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Erminio Juvalta
Il vecchio e il nuovo problema della morale

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  • Parte seconda LA PLURALITÀ DEI CRITERI MORALI
    • Capitolo Primo IL CRITERIO FORMALE DI VALUTAZIONE DEL KANT
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Parte seconda

LA PLURALITÀ DEI CRITERI MORALI


Capitolo Primo

IL CRITERIO FORMALE DI VALUTAZIONE DEL KANT

 

L'indipendenza e l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale; o, che torna lo stesso: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si riconduce la valutazione morale.

Bisogna dunque cercare prima di tutto se questa soluzione sia veramente esauriente. Ma giova intanto avvertire subito, per evitare le facili confusioni e gli equivoci indotti da connessioni abituali di idee e di dottrine, che la indeducibilità dei valori morali, come non implica necessariamente i principi e i procedimenti tenuti dal Kant nel riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche per altra via), cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si ricusino le conclusioni alle quali si arriva.

La connessione fra le diverse tesi che si raccolgono attorno alla autonomia kantiana può essere, anzi veramente è, nel suo pensiero una connessione necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e fuori del sistema di dottrine che lo esprime.

Cosí il «primato della ragione pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non è una conseguenza logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé dei valori morali; benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi riconosce questa indipendenza e validità.

Ciò che si presenta come conseguenza di questo riconoscimento è il problema della conciliazione tra le esigenze della speculazione teoretica e le esigenze della valutazione morale; del qual problema il primato della ragion pratica esprime una soluzione o traccia la via per la quale il Kant l'ha cercata.

 

* * *

 

Ma veniamo al punto che ci interessa. Il concetto fondamentale dal quale il Kant prende le mosse è, come è noto, quello del volere buono.

Il volere buono è il volere che si determina non per un oggetto, qualunque esso sia, che abbia un valore di fine per chi lo vuole (motivo «patologico»), ma per il dovere: cioè per il rispetto alla legge perché è legge; non già in vista di quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze che il volere conforme alla legge apporta.

Il rispetto della legge in quanto è legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è dunque il rispetto di ciò che la fa esser legge, della sua validità universale.

L'universalità è la forma della ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la ragione stessa in quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica.

Se l'uomo fosse pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile soggetto a tendenze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo, e non si potrebbe parlare di dovere. Invece il dovere c'è perché c'è l'esigenza di conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di qualunque specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità, che è la forma della volontà razionale.

Il criterio supremo della moralità è perciò espresso nella nota prima formula dell'imperativo categorico, di cui si dice piú sotto.

 

* * *

 

Come si deve intendere quella universalità? E basta essa ed essa soltanto a fornire la caratteristica della valutazione etica, a distinguere ciò che vale moralmente da ciò che non vale?

Quando la prima formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima che tu puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge universale», — questa possibilità di voler che la massima diventi legge universale può esser presa in due significati diversi.

Può voler dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della medesima osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza contraddizione come legge universalmente valida;

o può significare invece la possibilità che il valore universale della massima sia riconosciuto senza che questo riconoscimento contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già ammesso, di un principio piú generale; ossia che si possa volere l'universale validità della massima senza disvolere l'universalità di una massima piú generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come legge.

I due significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a prima vista che coincidano. Che, negli esempi che e nei commenti con cui li accompagna, lo stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne oscuri le differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il vero significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo.

1. Se s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che:

a) non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto che sia seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il valore morale; come per converso:

b) può darsi che di una massima di condotta non sia possibile l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca l'immoralità.

a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli addotti dallo stesso Kant (il della Fondazione) in sostegno del criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che preferisce il darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali (dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti seguano quella medesima massima, sebbene questo non importi nessun riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopenhauer contro il Kant) della ragione del piú forte.

Anche qui è possibilissimo ammettere che dappertutto dove vi è un forte di fronte al debole il primo sopraffaccia il secondo, cioè che la subordinazione del debole al forte sia fatta valere universalmente come legge, senza che perciò se ne ammetta la moralità.

b) Per converso, tra le massime che non possono pensarsi universalmente osservate senza contraddizione vi sono non solo massime comunemente riconosciute come immorali, per esempio, che ciascuno possa appropriarsi l'altrui, ma anche massime come l'opposta: che ciascuno ceda il proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se non gli economisti, almeno San Francesco e i suoi ammiratori non metteranno in dubbio la santità.

Ed è manifestamente del pari impossibile pensare universalmente praticate cosí la seconda come la prima.

