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Erminio Juvalta
Il vecchio e il nuovo problema della morale

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  • Parte prima IL FONDAMENTO DELLA MORALE
    • Capitolo Quarto IL FONDAMENTO CERCATO NELL'AUTORITÀ
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Capitolo Quarto

IL FONDAMENTO CERCATO NELL'AUTORITÀ

 

Il carattere di autorevolezza col quale si presenta alla coscienza il giudizio morale, che noi approviamo bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo sgorgare da una sorgente piú alta o piú profonda, e quello di precetto imperativo nel quale si traduce, tendono a far derivare questi caratteri, e, quando siano considerati essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale, da un'autorità distinta dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la trascende e la supera.

Il fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione, consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale.

L'autorità delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra minore autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o nei titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano.

 

a) Della storia.

L'appello alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e apparato e significazione diversi, secondoché si credette di fondare l'autorità della valutazione in un processo genetico di evoluzione selettiva operante attraverso l'esperienza organizzata della specie; o in un processo storico di svolgimento e di elevazione progressiva dei costumi, della cultura, degli istituti e delle idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione logica di un pensiero riflesso rintracciato nella successione storica delle dottrine e dei sistemi.

La prima delle forme accennate che si connette alla dottrina dell'evoluzione e che culmina nella tesi di un progressivo adattamento dei bisogni, dei sentimenti, delle attività alle condizioni di una vita sociale sempre piú elevata, piú complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che non sarebbe oggi piú neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della dottrine), si risolve in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare quella superiorità e quella autorità dei sentimenti e delle norme di condotta morali, che pretende di provare derivandola dal processo di selezione progressiva che ne ha costituito e consolidato la prevalenza nel corso dell'evoluzione.

Infatti il criterio, per il quale giudichiamo progressiva piuttosto che regressiva o indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee e dei sentimenti, è un criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta la validità indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il prodotto; (e del quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci fa riconoscere il valore).

Ed è troppo chiaro che non è perché il «progresso» del senso giuridico ha portato all'abolizione della tortura che noi condanniamo la tortura, ma è perché condanniamo la tortura che ravvisiamo nella sua abolizione un progresso etico nello svolgimento del diritto.

Ché se si obbietta derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e corrispondenza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati» dei quali esprimono le esigenze, si dimentica che all'infuori di un criterio — quale esso sia — di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamente, in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso.

Tanto ciò è vero, che il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo Spencer, fu condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico dell'adattamento progressivo a un tipo di vita completa — il criterio edonistico di un piacere puro corrispondente all'adattamento completo.

 

* * *

 

Se a una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue conquiste — la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria, piú adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore, direi di prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei valori morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori).

Lasciamo pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a qualche uncino di verità) fatta alla storia:

Hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque;

e neppure discutiamo della possibilità e dei limiti di una induzione legittima sui fatti storici; ciò che importa, e che basta notare, è che questa induzione, posto che fosse legittima, e non avesse già per filo conduttore e regolatore quella direzione ideale che vi rintraccia ingegnosamente, non pone essa il valore delle conclusioni a cui giunge, non è essa che ci fa riconoscere la bontà, la elevatezza, la eccellenza morale delle idealità che segnano la meta.

Questa valutazione è irreducibile alla storicità; ed è anzi dalla storia — in quanto voglia essere giudizio comparativo di valori umani — sempre e inevitabilmente presupposta. Di che è prova il fatto che, mutato il criterio valutativo, sostituita all'una un'altra scala di valori, la prospettiva si rovescia; e Nietzsche vede una nefasta degenerazione dove il democratico e l'umanitario ravvisano l'indice sicuro di un felice progresso morale.

E se il criterio valutativo della coscienza si contrappone a quello che ha o sembra avere a un momento dato il conforto della storia, non vi è in questo nessuna ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno sull'altro dal punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal punto di vista storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che oggi fa difetto al primo, non è escluso che lo assista domani.

La storia è conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non è, diciamo pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso tempo l'altra.

 

* * *

 

Se passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero riflesso, troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è, nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepire la realtà perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come siano possibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e dialettico delle dottrine riguarda soprattutto, se non esclusivamente, i problemi che nascono da questo problema centrale; le forme diverse sotto le quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi.

