di mostrare le coincidenze tra il contenuto delle norme morali
e il contenuto delle regole utilitarie, quanto la ragione per la quale la
derivazione è impossibile; o, quando appare possibile, dissimula in realtà una
petizione di principio. Supponiamo pure che si ammettano cose troppo
manifestamente arbitrarie: che la felicità sia non un nome vago, un recipiente
vuoto nel quale ciascuno versa il liquido preferito (e che non è sempre neppure
per la stessa persona il medesimo) ma abbia un contenuto determinato (poniamo
l'acquisto o il possesso di certi beni: salute, amore, potenza, gloria,
simpatia, cultura, ingegno, soddisfazione della propria coscienza; e che tra
questi beni sia possibile perfetta conciliazione ed armonia); e che si possa
dimostrare davvero, e non per salti o per ripieghi, che il nodo non pure piú
sicuro, ma il solo veramente sicuro e indispensabile per raggiungerla, sia
l'osservanza costante delle norme morali.
Con
ciò non si sarebbe dimostrato che ciò che fa il valore morale delle norme consiste
nella loro utilità come guida della felicità; ma soltanto che i valori
morali sono anche valori eudemonologici; che il contenuto della
valutazione morale e quello della valutazione utilitaria coincidono; non mai
che il valor morale di un'azione consista nel suo esser mezzo alla felicità.
Resta
fuor di questione (s'intende e deve esser quasi superfluo avvertirlo) la
considerazione dell'efficacia pratica o esecutiva; se sia o no piú persuasiva o
piú impulsiva l'una o l'altra valutazione. Si può anche ammettere, senza
soverchio sforzo immaginativo, che sia per lo piú la edonistica; ma ciò non
prova affatto che questa si confonda o si identifichi con la valutazione
morale, o valga a sostituirla.
Dimostrare
a un giudice che il dar sentenze imparziali è il modo piú sicuro di far
carriera, potrebbe essere, in ipotesi, un mezzo efficace a promuovere
l'imparzialità. Ma nessuno sognerà di far consistere l'onestà del giudice nel
suo desiderio di far carriera.
Ma in
realtà, come tutti sanno, il contenuto della felicità non è determinato, né
determinabile se non ad arbitrio4; e solo significato comune e costante
del termine finisce per essere quello di appagamento dei desideri, di soddisfazione,
di piacere, o di liberazione dal dolore, che si pensa doversi trovare nel
raggiungimento di ogni fine.
E la
diversità persiste e risorge nella molteplicità varia e contrastante dei
desideri e dei piaceri, e non basta raccoglierli sotto uno stesso nome per
ridurli a unità e farne un unico fine.
Perché
se l'unità ci deve essere davvero, allora è necessaria o una riduzione
o una gradazione e subordinazione; e questa spunta infatti nella
storia dell'utilitarismo con il criterio della qualità sovrapposto e
in effetto sostituito dal Mill a quello della quantità.
E
allora si capisce come possa avvenire che il criterio della felicità finisca
per accordarsi con quello della valutazione morale; se le soddisfazioni migliori
sono le soddisfazioni morali, e il bene piú desiderabile l'appagamento
della coscienza morale, l'accordo tra i due criteri quanto al contenuto è, non
solo possibile, ma necessario. Ma è troppo facile vedere a quale patto è
raggiunto. Il valore di quella felicità alla cui stregua si pretende di
giudicare il valore morale è assunto come supremo perché e in quanto contiene
questo valore morale ed è graduato esso stesso secondo un criterio morale;
approva e disapprova in nome della felicità quel che trova approvato e
disapprovato in nome della coscienza morale.
Viene
in mente il modo, col quale un marito sincero si vantava di aver risolto il
problema di una pace coniugale perfetta: dove marito e moglie erano dello
stesso avviso era la moglie che seguiva il parere del marito, dove erano di
avviso contrario era il marito che faceva la volontà della moglie.
Adunque,
anche ridotta a questa forma, la felicità non fornisce il criterio della
valutazione morale se non in quanto è foggiata essa stessa su un criterio
morale; e quel che pretende di aggiungervi come giustificazione, non è ciò che
costituisce il valore morale, ma è qualchecosa di distinto, di sopraggiunto ad
esso (giusta la veduta di Aristotele) sebbene lo accompagni; è una valutazione
secondaria, edonistica od egotistica (non oserei dire egoistica) del valore
morale5.
