Il
carattere di autorevolezza col quale si presenta alla coscienza il giudizio
morale, che noi approviamo bensì come nostro, ma che ci pare nello stesso tempo
sgorgare da una sorgente piú alta o piú profonda, e quello di precetto
imperativo nel quale si traduce, tendono a far derivare questi caratteri, e,
quando siano considerati essenziali della moralità, lo stesso giudizio morale,
da un'autorità distinta dalla coscienza, e che, pur rivelandosi in essa, la
trascende e la supera.
Il
fondamento di questa autorità fu riposto o nel processo stesso di formazione,
consapevole o inconsapevole, delle idee e dei sentimenti morali che danno
contenuto alla valutazione; o in un volere superiore e distinto dal volere
individuale, al quale si riconosce potestà imperativa e alla cui scelta o
decisione si riconduce in ultimo il criterio della valutazione morale.
L'autorità
delle valutazioni morali avrebbe dunque in ultimo, come ogni altra minore
autorità politica o sociale, il suo fondamento e la sua legittimazione o nei
titoli di una sua nobiltà storica, o nella volontà di un potere sovrano.
a) Della
storia.
L'appello
alla storia può assumere, assunse in effetto, forma e apparato e significazione
diversi, secondoché si credette di fondare l'autorità della valutazione in un
processo genetico di evoluzione selettiva operante attraverso l'esperienza
organizzata della specie; o in un processo storico di svolgimento e di
elevazione progressiva dei costumi, della cultura, degli istituti e delle
idealità etiche nei popoli civili; o nella elaborazione logica di un pensiero
riflesso rintracciato nella successione storica delle dottrine e dei sistemi.
La
prima delle forme accennate che si connette alla dottrina dell'evoluzione e che
culmina nella tesi di un progressivo adattamento dei bisogni, dei sentimenti,
delle attività alle condizioni di una vita sociale sempre piú elevata, piú
complessa e piú armonica (lasciando ogni questione che non sarebbe oggi piú
neanche di buon gusto sulla consistenza scientifica della dottrine), si risolve
in ultima analisi, come fondazione etica, nel postulare quella superiorità e
quella autorità dei sentimenti e delle norme di condotta morali, che pretende
di provare derivandola dal processo di selezione progressiva che ne ha
costituito e consolidato la prevalenza nel corso dell'evoluzione.
Infatti
il criterio, per il quale giudichiamo progressiva piuttosto che regressiva o
indifferente l'evoluzione o la selezione delle idee e dei sentimenti, è un
criterio di valutazione di cui si riconosce e si accetta la validità
indipendentemente dal processo di cui sarebbe — nell'ipotesi — il prodotto; (e del
quale processo, anzi, è esso stesso, questo prodotto, che ci fa riconoscere il
valore).
Ed è
troppo chiaro che non è perché il «progresso» del senso giuridico ha portato
all'abolizione della tortura che noi condanniamo la tortura, ma è perché
condanniamo la tortura che ravvisiamo nella sua abolizione un progresso etico
nello svolgimento del diritto.
Ché se
si obbietta derivare l'autorità delle norme morali dalla loro convenienza e
corrispondenza alle forme di vita «superiore», ai tipi di relazioni «più elevati»
dei quali esprimono le esigenze, si dimentica che all'infuori di un criterio —
quale esso sia — di valutazione non vi sono forme superiori o inferiori, tipi
derivati e tipi bassi. E un criterio di valutazione è, sempre, necessariamente,
in modo esplicito o implicito, assunto o sottinteso.
Tanto
ciò è vero, che il massimo rappresentante e sistematore dell'evoluzionismo, lo
Spencer, fu condotto a sovrapporre, per giustificarlo — al criterio genetico
dell'adattamento progressivo a un tipo di vita completa — il criterio
edonistico di un piacere puro corrispondente all'adattamento completo.
* * *
Se a
una selezione esteriore e meccanica, nella quale la coscienza è risultato e non
attività, si sostituisce uno svolgimento interiore e psichico — nel quale la
coscienza etica viene costruendo ed elaborando le sue valutazioni le sue norme
le sue idealità sempre piú alte e sempre piú ampie nel passaggio da età ad età
e da popoli a popoli in sfere di civiltà piú larghe, e, sulla via che
l'induzione storica rivela attraverso le soste, le deviazioni, gli oscuramenti
e i ritorni apparenti, si scorge col Wundt la direzione ideale e si disegnano i
fini, i motivi, le norme in cui la coscienza morale viene raccogliendo le sue
conquiste — la concezione della formazione storica è senza dubbio piú propria,
piú adeguata e piú probabile; ma non è tolto il vizio d'origine, l'errore,
direi di prospettiva, comune a ogni tentativo di fondamentazione storica dei
valori morali. (E il medesimo sarebbe da dire per le altre specie di valori).