Ma la sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una concezione unitaria della realtà che ne accolga le postulazioni, sarebbe fuor di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valutazioni, dalle quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le indagini.

È bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si annoda e si intreccia l'analisi e l'indagine di indole propriamente etica, sulla natura dei diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la fecondità, ne svolge le conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di contrasto tra le valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse, svela i legami spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità alcune di queste intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro genere, noetiche estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di importanza capitale per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei criteri di valutazione e per tentarne la unificazione in una dottrina etica strettamente intesa (che è altra cosa da un sistema filosofico di etica), si svolge attorno a un contenuto valutativo, fornito dalla immediata esperienza morale; assume come validi per sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono gli elementi, i punti saldi di riferimento, i dati, alla cui validità è legata la consistenza della costruzione.

 

E vi può essere finalmente nei sistemi morali, e certamente si trova nei piú grandi e significativi, un filone piú o meno ricco di intuizioni morali nuove, che si aggiungono o sovrappongono o sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza della coscienza morale comune, e segnano la creazione di nuovi valori e aprono la visione di una regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio morale ed è il sale di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta, ospite o signora. Ma questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento, o soprattutto, orientamento diverso di valori, nessuno vorrà considerare come il frutto di una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme: anche se fosse esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si accompagnasse sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione ostinata.

Questa concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché novità di intuizioni morali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati estranei, almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto che quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di entusiasmo morale dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando secondino le forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali.

 

Cosí anche questa affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui cercare da quale concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o svincolata, non è la conclusione di un'indagine scientifica o filosofica, ma è un penetrare o un irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero riflesso; che non li esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea.

 

b) Il fondamento cercato in una volontà.

La forma di precetto imperativo nella quale si traduce l'esigenza di conformare l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità come l'adempimento di un obbligo e questo come l'obbedienza a un'autorità inconcussa e indiscutibile.

A questo momento della moralità corrisponde la tendenza a cercare il fondamento del valore morale stesso in un Potere (che, in quanto si esercita in vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere) immanente o trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi morali esprimono i comandi.

L'autorità della coscienza morale rispecchia l'autorità di quel potere, e risuona l'eco di quel comando nel tono imperativo dei suoi precetti.

Ora qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che nascono dal trasportare un medesimo termine da uno ad altri concetti connessi ma diversi, o dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un processo psicologico complesso.

Quando si parla del dovere, come di una caratteristica della valutazione morale, si cade in un equivoco di questo genere. Il dovere non è dovere di valutare, ma di conformare l'azione alla valutazione.

La valutazione morale precede, nell'ordine delle esigenze ideali, l'obbligo e lo giustifica; e non inversamente; anche se nella pratica coincidessero sempre e questo fosse la ratio cognoscendi di quella.

E qui occorre una analisi alquanto sottile e una riflessione un po' attenta.

 

* * *

 

La valutazione morale è preferenza, scelta, opzione fra qualità o proprietà, cioè modi possibili di essere o di agire, tra i quali non vi è gradazione, ma opposizione, e dei quali non può realizzarsi l'uno senza che sia tolto l'altro.

Porre l'uno come valore è insieme porre l'altro come non valore o disvalore. Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità come valori, implica disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigrizia.

Il valutare morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due soli atteggiamenti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza decisiva, i valori morali, a differenza degli altri valori, non possono attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono voluti (la volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne dipendono, anzi consiste nell'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí non è possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare l'opzione, la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza che l'un termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza approvare l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la volontà nell'atto di realizzarlo.

Ancora: gli altri valori soffrono di essere commisurati tra di loro e posposti ai valori morali senza perdere la loro qualità di valori, cioè senza che questo posporli smentisca il loro riconoscimento. I valori morali invece non soffrono di essere posposti senza essere smentiti; perché non sono morali se non a patto di essere sovraordinati a ogni altro valore, e in quanto esprimono non stati singoli, ma modi di essere, non atti, ma modi di operare posti come costantemente normativi della volontà.

Ne segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si rivela come dato, esigere, se è concepito solo come possibile o potenziale, l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante, cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e che sia posto contro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di quella stessa volontà il cui atteggiamento positivo è un'esigenza implicita nel riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente postulato nella valutazione.