* * *
Porre
come bene supremo la santità (il divino in quanto è sentito e voluto
come modello o norma della vita si determina in un ideale di santità) è
derivare il valore morale dal valore religioso, concepito come principio e
termine di ogni valore, e del quale esso valor morale è un elemento; o meglio,
l'attuazione di questo è voluta come una condizione, o un momento
dell'attuazione, di quello.
E qui
giova premettere due osservazioni non peregrine ma utili alla chiarezza:
1° Che
questo valore supremo del divino, della santità e, in termini piú generali, il
valore religioso non può essere dimostrato o insegnato con lo stesso processo
conoscitivo, con il quale si dimostrano, si insegnano e si comunicano delle
proposizioni o verità teoretiche, e, in quel che han di contenuto teoretico, i
dogmi stessi delle dottrine religiose. Questo valore è sentito, è, come si dice
con frase piú suggestiva che chiara, vissuto dalla coscienza; e quanto è sicuro
ed efficace l'appello ad esso, dove è vivo, altrettanto è vano dove non vive.
Fondare la valutazione morale sui valori religiosi è dunque presupporre
che siano sentiti e vissuti nella loro forma e natura specifica quei valori
religiosi da cui si fanno sgorgare i morali. Ma dove essi valori religiosi non
siano sentiti e vissuti, nessuna dottrina teologica e nessun catechismo può
crearli6 o sostituirli.
2° Che,
per converso, nessuno sforzo d'analisi e nessun ragionamento basta a spogliare,
nell'anima di un mistico, i valori morali da quel sentimento del divino, a
svestirli di quell'alone religioso del quale egli investe non solo questi ma
anche gli altri valori spirituali; come sarebbe difficile nella intuizione e
nel sentimento di un esteta di sottrarre i valori morali e i valori religiosi a
una valutazione estetica. Come accade sempre dove un grande interesse
spirituale predomina sugli altri, cioè dove una categoria di valori occupa, per
dir cosí, il centro della coscienza, e raccoglie ad unità, come attorno ad un
nucleo, i valori di altre specie; che è quel che suole piú comunemente e
normalmente avvenire per i valori morali.
Ma
fatta (come dicono i legali) questa riserva, bisogna riconoscere che nessuna
valutazione morale si potrebbe ricavare da qualsivoglia valore religioso, se
non vi sia già esplicitamente o implicitamente contenuta; cioè se non a patto
che si sia incorporata nel valore religioso una valutazione morale la cui
validità sussiste o sussisterebbe anche all'infuori di quello; ed
è la ragione per la quale viene assunta nel valore religioso.
Non è
necessario, a persuadersene, di discutere il problema formidabile della essenza
del valore religioso.
Se si
accetta l'opinione del Höffding che il nucleo essenziale della religione è la
credenza nella conservazione dei valori, e, s'intende bene, soprattutto dei
valori morali, la indipendenza e la priorità di questi sono, re ipsa, riconosciute.
In
effetto quali si possano essere le reazioni di tale credenza sulle valutazioni,
resta pur sempre che non è l'esigenza della conservazione quella che dà ai
valori la loro qualità di morali, ma il loro esser sentiti, il loro valere come
morali che ne fa postulare la conservazione. Di che ho già detto
altrove7, e non occorre del resto insistervi.
* * *
Se
invece si ammette, come io credo, che la natura specifica, la «forma» del
valore religioso non sia riducibile a quella credenza, e che sia essenziale e
caratteristico del sentimento e della valutazione religiosa il riferimento del
nostro pensare, del nostro sentire e del nostro fare, anzi di tutto il nostro
essere, ad un altro essere; sommità dell'aspirazione religiosa l'esserne
penetrati e posseduti; e misura del valore religioso, la devozione ad esso,
l'abbandono di sé alla volontà che ne realizza le perfezioni; allora il valore
religioso è per sé altra cosa del valore morale; ma, se non si risolve in
questo, neppure lo pone, ma se lo appropria ed incorpora. E se può sembrare
all'anima religiosa che esso sgorghi da questa idealità e se ne alimenti, la
ragione sta in ciò, come si è accennato: che al mistico riesce impossibile di
concepire altrimenti che perfetto, cioè perfetto anzitutto e
soprattutto moralmente, l'Essere che adora, e nel quale vede non un
bene, ma ogni bene, il Bene.