2. Ben diverso è il secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità di universalizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità o l'incompatibilità di questa universalizzazione della massima con la volontà che la pone.

Senonché questa incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame alla forma negativa che è anche la piú importante) può esprimere due specie diverse di contrasto: può voler dire che universalizzando la massima si viene a togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra massima che già vale, o si ammette che valga o debba valere per la volontà, come legge universale.

I due casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire facilmente con esempi.

2'. Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte a un debole lo costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia prepotenza con la massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se il motivo, che mi ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico, accadrà che in nome di questo stesso interesse io dovrò negare la massima quando le vicende facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi.

Ossia la massima non può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò la possibilità che sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in grazia del quale l'ho accolta.

2''. Se si suppone invece che io riconosca essere nella forza il fattore di ogni elevazione morale, e nell'esercizio incondizionato di essa il valore morale piú alto, la massima della prepotenza che approvo quando il piú forte sono io, dovrà essere parimente approvata — anche se hic et nunc mi dispiaccia — quando il piú forte sia altri; e l'universalità della massima potrà esser voluta senza contraddizioni, perché si accorda con il mio supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di valutazione; ossia perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta dal mio volere come legge universale11.

Il significato nel quale è preso dal Kant il criterio della universalizzazione, è, come si è detto, il secondo; e propriamente quella forma del secondo che risponde all'ultimo dei casi ora esaminati (2").

Né potrebbe cadere sotto qualsiasi altra la considerazione, che è la sola veramente decisiva, fatta da lui per provare che non potrebbe essere universalizzata la massima proposta nel esempio, già citato, dell'uomo che ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza dubbio una natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora sussistere, anche quando l'uomo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a volgere la sua vita verso l'ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il godimento; ma egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge universale della natura e che ciò sia innato in noi come istinto naturale. Perché come essere ragionevole egli vuole necessariamente che tutte le facoltà siano sviluppate in lui». (Fondazione, Parte II).

La medesima considerazione è ripetuta a proposito dall'altro esempio (il ) in cui si fa l'ipotesi del brav'uomo, che si propone di non far del male a nessuno, ma quanto all'adoperarsi nei bisogni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio per tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una legge universale della natura conforme a quella massima, è impossibile di volere che un tale principio valga come legge della natura»12.

 

* * *

 

Per il Kant dunque l'universalità della massima non è criterio della sua bontà e del valore morale della volontà che vi si conforma, se non perché essa è una prova dell'accordarsi della massima seguita nell'azione con la natura dell'essere ragionevole, con la legge posta dalla Ragione, che è la legge stessa morale13. Soltanto intesa cosí la formula (la 3a della Fondazione) della volontà di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo delle sue massime una legislazione universale, o nei termini della Critica della ragion pratica (op. cit., p. 30): «Opera in modo che la massima del tuo volere possa valere insieme come principio di una legislazione universale»; e coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi morali e dei doveri conformi ad esse (op. cit., p. 33). E soltanto cosí si può intendere come egli creda di derivare dall'universalità la formula famosa e piú feconda (ma feconda in quanto un contenuto all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma): «Opera in modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo».

Ma intesa cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza: dell'universale conformità delle massime alla ragione, alla legge morale, al volere puro come principio di una legislazione universale, vale a dire, alla legge morale; e della universale validità delle massime come comandi, cioè dell'universalità del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime, né dalla universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare quali sono i modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge universale che la volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa.

 

Se ora vogliamo, e possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia kantiana e servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo raccogliere e completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú chiara.

 

* * *

 

I valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»).

Ma la ragione per quanto si faccia non valori; la ragione esige o impone la coerenza; teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le valutazioni direttamente date o postillate, e delle azioni con le valutazioni. Non dunque le valutazioni, sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche per questo rispetto, l'ufficio di confronto, riduzione, subordinazione, unificazione che le è proprio.

Non è meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà con se stessa; esigenza necessaria e caratteristica di ogni uomo che sia persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la smentiamo, ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a noi stessi della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come persona. Ma essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali sono i valori sui quali si fonda e ai quali deve far capo l'esigenza unificatrice della coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio delle conoscenze, i riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito, i valori fondamentali sono dati dalla volontà; né si può derivarne la natura dalla natura della trama; né dal disegno della tela.

 

* * *

 

Né maggior luce può venire dalla Volontà come il Kant la concepisce; né dal concetto del Volere puro né da quello del Volere buono.