Lasciamo
pure la vecchia calunnia (se bene le calunnie sogliono aggrapparsi a qualche
uncino di verità) fatta alla storia:
Hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque;
e neppure discutiamo della possibilità
e dei limiti di una induzione legittima sui fatti storici; ciò che importa, e
che basta notare, è che questa induzione, posto che fosse legittima, e non
avesse già per filo conduttore e regolatore quella direzione ideale che vi
rintraccia ingegnosamente, non pone essa il valore delle conclusioni a cui
giunge, non è essa che ci fa riconoscere la bontà, la elevatezza, la eccellenza
morale delle idealità che segnano la meta.
Questa
valutazione è irreducibile alla storicità; ed è anzi dalla storia — in quanto
voglia essere giudizio comparativo di valori umani — sempre e inevitabilmente
presupposta. Di che è prova il fatto che, mutato il criterio valutativo,
sostituita all'una un'altra scala di valori, la prospettiva si rovescia; e
Nietzsche vede una nefasta degenerazione dove il democratico e l'umanitario
ravvisano l'indice sicuro di un felice progresso morale.
E se
il criterio valutativo della coscienza si contrappone a quello che ha o sembra
avere a un momento dato il conforto della storia, non vi è in questo nessuna
ragione intrinseca di superiorità o di inferiorità dell'uno sull'altro dal
punto di vista etico, che è quello che importa; anzi neppure dal punto di vista
storico, perché quel conforto (quale esso sia) della storia, che oggi fa
difetto al primo, non è escluso che lo assista domani.
La
storia è conservazione e svolgimento, ma anche innovazione e opposizione; non
è, diciamo pure, con termini hegeliani, una cosa se non perché è nello stesso
tempo l'altra.
* * *
Se
passiamo ora ad esaminare lo svolgimento storico nel pensiero riflesso,
troviamo che il problema attorno al quale sembra disegnarsi meglio la
continuità logica della speculazione morale nella successione dei sistemi, è,
nella sua forma piú generale, il seguente: Come dobbiamo concepire la realtà
perché essa risponda alle esigenze delle nostre intuizioni morali; e se e come
siano possibili le condizioni di una tale realtà. Lo svolgimento logico e
dialettico delle dottrine riguarda soprattutto, se non esclusivamente, i
problemi che nascono da questo problema centrale; le forme diverse sotto le
quali si presentano; e il processo di sostituzione e di eliminazione e di
superamento, per il quale i problemi antichi trapassano nei problemi nuovi.
Ma la
sostanza delle intuizioni morali non è data, e non potrebbe essere, né da
questo o quel sistema, né dalla successione fosse pur continua e rigorosamente
coerente dei sistemi, che ne scopre e ne snoda le esigenze, e viene cercando
una risposta alle domande che queste esigenze sollevano e presentano alla
riflessione critica. In questo sforzo essenzialmente speculativo di
sistemazione, e per dir cosí, di inquadramento delle intuizioni morali in una
concezione unitaria della realtà che ne accolga le postulazioni, sarebbe fuor
di luogo pretendere di trovare la ragione d'essere di quelle valutazioni, dalle
quali la speculazione prende le mosse, e che ne ispirano e alimentano le
indagini.
È
bensí vero che a questo travaglio di costruzione speculativa si annoda e si
intreccia l'analisi e l'indagine di indole propriamente etica, sulla natura dei
diversi principî e criteri valutativi, che ne saggia la fecondità, ne svolge le
conseguenze, mette in luce i rapporti di accordo e di contrasto tra le
valutazioni morali attinenti a sfere di esperienza diverse, svela i legami
spesso sottili e inattesi che stringono in gruppi di affinità alcune di queste
intuizioni sia tra di loro, sia con valutazioni di altro genere, noetiche
estetiche e religiose. Ma questa elaborazione che è pure di importanza capitale
per rendersi conto della «rilevanza» e della portata dei criteri di valutazione
e per tentarne la unificazione in una dottrina etica strettamente intesa (che è
altra cosa da un sistema filosofico di etica), si svolge attorno a un contenuto
valutativo, fornito dalla immediata esperienza morale; assume come validi per
sé i giudizi apprezzativi che ne costituiscono gli elementi, i punti saldi di
riferimento, i dati, alla cui validità è legata la consistenza della
costruzione.
E vi
può essere finalmente nei sistemi morali, e certamente si trova nei piú grandi
e significativi, un filone piú o meno ricco di intuizioni morali nuove, che si
aggiungono o sovrappongono o sostituiscono alle intuizioni date nell'esperienza
della coscienza morale comune, e segnano la creazione di nuovi valori e aprono
la visione di una regione morale inesplorata. È la parte che spetta al genio
morale ed è il sale di quella dottrina etica, in cui l'intuizione è accolta,
ospite o signora. Ma questa novità di intuizione, questo allargamento, o arricchimento,
o soprattutto, orientamento diverso di valori, nessuno vorrà considerare come
il frutto di una deduzione logica, anche se nel sistema ne vestisse le forme:
anche se fosse esclusivamente opera dei grandi costruttori di sistemi e si
accompagnasse sempre con una riflessione critica acuta e una meditazione
ostinata.