Ma la
perfezione che vede in lui, a quale stregua è giudicata tale? L'ideale che
trova realizzato in quello non è foggiato secondo un criterio di valutazione
morale la cui validità è accettata e riconosciuta all'infuori
dell'atteggiamento religioso della devozione a Dio? Anzi non è quella
perfezione morale che lo fa degno di adorazione?
Un
mistico a cui si domandasse se concepisce Dio perfetto perché lo adora o se lo
adora perché è perfetto, forse non saprebbe rispondere, e troverebbe che la
domanda scompone quel che è per lui uno e indissolubile. Ma ciò non toglie che
la devozione e la adorazione non costituiscano per sé i pregi e le doti di ciò
che è adorato; e nessuna coscienza potrebbe trovare in Dio i valori morali se
non li conoscesse già come valori, e non li distinguesse come morali dai valori
di altro genere.
Questa
priorità e questa indipendenza, questo sussistere per sé, questa selbständigkeit della valutazione morale, appare confermata dalle
discussioni sul valore delle religioni, il cui termine di confronto piú
consueto e piú decisivo è dato dal rispettivo contenuto morale. Il che implica
manifestamente che questo contenuto possa esser giudicato e apprezzato per sé.
E il prevalere sempre piú largo delle preoccupazioni morali nelle controversie
di indole religiosa (per esempio la lotta intorno al modernismo) mostra che la
validità del criterio morale è tenuta come certa di una certezza che è data e
riconosciuta indipendentemente da ogni valutazione religiosa.
Quanto
all'affermazione che la morale non può reggersi senza religione, essa, sebbene
ambigua nella forma, non significa affatto, come è facile capire, che non sia
possibile sentire e giudicare ciò, che è giusto o ingiusto, buono o cattivo se
non con un criterio e da un punto di vista religioso; vuol dire invece che non
è o non si crede possibile una moralità salda e costante, cioè una
sicura conformità della condotta alle valutazioni morali, se la
valutazione morale non è sorretta, confortata, fatta praticamente
efficace dalla connessione dei valori morali con una finalità religiosa; cioè
dal considerare i valori morali come preparazione e condizione necessaria di
quel fine; e quindi i precetti morali come precetti religiosi.
Che è
tutt'altra cosa; importantissima dal punto di vista propriamente pratico o esecutivo,
ma estranea alla questione presente e da trattarsi a parte, analogamente a quel
che si è accennato sopra della possibile importanza pratica di una valutazione
edonistica.
Dire
che l'olmo sorregge la vite, non è dire che la vite sia una propaggine
dell'olmo, e neppure che sia l'olmo che porta l'uva; sebbene sia anche vero
che, dove la vite non si regge da sé, non dovrebbe parer savio tagliar l'olmo
anche a chi ami soltanto la vite.
* * *
Quel
che si è detto dei tentativi di una fondazione edonistica e di una fondazione
religiosa si potrebbe ripetere di ogni altro tipo di morale di cui si pretenda
di trovare il fondamento in un interesse diverso dall'interesse propriamente e
specificamente etico (notevolissima fra le altre la morale estetica), e dalle
forme miste e intermedie; le quali, se sono dottrinalmente fiacche e spesso
incoerenti, hanno però in realtà largo consenso nelle credenze e nelle opinioni
piú comuni.
Di
queste ultime meritano di essere ricordate, perché piú significative, le due forme,
nelle quali si mescolano e si sovrappongono i due tipi di valutazione qui sopra
brevemente analizzati, la edonistica e la religiosa; che sembrano a prima vista
i piú lontani e l'uno all'altro opposti.
Si può
avere cosí una interpretazione edonistica della valutazione religiosa (esempio
l'utilitarismo teologico) e un'interpretazione religiosa della valutazione
utilitaria (altruismo comtiano, misticismo umanitario).