Il Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio come s'è detto, di ogni impulso sensibile, e capace di volere i valori morali per sé, non può esser per lui che il Volere che vuole la ragione, la ragione stessa in quanto è pratica, in quanto è forma legislatrice, e non che questa medesima universalità.

Quanto al concetto del Volere buono, esso aggiunge bensì alla nota dell'universalità (rispetto della legge perché è legge) la nota dell'obbligatorietà (un'azione è buona quando è compiuta per il dovere); ma questa nota è possibile nel volere buono soltanto in causa del conflitto tra il rispetto della legge morale — col quale si identificherebbe per sé il volere puro — e gli impulsi sensibili.

È dunque un carattere che riguarda la moralità, non la valutazione morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia dei valori morali in confronto degli altri valori; ma non dice in che consistano i valori, né donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità della legge). In ogni caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo empirico, la ratio cognoscendi della legge, sta però nella legge la ragion d'essere del dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che i valori morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né sapere perché meritano che si debba attuarli.

Che debbano essere scritti con la iniziale maiuscola tutti i sostantivi che viene imparando, potrebbe anche essere per uno scolaro tedesco il criterio per distinguerli come tali dalle altre voci del discorso; ma non è l'obbligo di scriverli con l'iniziale maiuscola che li fa essere e diventare sostantivi.

 

* * *

 

Resta da esaminare la forma che il criterio di valutazione assume nella 2a delle note formule; quella in cui si assegna alla legge un contenuto cioè un fine; e il rispetto della legge perché legge, diventa rispetto dell'umanità o della persona umana come fine in sé.

Ma è facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima formula, o è veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di piú di quella onde è dedotta; o assume davvero un contenuto, e questo costituisce per sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da cui si pretende dedurlo.

Il quale non si esaurisce piú nell'universalità della valutazione morale ma richiede un riferimento agli oggetti della valutazione; ed è un criterio non piú formale soltanto, ma anche materiale. Se, anche inteso cosí, sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú innanzi.

Il termine che media il passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come fine è il rispetto della natura ragionevole.

— Poiché la legge è la ragione, il rispetto della legge, cioè della ragione, importa il rispetto dell'essere ragionevole, come tale; della natura di essere ragionevole e della persona umana nella quale si manifesta a noi questa natura.

 

Si potrebbe già discutere, a rigore, sulla legittimità di passare dal rispetto della ragione al rispetto di una natura ragionevole, perché ciò che impone rispetto nella ragione è secondo il Kant la sua forma legislatrice e non il soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui si realizza questa forma.

Tuttavia, finché si pensa l'essere ragionevole come puramente tale cioè come costituito di sola ragione ed esaurientesi in essa, il passaggio si riduce in fondo ad una ipostasi, e il contenuto non muta. Ma quando si deve venire all'uomo, il trapasso è ben diverso. L'uomo è essere ragionevole, ma non tutto, e non soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto della persona umana, si intende rispetto di tutta la persona in quanto nella persona si rivela una coscienza uno spirito (che la comprende , ma è ben lungi dall'esaurirsi nella ragione), oppure si intende la persona in quanto è essa stessa ragione e null'altro, cioè in quel che ha di universale, di medesimo in tutti gli uomini, di (come si dice, sebbene il dirlo qui paia un bisticcio) impersonale?

Non c'è che da ripetere quel che s'è detto già; dall'assumere come fine questa persona-ragione vuota di ogni altro contenuto non si ricava altro criterio che sempre e ancora il rispetto della ragione come tale.

E solo verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla persona, soltanto per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con ogni altra persona e non anche per quel che vi è di proprio originale, individuale e irriducibile, non si assomigli all'inchinarsi davanti a un apparecchio telefonico per il rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso risuona.

Oppure si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale) conferisce dignità all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che essa ordina e fonde nella unità inscindibile del medesimo e del diverso, del comune e del proprio, dell'universale e dell'individuale; che non la ragione, ma lo spirito umano nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza vivente in ogni persona merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si può parlare di un contenuto che non si esaurisce nella forma.

Ma è troppo evidente che inteso cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal rispetto alla ragione e alla legge perché legge.

Intesa cosí la persona umana, essa non è piú l'universalità vuota e astratta di una legge fine a se stessa, ma è la sorgente di quei valori morali dei quali la «ragione» constata la universale validità e la riconosciuta sovranità sugli altri valori, mette in luce le esigenze, determina le condizioni di attuabilità; (e potrà poi indagare se e come tali esigenze e condizioni si possano conciliare con quelle degli altri ordini di valori e in particolare con quello del sapere); di quei valori morali che il «Volere puro» pone in forma di legge, e il «Volere buono» attua in forma di doveri.