Questa
concomitanza (che del resto non si può dire costante, perché novità di
intuizioni morali si trova pure in dottrine, pensamenti, apostolati estranei,
almeno in origine, ad una costruzione sistematica) significa soltanto che
quella medesima profondità di intuizione e intenso ardore di entusiasmo morale
dai quali erompe la nuova idealità, promuovono e preparano, quando secondino le
forze dell'intelletto, i grandi sistemi morali.
Cosí
anche questa affermazione o posizione di valori nuovi8, non importa qui
cercare da quale concorso di circostanze interiori od esteriori suscitata o
svincolata, non è la conclusione di un'indagine scientifica o filosofica, ma è
un penetrare o un irrompere della coscienza morale nella corrente del pensiero
riflesso; che non li dà esso, ma li accoglie; li illumina, ma non li crea.
b) Il
fondamento cercato in una volontà.
La
forma di precetto imperativo nella quale si traduce l'esigenza di conformare
l'azione al giudizio morale fa considerare la moralità come l'adempimento di un
obbligo e questo come l'obbedienza a un'autorità inconcussa e indiscutibile.
A
questo momento della moralità corrisponde la tendenza a cercare il fondamento
del valore morale stesso in un Potere (che, in quanto si esercita in
vista di un fine o in conformità a una norma, è Volere) immanente o
trascendente, personale o soprapersonale, del quale i giudizi morali esprimono
i comandi.
L'autorità
della coscienza morale rispecchia l'autorità di quel potere, e risuona l'eco di
quel comando nel tono imperativo dei suoi precetti.
Ora
qui è necessario sgombrare il terreno dagli equivoci che nascono dal
trasportare un medesimo termine da uno ad altri concetti connessi ma diversi, o
dal costringere in un solo concetto momenti distinti di un processo psicologico
complesso.
Quando
si parla del dovere, come di una caratteristica della valutazione morale, si
cade in un equivoco di questo genere. Il dovere non è dovere di valutare,
ma di conformare l'azione alla valutazione.
La
valutazione morale precede, nell'ordine delle esigenze ideali, l'obbligo e lo
giustifica; e non inversamente; anche se nella pratica coincidessero sempre e
questo fosse la ratio
cognoscendi di quella.
E qui
occorre una analisi alquanto sottile e una riflessione un po' attenta.
* * *
La
valutazione morale è preferenza, scelta, opzione fra qualità o proprietà, cioè
modi possibili di essere o di agire, tra i quali non vi è gradazione, ma
opposizione, e dei quali non può realizzarsi l'uno senza che sia tolto l'altro.
Porre
l'uno come valore è insieme porre l'altro come non valore o disvalore.
Approvare la sincerità, la fortezza, l'alacrità come valori, implica
disapprovare l'ipocrisia, la fiacchezza, la pigrizia.
Il valutare
morale è dunque un prendere partito per l'uno contro l'altro di due
soli atteggiamenti possibili; ma poiché, e questo punto è di importanza
decisiva, i valori morali, a differenza degli altri valori, non possono
attuarsi o vivere in noi se non sono voluti e solo in quanto sono
voluti (la volizione implica per quanto sono eseguibili tutte le azioni che ne
dipendono, anzi consiste nell'ordinare e nel promuovere queste azioni), cosí
non è possibile riconoscere un valore morale (che è quanto dire constatare
l'opzione, la posizione ideale dell'uno e la negazione dell'altro, la esigenza
che l'un termine acquisti o conservi sussistenza e l'altro la perda) senza
approvare l'atteggiamento richiesto a porlo in essere; anzi, senza pensare la
volontà nell'atto di realizzarlo.
Ancora:
gli altri valori soffrono di essere commisurati tra di loro e posposti ai
valori morali senza perdere la loro qualità di valori, cioè senza che questo
posporli smentisca il loro riconoscimento. I valori morali invece non soffrono
di essere posposti senza essere smentiti; perché non sono morali se non a patto
di essere sovraordinati a ogni altro valore, e in quanto esprimono non stati
singoli, ma modi di essere, non atti, ma modi di operare
posti come costantemente normativi della volontà.
Ne
segue che riconoscere un valore morale implica approvare, se si rivela
come dato, esigere, se è concepito solo come possibile o potenziale,
l'atteggiamento costante della volontà col quale esso valore è posto; costante,
cioè tale che si attui ad ogni presentarsi della stessa alternativa. Perché non
si può pensare che cessi di esser voluto senza pensare che cessi di esistere e
che sia posto contro di esso la sua negazione, il non-valore, per atto di
quella stessa volontà il cui atteggiamento positivo è un'esigenza implicita nel
riconoscimento di quel valore come morale, cioè è idealmente postulato nella
valutazione.