Perciò, se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la sincerità, si sia lasciato trascorrere a una menzogna, l'atto presente e momentaneo del mentire appare a lui come un rinnegamento del suo proprio volere; il quale rimane potenzialmente e conativamente morale pur nel momento della volizione singola che gli si oppone e lo nega. Perché il valore non cessa di essere sentito e riconosciuto come morale, cioè come valore che esige per essere tale di essere attuato ossia voluto costantemente9.

Ora il dovere, in quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in quanto è interiore e non riducibile al sentimento di una coazione esterna (ossia all'obbligo di cui si dirà tra poco), è la coscienza di questa esigenza del valore morale e si manifesta — come necessità di rispettare questa esigenza, di tener fermo nelle volizioni singole il valore morale, — nella sua forma piú chiara, quando è in contrasto con motivi di altra natura. Ma è presente anche se non vi sia attualmente questo conflitto, in quanto è presente alla coscienza la possibilità di impulsi contrastanti.

 

Da quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione morale.

I valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non sono, non vi può essere dovere.

E non avrebbe senso parlare di un dovere di riconoscere dei valori morali a una coscienza che fosse chiusa ad ogni valutazione etica; di un suo dovere di affermare la superiorità su ogni altro valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun valore. Non avrebbe senso piú di quel che avrebbe il pretendere che debba capire che ci son anche dei suoni e che valgon piú dei rumori chi non avesse udito mai che rumori, e i suoni stessi non li sentisse se non in forma di rumori.

E quando si dice, poniamo, che un uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú del tradimento, il «deve» o non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da quello propriamente morale.

Non ha senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire che per essere uomini bisogna sentire cosí, che non si può chiamar uomo o che non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché significa non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo.

 

* * *

 

Ma dunque i «sordi morali», se ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché non possono sentire l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han fatta e che non fanno, di attuare dei valori che non riconoscono come tali. — Ma hanno tuttavia e possono avere degli obblighi. L'obbligo di operare come se riconoscessero, se non tutti i valori morali, almeno alcuni, i piú grossolani e massicci e coercibili esteriormente, cioè suscettivi di esser presentati come motivi apprezzabili anche da una coscienza non morale.

È questo obbligo, quello del quale si è tessuta con grande abbondanza di passaggi e di fasi la genesi psicologica e l'origine sociale nelle sanzioni esterne, e si è discusso a perdifiato se bastasse o non bastasse a dar ragione del dovere (ed evidentemente non basterebbe a darne ragione anche se bastasse a spiegarne la formazione); e questo obbligo implica necessariamente il riferimento a un potere superiore e distinto dal volere individuale. E come questo Potere si impone in vista di un fine e in conformità a certe norme, è concepito come potere di una Volontà che comanda l'osservanza di quelle norme.

Senonché anche quest'obbligo può prendere forma e significato morale; come può non avere altro valore che di costrizione subita: appunto come le pene del codice per i galantuomini di princisbecco.

E anche qui occorre un po' di pazienza.

 

* * *

 

Quella esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta nella valutazione stessa e per la quale il valore morale si fa sentire come norma e si esprime nella coscienza del dovere (dovere di non negare nelle singole volizioni il volere costante implicito nella valutazione morale) si accompagna, come si è pure accennato, alla consapevolezzadata nell'esperienza e suggerita dalla forma stessa antitetica della valutazione normale — della possibilità di volizioni, cioè di azioni, immorali; o (che torna il medesimo) della esistenza di tendenze, impulsi, motivi antagonistici al volere morale.

Il volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi antagonistici tendono a contrastarne l'attuazione) come esigenza della subordinazione costante di questi motivi, come appello a una forza coercitrice che li soverchi, sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso ordine, e rovesciandone per tal modo il valore.

Questa disposizione di spirito fa che si approvi l'obbligo e si approvi il Potere obbligante, se esiste o si concepisce che esista; se ne ponga la necessità e se ne invochi la presenza dove e quando manchi; cioè fa che si riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione dell'obbligo, e giusto il Potere che lo pone.