* * *
Da
quanto si è discorso pare si debba concludere che queste indagini (spesso nei
particolari ingegnosissime e suggestive) nelle quali si cerca la ragione del
valore morale nella sua connessione o congruenza con altri valori, abbiano
importanza solamente nel rispetto strettamente pratico o esecutivo; in altre
parole una importanza parenetica o pedagogica, in quanto una tale connessione
conforta, sorregge o surroga con motivi di altra natura e sgorganti da
interessi diversi il motivo specificamente morale. Sarebbero dunque analisi ed
indagini preziose per l'educatore e per l'uomo politico (dato che si propongano
fini morali), ma senza interesse per lo scopo a cui mirano, di costituire il
fondamento o la giustificazione dei valori morali, perché radicalmente viziate
dal falso supposto che la ragione della supremazia dei valori morali si possa
cercare in qualchecosa che non abbia già essa per sé valore morale.
Ma
questa conclusione sarebbe precipitata e eccessiva. Intanto è fuor di questione
che, nonostante il carattere di artificiosità che si trova piú o meno
largamente diffuso nelle costruzioni di questo genere, come nei sonetti a rime
obbligate, vi è in tutte una parte notevole di verità; verità s'intende non in
quel che credono di dimostrare, ma nei rapporti e nelle concordanze e nelle
differenze rilevate, e che dovrebbero servire alla dimostrazione.
Questa
parte di verità ha radice nel fatto, troppo noto e troppo chiaro perché ci sia
bisogno di illustrarlo, e già sottinteso a piú riprese in questo capitolo, che
non vi è giudizio sul valore morale di un oggetto, qualità, tendenza, azione,
del quale non si possa trovare la ragione, oltreché nella forma speciale di
interesse o di esigenza che gli dà questo carattere specifico di valore morale,
anche in un interesse diretto o indiretto d'altra natura: non vi è
bene morale che non sia bene anche per altri rispetti; come d'altra parte non
vi è bene di altro genere che non sia o non possa diventare, direttamente o
indirettamente, un bene morale.
I
valori delle diverse specie si connettono, si intrecciano e si complicano fra
loro in mille guise. È bensì vero che ciò che fa esser morale un valore (e
analogamente si potrebbe dire dei valori di ogni altra specie) non è, come s'è
visto, il suo coincidere o il suo essere connesso sia pure per un rapporto di
condizionalità costante, con un valore — per quanto grande — di altro genere, o
anche con piú altri ordini di valori o con tutti; ed è perciò che nessuna
sottigliezza di logica può estrarre un valore morale se non di là dove esso si
sia già posto o insinuato; e che credere di poter trovare un valore morale tra
valori che non siano già morali è fare a un dipresso come chi vada frugando fra
le idee degli altri con la speranza di trovarvi le proprie.
Ma è
pur vero che sussistono altri valori, e sussistono le relazioni fra i valori; e
ciò che è oggetto di valutazione morale, poniamo la sincerità, può essere
apprezzato dal punto di vista dell'interesse conoscitivo od artistico o
economico; e, per converso, ciò che è oggetto di valutazione edonistica o
estetica o d'altro genere, la ricchezza, l'arte, la dottrina, può essere
valutato anche come bene di ordine morale.
Ora: È
possibile una conciliazione dei valori morali con gli altri valori e di questi
fra di loro? E se non è possibile, quale è il criterio della loro graduazione e
subordinazione?
Vi è,
per rispetto alla natura delle relazioni o connessioni tra valori di diversa
specie, qualche differenza caratteristica che distingue i valori morali dai
valori non morali anche per il contenuto?
E vi
è, segnata ancora dalla sfera delle relazioni condizionali o strumentali con
valori di altro genere, una differenza che distingue, rispetto al contenuto,
gli stessi valori morali fra di loro?
E non
potrebbe questa considerazione giovare a intendere le incoerenze e i contrasti
tra valutazioni diverse e anche opposte, che pure si presentano col medesimo
carattere di valutazioni morali?
Cosí,
dietro i tentativi illusori di cercare fuori e al di là dei valori morali il
fondamento della valutazione morale e la ragione decisiva che ne giustifichi la
supremazia, restano i problemi: della valutazione indiretta o rivalutazione
condizionale o strumentale, di una graduazione delle diverse categorie di
valori; e della possibilità della loro conciliazione. Della quale, la
conciliazione tra virtù e felicità non è che un aspetto particolare, e forse
non il piú importante.
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