Perciò,
se accade che chi ritiene valore morale, poniamo, la sincerità, si sia lasciato
trascorrere a una menzogna, l'atto presente e momentaneo del mentire appare a
lui come un rinnegamento del suo proprio volere; il quale rimane potenzialmente
e conativamente morale pur nel momento della volizione singola che gli si
oppone e lo nega. Perché il valore non cessa di essere sentito e riconosciuto
come morale, cioè come valore che esige per essere tale di essere attuato ossia
voluto costantemente9.
Ora il
dovere, in quanto è proprio e caratteristico della moralità, cioè in
quanto è interiore e non riducibile al sentimento di una coazione esterna
(ossia all'obbligo di cui si dirà tra poco), è la coscienza di questa
esigenza del valore morale e si manifesta — come necessità di rispettare questa
esigenza, di tener fermo nelle volizioni singole il valore morale, — nella sua
forma piú chiara, quando è in contrasto con motivi di altra natura. Ma è
presente anche se non vi sia attualmente questo conflitto, in quanto è presente
alla coscienza la possibilità di impulsi contrastanti.
Da
quel che si è detto risulta che non si può parlare di dovere nel senso ora
chiarito, cioè di dovere morale, se non presupponendo data una valutazione
morale.
I
valori morali devono già essere sentiti voluti come tali: se non sono, non vi
può essere dovere.
E non
avrebbe senso parlare di un dovere di riconoscere dei valori morali a una
coscienza che fosse chiusa ad ogni valutazione etica; di un suo dovere di affermare
la superiorità su ogni altro valore, di qualche cosa a cui non riconosce alcun
valore. Non avrebbe senso piú di quel che avrebbe il pretendere che debba
capire che ci son anche dei suoni e che valgon piú dei rumori chi non avesse
udito mai che rumori, e i suoni stessi non li sentisse se non in forma di
rumori.
E
quando si dice, poniamo, che un uomo deve pur sentire che la lealtà vale di piú
del tradimento, il «deve» o non ha senso, o ha un senso al tutto diverso da
quello propriamente morale.
Non ha
senso se si vuol dire che nella realtà tutti lo riconoscono, cioè se si vuol
affermare o constatare una verità di fatto. Ha un senso diverso se si vuol dire
che per essere uomini bisogna sentire cosí, che non si può chiamar uomo o che
non merita questo nome chi sente e giudica altrimenti, cioè se si afferma che
al concetto di uomo è essenziale quella nota. Che è tutt'altra cosa. Perché
significa non che abbia il dovere di sentire in un modo chi non sente che in un
altro, ma che non sia veramente uomo se non chi sente cosí. Il che anche se
fosse del tutto arbitrario non sarebbe assurdo.
* * *
Ma
dunque i «sordi morali», se ve ne sono, non hanno doveri? Non ne hanno: perché
non possono sentire l'esigenza di conformarsi a una valutazione che non han
fatta e che non fanno, di attuare dei valori che non riconoscono come tali. —
Ma hanno tuttavia e possono avere degli obblighi. L'obbligo di operare come
se riconoscessero, se non tutti i valori morali, almeno alcuni, i piú
grossolani e massicci e coercibili esteriormente, cioè suscettivi di
esser presentati come motivi apprezzabili anche da una coscienza non morale.
È
questo obbligo, quello del quale si è tessuta con grande abbondanza di passaggi
e di fasi la genesi psicologica e l'origine sociale nelle sanzioni esterne, e
si è discusso a perdifiato se bastasse o non bastasse a dar ragione del dovere
(ed evidentemente non basterebbe a darne ragione anche se bastasse a spiegarne
la formazione); e questo obbligo implica necessariamente il riferimento a un
potere superiore e distinto dal volere individuale. E come questo Potere si
impone in vista di un fine e in conformità a certe norme, è concepito come
potere di una Volontà che comanda l'osservanza di quelle norme.
Senonché
anche quest'obbligo può prendere forma e significato morale; come può non avere
altro valore che di costrizione subita: appunto come le pene del codice per i
galantuomini di princisbecco.
E
anche qui occorre un po' di pazienza.
* * *
Quella
esigenza interiore che s'è visto sopra esser posta nella valutazione stessa e
per la quale il valore morale si fa sentire come norma e si esprime nella
coscienza del dovere (dovere di non negare nelle singole volizioni il volere
costante implicito nella valutazione morale) si accompagna, come si è pure
accennato, alla consapevolezza — data nell'esperienza e suggerita dalla forma
stessa antitetica della valutazione normale — della possibilità di volizioni,
cioè di azioni, immorali; o (che torna il medesimo) della esistenza di
tendenze, impulsi, motivi antagonistici al volere morale.