In questa disposizione per la quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati e voluti come garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e idealmente posto in nome della esigenza morale, sta la caratteristica differenza che all'obbligo valore morale, e lo distingue dall'obbligo sentito come pura costrizione esterna; che distingue il potere che merita rispetto dalla forza che si deve subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il comando di questa autorità si consideri limitato a una certa sfera di valori morali, sia che si faccia coincidere collo stesso valore morale e si identifichi con esso.

Ma cosí nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e al Potere obbligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che valuta moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione morale.

Per la prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare l'obbligo. Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i valori morali; i quali valgono non perché sono morali, ma perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e della sanzione, come valori strumentali di altri valori, come condizione imposta e inevitabile di quei beni che soli la coscienza amorale desidera e apprezza. L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità esteriore a certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che li accompagna. La valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è surrogata da una valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non può farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di un interesse diverso.

 

* * *

 

Raccogliamo i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne segue.

Il dovere esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non smentire, con la volizione attuale, la preferenza, la opzione che si afferma, come criterio di apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui, nella valutazione morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimolo e causa dell'azione, potere di produrre movimenti, al mio volere in quanto è scelta fra posizioni possibili opposte, e attribuzione continua e persistente di valore all'una, e di disvalore all'altra.

Se si separa la volontà come causa delle volizioni attuali e contingenti, come potere di esecuzione, dalla volontà che pone i valori e si esprime nella valutazione, il dovere si presenta come l'esigenza dell'obbedienza del Volere operante al Volere valutante, del volere esecutivo al volere legislativo, del volere a cui spetta attuare i valori morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di tempo, al volere che li ha posti e li fa sentire e riconoscere come tali.

Ora, quando la incertezza, l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di istinti, di impulsi e di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano sentire alla coscienza morale la necessità di un Potere che assicuri la preminenza di fatto e non soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli l'osservanza, il valore morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali impone i suoi comandi, viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato come conforme all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda, in tutto o in parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una Volontà che tende all'attuazione dei valori morali.

Se quel Potere è pensato senza limiti e attribuito a una volontà perfettamente morale cioè a una volontà la cui norma si identifichi con quella del mio Volere-valutante, questa Volontà — in cui il potere adegua il valutare e per la quale la attuazione dei valori morali adegua la posizione di essi valori come tali, cioè come degni di essere attuati — sarà pensata non solo come un potere che impone, ma come Autorità che merita, un'obbedienza incondizionata; e apparirà che derivino da un'unica sorgente cosí il comando che esprime la potenza operante di quella volontà, come la valutazione morale che ne esprime la norma; cioè apparirà fondato su quell'Autorità il criterio stesso della valutazione.

Ma lasciando ogni questione sulla legittimità delle postulazioni implicite in questi processi costruitivi e sulla possibilità della loro sintesi, è facile vedere come rimanga sempre inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica il comando, che autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un Volere onnipotente con un Volere legiferante; la valutazione data nella coscienza morale, la quale rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e non superabile; anche dove è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto, derivato o subordinato.

Cosí se il teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la Provvidenza dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una valutazione diversa, ma sostituisce e sovrappone alla «veduta corta d'una spanna» una sapienza infinita la quale vede i fini remoti di quell'ordine che a noi rimane occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di quell'ordine a noi appare un male.

Ma appunto il criterio di questa bontà è il criterio morale; ed è il non sapere conciliare i fini apparenti con l'esigenza morale che induce l'opinione o la certezza di fini ulteriori che si accordino con essa.

 

* * *

 

Dopo quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle forme principali nelle quali si presenta, e si è presentata storicamente, la dottrina del fondamento autoritativo della morale.

Se la distinzione tra il potere e l'esigenza morale che lo legittima non è superata, come s'è visto, neppure quando si unificano i due termini nel concetto di un'autorità che sia insieme irresistibilmente potente e indefettibilmente morale, tanto piú manifesta sussisterà nelle forme in cui l'unificazione non è posta, o l'adeguazione è incompleta.

Ma restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o negare ogni valore alla coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione, sul potere che la pone a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della valutazione morale dalla coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale o collettiva, la cui autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo accordarsi totale o parziale con la coscienza della persona.

a) Sulla prima tesi non c'è da osservare che questo:

Che essa o non risponde alla domanda alla quale pretende di rispondere; perché non è dire donde venga l'autorità della valutazione morale negarle ogni valore, per riconoscere soltanto il potere che la impone, ma che potrebbe imporre il contrario.

O non toglie se non a parole la distinzione, che ritorna attraverso a qualsiasi sottigliezza, tra l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene. E quando il Callicle platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti ai pochi, degli inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve, per non contraddire se stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un criterio morale, un criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a distinguere quella degli ingegnosi, degli intelligenti, dei superiori, da quella del numero; a riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere di piú e che non è giusto sia sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la forza che costituisce la giustizia?

E il potere illimitato del Sovrano, al quale l'Hobbes riconduce ogni criterio di morale e di diritto, esclude solo in prima istanza, cioè in apparenza, ogni valutazione diversa: perché, come tutti sanno, l'arbitrio di questo potere è legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa per cui si suol riconoscere che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e un governo tirannico che nessun governo.

 

* * *

 

b) La seconda delle vie indicate conduce a far riconoscere l'autorità morale come propria, o della collettività concepita come aggregato dei singoli, o dello stato come distinto e superiore alle persone: sia come organo della società ai cui fini sono subordinati i fini individuali, sia come Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà particolari.

Le due tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e valore diverso.

I) Se la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di singoli, non si può evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della forza. Un giudizio morale che non è valido se corrisponde alla valutazione di n-1 coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico (cioè come criterio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini); ma del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo; per la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il senso comune, e il discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare sconclusionato di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare a fare una legge ma non a farne riconoscere l'equità.

Ché se l'autorità morale della valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità dei singoli, e perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di valutazioni in cui tutte le coscienze concordano, da quelle sulle quali l'accordo sparisce, si riconoscono due cose: che per ciascuna persona non vi può essere autorità morale superiore a quella della propria coscienza; che la distinzione la quale può essere di importanza capitale per i rapporti tra morale e politica, cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non ha valore morale se non a patto di essere fondata essa stessa su una distinzione di valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar come) dalla coscienza morale personale che la deve riconoscere.

Manca dunque sempre il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a cui dovrebbe ricondursi l'autorità della coscienza collettiva.

 

* * *

 

II) Quando si parla di fini della società diversi dai fini individuali, e di coscienza sociale distinta dalla coscienza personale, si corre facilmente nell'equivoco di opporre come separati, o, peggio ancora, precedenti l'uno all'altro due termini correlativi; e si dimentica o si trascura di tener presente che i fini della società non sono fini se non per gli esseri associati che li concepiscono e li fan propri; e che la coscienza sociale non esiste e non si rivela che nelle coscienze individuali; come, per converso, che i fini individuali sono nello stesso tempo, o direttamente o indirettamente, fini della società; e un certo grado di distinzione e differenziazione delle coscienze individuali è correlativo a un grado corrispondente di coscienza sociale.

Ciò non significa negare il fattore sociale e le esigenze della socialità. Ma significa che quando si parla di individui e di coscienza individuale, questo individuo è già il socio; è esso, e nello stesso tempo la società a cui appartiene; e la coscienza personale sua è insieme coscienza di sé individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è cosí legittimo dire che esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della società, come dire che esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io.

 

Fatta questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione presente, riesce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore alla società.

La socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed è valutata alla stregua della esigenza morale.

Derivare la valutazione morale da fini sociali significa dunque derivarla da qualche cosa il cui valore è giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione che se ne vuol trarre.

Di che si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è questa: che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini designati come sociali e delle istituzioni, delle leggi, dei tipi di società, ammette o sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o grande che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza morale.

Quella stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú apertamente il proposito del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un rigoroso determinismo storico, vede dissiparsi il suo bagaglio scientifico, e star saldo quel nocciolo di idealità etiche per le quali professava in vista il piú aperto dispregio, e che in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e l'ali alla certezza.

L'altra osservazione è questa; che appunto quel che vi è di vivo e di vitale e di durevole nella fedefede è sostanza di cose sperate») che prende il nome dal socialismo, è sociale non nel fine, ma nel mezzo; mentre è, nel fine, e non potrebbe non essere, suggerito e alimentato da un ideale morale che ha per oggetto e per centro l'individuo, la unità personale umana. Poiché la proprietà collettiva è concepita, attesa, voluta come condizione necessaria a rendere effettiva la libertà di tutti, a far veramente di ogni individuo umano una persona umana.