Il
volere morale si manifesta perciò (in quanto tali motivi antagonistici tendono
a contrastarne l'attuazione) come esigenza della subordinazione costante di
questi motivi, come appello a una forza coercitrice che li soverchi,
sovrapponendo ad essi altri motivi opposti dello stesso ordine,
e rovesciandone per tal modo il valore.
Questa
disposizione di spirito fa che si approvi l'obbligo e si approvi il
Potere obbligante, se esiste o si concepisce che esista; se ne ponga la
necessità e se ne invochi la presenza dove e quando manchi; cioè fa che si
riconosca giusto l'obbligo, giusta la sanzione dell'obbligo, e giusto
il Potere che lo pone.
In questa
disposizione per la quale l'obbligo e la sanzione sono interiormente approvati
e voluti come garanzia di moralità, e il Potere obbligante è invocato e
idealmente posto in nome della esigenza morale, sta la caratteristica
differenza che dà all'obbligo valore morale, e lo distingue dall'obbligo
sentito come pura costrizione esterna; che distingue il potere che merita
rispetto dalla forza che si deve subire; l'autorità dall'arbitrio; sia che il
comando di questa autorità si consideri limitato a una certa sfera di valori
morali, sia che si faccia coincidere collo stesso valore morale e si
identifichi con esso.
Ma
cosí nell'uno come nell'altro caso resta la medesima, di fronte all'obbligo e
al Potere obbligante, la differenza di atteggiamento tra la coscienza che
valuta moralmente e la coscienza che sia chiusa, per ipotesi, alla valutazione
morale.
Per la
prima è la valutazione morale che fa riconoscere e rispettare
l'obbligo. Per la seconda è l'obbligo che fa riconoscere i
valori morali; i quali valgono non perché sono morali,
ma perché sono riconosciuti, in forza dell'obbligo e della sanzione, come
valori strumentali di altri valori, come condizione imposta e inevitabile
di quei beni che soli la coscienza amorale desidera e apprezza.
L'osservanza dell'obbligo non è interiore moralità, ma è conformità esteriore a
certi comandi che valgono quel che vale la sanzione che li accompagna. La
valutazione propriamente e specificamente morale manca, ed è surrogata da una
valutazione del tutto diversa. Il suono dei valori morali non può
farsi sentire, per questa sordità morale, se non diventa il rumore di
un interesse diverso.
* * *
Raccogliamo
i risultati dell'analisi e vediamo che cosa ne segue.
Il dovere
esprime l'esigenza di conformare l'atto al giudizio, di non smentire, con la volizione
attuale, la preferenza, la opzione che si afferma, come criterio di
apprezzamento nel giudicare l'operare proprio e l'altrui, nella valutazione
morale; di non opporre il mio volere in quanto è stimolo e causa dell'azione, potere
di produrre movimenti, al mio volere in quanto è scelta fra posizioni
possibili opposte, e attribuzione continua e persistente di valore all'una, e
di disvalore all'altra.
Se si
separa la volontà come causa delle volizioni attuali e contingenti,
come potere di esecuzione, dalla volontà che pone i valori e si
esprime nella valutazione, il dovere si presenta come l'esigenza
dell'obbedienza del Volere operante al
Volere valutante, del volere esecutivo al volere legislativo, del volere a
cui spetta attuare i valori morali nelle contingenze mutevoli di luogo e di
tempo, al volere che li ha posti e li fa sentire e riconoscere come tali.
Ora,
quando la incertezza, l'incostanza, la debolezza del carattere, il prepotere di
istinti, di impulsi e di tendenze opposte in noi e negli altri, facciano
sentire alla coscienza morale la necessità di un Potere che assicuri la
preminenza di fatto e non soltanto di diritto dei valori morali, e ne tuteli
l'osservanza, il valore morale di questo Potere e delle sanzioni con le quali
impone i suoi comandi, viene manifestamente dall'essere questo Potere pensato
come conforme all'esigenza morale, come proprio di una volontà, che si accorda,
in tutto o in parte, con quel che si è detto il Volere valutante; cioè di una
Volontà che tende all'attuazione dei valori morali.
Se
quel Potere è pensato senza limiti e attribuito a una volontà perfettamente
morale cioè a una volontà la cui norma si identifichi con quella del mio Volere-valutante,
questa Volontà — in cui il potere adegua il valutare e per la quale la attuazione
dei valori morali adegua la posizione di essi valori come tali, cioè
come degni di essere attuati — sarà pensata non solo come un potere che impone,
ma come Autorità che merita, un'obbedienza incondizionata; e apparirà
che derivino da un'unica sorgente cosí il comando che esprime la potenza
operante di quella volontà, come la valutazione morale che ne esprime la norma;
cioè apparirà fondato su quell'Autorità il criterio stesso della valutazione.