Che poi quella sia la condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli effetti siano per essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro discorso.

 

La vieta analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo-società acquista coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo, e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta da lui come superiore a se stesso.

concluderebbe il dire che non si tratta in ultimo che di un «punto di vista diverso»; e che, se dal punto di vista dell'individuo i valori sociali sono valori individuali, dal punto di vista della società è vero l'inverso: perché la coscienza che pone i valori sociali, e che giudica e valuta dal «punto di vista» sociale, che funge da coscienza sociale, è ancora, sempre, inevitabilmente, una coscienza individuale.

 

* * *

 

Più breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú sottile e complicata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale nello stato e fa dello stato l'organo dell'Eticità. Perché in quanto la volontà dello stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere morale, non c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito dell'identificazione del Volere-potere col Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro della valutazione, e l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori morali, è questa affermata identità del Volere dello stato col Volere morale che si viene attuando nella Storia.

Le difficoltà che possono nascere dagli sforzi di conciliare lo stato com'è con lo stato com'è concepito, e di interpretare i processi reali del suo divenire storico come momenti di attuazione dello Spirito universale cioè del Volere morale, rimangono estranee al punto in questione; il quale è questo: che il valore etico dello stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato di quel Volere universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé la coscienza personale e si fa valere in essa.

Cosi qualunque sia il Potere e qualunque il Volere a cui si voglia ricondurre l'autorità della coscienza morale, sempre si trova dietro a quel Potere e dietro a quella Volontà, inevitabilmente dato o presupposto, quel valore morale che legittima il primo e autorità al secondo; come dietro la firma dell'uomo d'affari sia, non vista e non detta, ma sottintesa, la ricchezza reale o supposta, che fa della sua cambiale un valore.

 

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Ma se l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra autorità superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna ammettere: o che le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano totalmente, cioè che le coscienze personali non siano che copie o esemplari di una medesima coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di contenuto; o altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali, posta, insieme con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della differenza e dell'opposizione rispetto ad altri valori.

E in questo caso al problema della fondazione storica e della fondazione consensuale della valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori morali nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e l'autorità del consenso universale coincidono con quella della coscienza personale?

E in che cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale accordo?

È legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso non potrebbe né in fatto né in diritto estendersi all'atteggiamento interiore, ma valere soltanto rispetto alle manifestazioni esteriori) dei secondi ai primi?

 

E del pari si trasforma il problema sul fondamento del dovere.

Il dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il conformare la condotta alla valutazione; e suppone il rapporto tra due volontà distinte o concepite come distinte, tra un volere presente e momentaneo che si rivela nella volizione attuale e concreta, e il volere dell'io persona, il Volere valutante o normativo, che le unità. Se l'io momentaneo o contingente è dominato totalmente e assorbito dall'io persona, e il Volere operante si identifica col Volere valutante, il dovere si attenua e svanisce perché sparisce il termine subordinato; se il Volere valutante manca e l'io non è che aggregato temporaneo e variabile di impulsi e di tendenze accidentali, il dovere non sorge perché manca il termine subordinante.

Il problema del dovere è perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà che nascono, sia dal concepire il Volere operante come uno e identico col Volere valutante; sia dal concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal concepire, secondo importa la necessità di una conciliazione, le due volontà come distinte e diverse nell'uomo individuo, ma come una e identica in un Potere soprapersonale del quale il valore morale esprime la legge nella coscienza individuale.






8 È forse superfluo avvertire che qui si parla di valori nuovi immediati e diretti; non di valori indiretti o mediati. Di questi altri, anzi, ogni incremento del sapere moltiplica il numero e le gradazioni; ed è in questa derivazione e deduzione dei valori indiretti e mediati dai diretti e immediati, che l'etica applicata prende a prestito dalla conoscenza scientifica le premesse minori dei suoi sillogismi valutativi.



9 Di qui nasce la tendenza incoercibile, manifesta nei maggiori pensatori, a identificare il volere puro, il volere che esprime l'essenza della personalità umana, il volere libero e autonomo, il «vero» volere col volere morale; e a considerare gli atti immorali come prodotti non dalla volontà, ma da difetto di volontà, da qualche cosa di esterno ad essa; non come espressione di attività e libertà, ma di passività e servitù.





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