Ma
lasciando ogni questione sulla legittimità delle postulazioni implicite in
questi processi costruitivi e sulla possibilità della loro sintesi, è facile
vedere come rimanga sempre inevitabilmente distinta e presupposta nel concetto
dell'autorità imperante la valutazione, che giustifica il comando, che
dà autorità al potere, che suggerisce l'identificazione di un Volere
onnipotente con un Volere legiferante; la valutazione data nella
coscienza morale, la quale rimane il postulato inespugnabile; non derivabile e
non superabile; anche dove è sottinteso e dove sembra, a primo aspetto,
derivato o subordinato.
Cosí
se il teologo ammonisce di non biasimare come ingiusto o cattivo ciò che la Provvidenza dispone o permette, non contrappone alla valutazione morale una valutazione
diversa, ma sostituisce e sovrappone alla «veduta corta d'una spanna» una
sapienza infinita la quale vede i fini remoti di quell'ordine che a noi rimane
occulto; e per il quale in realtà è bene quel che fuori di quell'ordine a noi
appare un male.
Ma
appunto il criterio di questa bontà è il criterio morale; ed è il non sapere
conciliare i fini apparenti con l'esigenza morale che induce l'opinione o la
certezza di fini ulteriori che si accordino con essa.
* * *
Dopo
quanto s'è detto riuscirà piú chiara l'analisi delle forme principali nelle
quali si presenta, e si è presentata storicamente, la dottrina del fondamento
autoritativo della morale.
Se la
distinzione tra il potere e l'esigenza morale che lo legittima non è superata,
come s'è visto, neppure quando si unificano i due termini nel concetto di
un'autorità che sia insieme irresistibilmente potente e indefettibilmente
morale, tanto piú manifesta sussisterà nelle forme in cui l'unificazione non è
posta, o l'adeguazione è incompleta.
Ma
restano, almeno all'apparenza, due vie: a) o negare ogni valore alla
coscienza morale come tale, e fondare ogni valutazione, sul potere che la pone
a suo arbitrio; b) o trasferire il criterio della valutazione morale
dalla coscienza personale a un'altra coscienza, impersonale o collettiva, la
cui autorità viene da qualche cosa di diverso che dal suo accordarsi totale o
parziale con la coscienza della persona.
a) Sulla prima tesi non c'è da osservare che questo:
Che
essa o non risponde alla domanda alla quale pretende di rispondere; perché non
è dire donde venga l'autorità della valutazione morale negarle ogni valore, per
riconoscere soltanto il potere che la impone, ma che potrebbe imporre il
contrario.
O non
toglie se non a parole la distinzione, che ritorna attraverso a qualsiasi
sottigliezza, tra l'arbitrio e la giustizia, tra la forza e il bene. E quando
il Callicle platonico condanna le leggi come un'imposizione dei molti ai pochi,
degli inetti e fiacchi agli ingegnosi e ai forti, egli deve,
per non contraddire se stesso, non escludere, ma includere nel suo biasimo un
criterio morale, un criterio superiore alla forza; poiché serve a giudicarla, a
distinguere quella degli ingegnosi, degli intelligenti, dei superiori, da
quella del numero; a riconoscere che v'è una forza che dovrebbe valere
di piú e che non è giusto sia sopraffatta dall'altra. Ma dunque non è piú la
forza che costituisce la giustizia?
E il
potere illimitato del Sovrano, al quale l'Hobbes riconduce ogni criterio di
morale e di diritto, esclude solo in prima istanza, cioè in apparenza, ogni
valutazione diversa: perché, come tutti sanno, l'arbitrio di questo potere è
legittimato da un'esigenza diversa; quella stessa per cui si suol riconoscere
che è meglio una legge cattiva che nessuna legge, e un governo tirannico che
nessun governo.
* * *
b) La seconda delle vie indicate conduce a far riconoscere
l'autorità morale come propria, o della collettività concepita come aggregato
dei singoli, o dello stato come distinto e superiore alle persone: sia come
organo della società ai cui fini sono subordinati i fini individuali, sia come
Volere universale al quale devono inchinarsi le volontà particolari.
Le due
tesi hanno, come è noto ed è facile capire, significato e valore diverso.
I) Se
la collettività è intesa come semplice aggregato e somma di singoli, non si può
evitare il criterio della maggioranza, cioè in ultimo della forza. Un giudizio
morale che non è valido se corrisponde alla valutazione di n-1
coscienze, diventa valido se quell'una cambia parere. È il criterio della
democrazia politica; di cui non si discute ora il valore come criterio politico
(cioè come criterio di preferenza tra i mezzi, non di giustizia tra i fini); ma
del quale nessuno riconosce sul serio il valore di criterio morale supremo; per
la stessa o analoga ragione per cui il buon senso non è il senso comune, e il
discorrere concludente di un solo vale piú che il chiacchierare sconclusionato
di cento; e per la quale la maggioranza dei votanti può bastare a fare una
legge ma non a farne riconoscere l'equità.
Ché se
l'autorità morale della valutazione collettiva vale in quanto essa esprime l'unanimità
dei singoli, e perciò serve a distinguere la sfera piú o meno ampia di
valutazioni in cui tutte le coscienze concordano, da quelle sulle quali
l'accordo sparisce, si riconoscono due cose: 1° che per ciascuna persona non vi
può essere autorità morale superiore a quella della propria coscienza; 2° che
la distinzione la quale può essere di importanza capitale per i rapporti tra
morale e politica, cioè tra norme etiche e norme giuridiche, non ha valore
morale se non a patto di essere fondata essa stessa su una distinzione di
valore apprezzata o apprezzabile (non importa ora cercar come) dalla coscienza
morale personale che la deve riconoscere.
Manca
dunque sempre il qualche cosa di diverso dalla coscienza personale, a
cui dovrebbe ricondursi l'autorità della coscienza collettiva.
* * *
II)
Quando si parla di fini della società diversi dai fini individuali, e di
coscienza sociale distinta dalla coscienza personale, si corre facilmente
nell'equivoco di opporre come separati, o, peggio ancora, precedenti l'uno
all'altro due termini correlativi; e si dimentica o si trascura di tener
presente che i fini della società non sono fini se non per gli esseri associati
che li concepiscono e li fan propri; e che la coscienza sociale non esiste e
non si rivela che nelle coscienze individuali; come, per converso, che i fini
individuali sono nello stesso tempo, o direttamente o indirettamente, fini
della società; e un certo grado di distinzione e differenziazione delle
coscienze individuali è correlativo a un grado corrispondente di coscienza
sociale.
Ciò
non significa negare il fattore sociale e le esigenze della socialità. Ma
significa che quando si parla di individui e di coscienza individuale, questo
individuo è già il socio; è esso, e nello stesso tempo la società
a cui appartiene; e la coscienza personale sua è insieme coscienza di sé
individuo e coscienza di altri e del tutto: ed è cosí legittimo dire che
esprime le esigenze dell'io di fronte a quelle della società, come dire che
esprime quelle della società di fronte a quelle dell'io.
Fatta
questa avvertenza, che non sarebbe a rigore necessaria per la discussione
presente, riesce meno strana l'affermazione che i valori sociali non sono
morali se non perché e in quanto sono sentiti e valutati come tali dalla
coscienza personale; e che dal punto di vista etico non è la società che dà
valore ai miei criteri morali, ma sono i miei criteri morali che danno valore
alla società.
La
socialità stessa, come tendenza e come esigenza, può essere ed è valutata alla
stregua della esigenza morale.
Derivare
la valutazione morale da fini sociali significa dunque derivarla da qualche
cosa il cui valore è giudicato e posto in grazia di quella stessa valutazione
che se ne vuol trarre.
Di che
si può trovare la prova in due considerazioni non difficili. La prima è questa:
che il giudizio sulla maggiore o minore eccellenza e dignità dei fini designati
come sociali e delle istituzioni, delle leggi, dei tipi di società, ammette o
sottintende postulati morali; e che non v'è riforma sociale piccola o grande
che non invochi e non debba affrontare il giudizio della coscienza morale.
Quella
stessa dottrina sociale (il marxismo) che formulò piú apertamente il proposito
del piú risoluto amoralismo per fondarsi su un rigoroso determinismo storico,
vede dissiparsi il suo bagaglio scientifico, e star saldo quel nocciolo di
idealità etiche per le quali professava in vista il piú aperto dispregio, e che
in realtà avevan dato l'anima alla dottrina e l'ali alla certezza.
L'altra
osservazione è questa; che appunto quel che vi è di vivo e di vitale e di durevole
nella fede («fede è sostanza di cose sperate») che prende il nome dal
socialismo, è sociale non nel fine, ma nel mezzo; mentre è, nel fine, e non
potrebbe non essere, suggerito e alimentato da un ideale morale che ha per
oggetto e per centro l'individuo, la unità personale umana. Poiché la proprietà
collettiva è concepita, attesa, voluta come condizione necessaria a rendere
effettiva la libertà di tutti, a far veramente di ogni individuo umano una
persona umana.
Che
poi quella sia la condizione necessaria, e che sia sufficiente; o che gli
effetti siano per essere diversi o opposti da quelli sperati, è tutt'altro
discorso.
La
vieta analogia biologica che fa degli individui le cellule dell'organizzazione
sociale, se anche rispondesse a verità per quel che riguarda le condizioni
dell'esistenza, dovrebbe sempre venir rovesciata nel rispetto della valutazione
morale. Perché soltanto nella cellula-individuo l'organismo-società acquista
coscienza di sé; e soltanto nella coscienza dell'individuo vale come organismo,
e per essa soltanto potrebbe acquistar valore di finalità riconosciuta e voluta
da lui come superiore a se stesso.
Né
concluderebbe il dire che non si tratta in ultimo che di un «punto di vista
diverso»; e che, se dal punto di vista dell'individuo i valori sociali sono
valori individuali, dal punto di vista della società è vero l'inverso: perché
la coscienza che pone i valori sociali, e che giudica e valuta dal «punto di
vista» sociale, che funge da coscienza sociale, è ancora, sempre,
inevitabilmente, una coscienza individuale.
* * *
Più
breve discorso è da fare per il proposito nostro, della dottrina assai piú
sottile e complicata che concentra ogni autorità e ogni finalità sociale nello
stato e fa dello stato l'organo dell'Eticità. Perché in quanto la volontà dello
stato sovrano si identifica col Volere universale cioè col volere morale, non
c'è che da ripetere quel che si è detto sopra a proposito dell'identificazione
del Volere-potere col Volere-valutazione. Ciò che fa essere lo stato arbitro della
valutazione, e l'autorità dei suoi comandi criterio supremo dei valori morali,
è questa affermata identità del Volere dello stato col Volere morale che si
viene attuando nella Storia.
Le
difficoltà che possono nascere dagli sforzi di conciliare lo stato com'è con lo
stato com'è concepito, e di interpretare i processi reali del suo divenire
storico come momenti di attuazione dello Spirito universale cioè del Volere
morale, rimangono estranee al punto in questione; il quale è questo: che il
valore etico dello stato nasce dall'essere esso e esso solo l'organo adeguato
di quel Volere universale, il quale è lo stesso Volere etico, che informa di sé
la coscienza personale e si fa valere in essa.
Cosi
qualunque sia il Potere e qualunque il Volere a cui si voglia ricondurre
l'autorità della coscienza morale, sempre si trova dietro a quel Potere e
dietro a quella Volontà, inevitabilmente dato o presupposto, quel valore morale
che legittima il primo e dà autorità al secondo; come dietro la firma dell'uomo
d'affari sia, non vista e non detta, ma sottintesa, la ricchezza reale o
supposta, che fa della sua cambiale un valore.
* * *
Ma se
l'autorità della valutazione morale non è derivabile da nessun'altra autorità
superiore diversa da quella della coscienza personale, bisogna ammettere: o che
le valutazioni morali delle diverse coscienze coincidano totalmente, cioè che
le coscienze personali non siano che copie o esemplari di una medesima
coscienza morale che si esprime per mille voci uguali di tono e di contenuto; o
altrimenti che si trovi, nella natura stessa dei valori morali, posta, insieme
con la esigenza dell'accordo rispetto ad alcuni, quella della differenza e
dell'opposizione rispetto ad altri valori.
E in
questo caso al problema della fondazione storica e della fondazione consensuale
della valutazione morale si sostituisce l'altro problema: Quali sono i valori
morali nel cui riconoscimento l'autorità dell'induzione storica e l'autorità
del consenso universale coincidono con quella della coscienza personale?
E in
che cosa differiscono dai valori morali per i quali manca tale accordo?
È
legittima, e perché ed entro quali limiti, una subordinazione (che in ogni caso
non potrebbe né in fatto né in diritto estendersi all'atteggiamento interiore,
ma valere soltanto rispetto alle manifestazioni esteriori) dei secondi ai
primi?
E del
pari si trasforma il problema sul fondamento del dovere.
Il
dovere non riguarda, come s'è visto, il valutare, ma il conformare la condotta
alla valutazione; e suppone il rapporto tra due volontà distinte o concepite
come distinte, tra un volere presente e momentaneo che si rivela nella
volizione attuale e concreta, e il volere dell'io persona, il Volere valutante
o normativo, che le dà unità. Se l'io momentaneo o contingente è dominato totalmente
e assorbito dall'io persona, e il Volere operante si identifica col Volere
valutante, il dovere si attenua e svanisce perché sparisce il termine
subordinato; se il Volere valutante manca e l'io non è che aggregato temporaneo
e variabile di impulsi e di tendenze accidentali, il dovere non sorge perché
manca il termine subordinante.
Il
problema del dovere è perciò il problema di questo rapporto, e delle difficoltà
che nascono, sia dal concepire il Volere operante come uno e identico col
Volere valutante; sia dal concepirlo come distinto e diverso; sia infine dal
concepire, secondo importa la necessità di una conciliazione, le due volontà
come distinte e diverse nell'uomo individuo, ma come una e identica in un
Potere soprapersonale del quale il valore morale esprime la legge nella
coscienza individuale.
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