 

* * *

 

Che per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la pura forma della ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere e forme di attività, e che il Volere ragionevole non riconosca come valore morale soltanto la conformità alla forma della ragione, ma la conservazione l'incremento l'esercizio di queste altre facoltà e attività spirituali, appare in forma tipicamente significativa nel commento già riferito sopra con l'esempio (il della Fondazione) a cui si riferisce: «Come essere ragionevole egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano sviluppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni sorta di fini possibili».

Questo volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il volere autonomo, morale, è dunque il volere che vuole «necessariamente» lo sviluppo di tutte le facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che il contenuto sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza contestazione come fini di un volere buono cioè come valori morali14.

E appare manifesto che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio puramente formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto, i fini dell'operare morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto loro, i doveri. E risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione dell'operare è veramente buona, che un atto è veramente morale? ma non alla domanda: quali sono le azioni, in cui questa buona intenzione si deve tradurre; quali sono i fini a cui il volere buono deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella cui attuazione fatta con purità di volere consiste la moralità?

Alla quale domanda si presume dunque che la risposta sia già data dalla coscienza morale. E la risposta è data infatti, e non può esser data, che da lei.

Ma se la risposta non fosse univoca?

Se, supposto pari in due coscienze il rispetto della legge, la legge comandasse all'una quel che vieta o non comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il contrasto tra le due leggi il sapere che il volere è buono quando si determina per rispetto alla legge, e che la moralità consiste nel compiere il dovere per il dovere?






11 Con quel che risulta evidente da questa ipotesi si accorda il fatto assai notevole della profonda diversità di valore che può assumere nel nostro giudizio morale la medesima regola pratica, secondoché noi vediamo dietro di essa un motivo soprasoggettivo e impersonale (anche se contrario al nostro criterio di valutazione) o un motivo soggettivo e personale; a seconda che ci appare una massima accettata veramente da chi opera come norma, o un comodo pretesto o compromesso del momento; cioè a seconda che vi si trova o no quella condizione necessaria, se non sufficiente, del carattere morale, che è la coerenza dei giudizi tra di loro e delle azioni coi giudizi.



12 La ragione di natura egoistica che Kant fa seguire può valere tutt'al più come un tentativo poco felice di giustificare la simpatia dal punto di vista dell'interesse individuale, ma non varrebbe per sé in alcun modo a dimostrare l'impossibilità di volere di cui si parla, se non a patto di identificare (pericolo forse non avvertito) il volere dell'uomo «come essere ragionevole» col volere del «caro Io».

(Il corsivo delle parole sottolineate in questa e nella citazione precedente è mio, tranne per la parola volere spazieggiata).

Cito per la Fondazione della metafisica dei costumi la bella traduzione del Vidari (Pavia, Mattei Speroni e C., 1910); per la Critica della ragion pratica mi riferisco al testo originale nella edizione della R. Accademia di Prussia (Kant's Gesammelte Schriften, vol. V, G. Reimer, Berlin, 1908).



13 Kritik der praktischen Vernunft, I, 1, 1, §. 7, Folg. p. 31



14 E che veramente si sottintendano come già noti e riconosciuti è confermato all'evidenza dall'analisi di ciò che costituisce veramente il presupposto fondamentale non solo di quella citata ma dalle altre esemplificazioni; con le quali si prova — non già, come s'è visto, l'impossibilità per sé di universalizzare — ma l'impossibilità di volere che una tal massima valga come universale.

Infatti la ragione per la quale non si può erigere a massima universale il principio che chi è stanco della vita può uccidersi ( esempio) non è già l'impossibilità di concepire seguíta una tal massima da tutti quelli che sono stanchi della vita, ma l'impossibilità di volere che sia riconosciuta e adottata; perché essa implica che si affermi la superiorità del piacere sui valori morali (dei quali la vita è condizione); mentre, appunto perché li riconosciamo come morali, affermiamo e vogliamo il contrario.

Così nel secondo, il dato contro cui urta la universalizzazione della massima — che sia lecito promettere con l'intenzione di non mantenere — è la superiorità sottintesa della sincerità e della lealtà sull'interesse egoistico; e la conseguente impossibilità di volere che cessi di essere riconosciuta universalmente quella superiorità di cui noi siamo certi.

Del terzo esempio si è detto, e si è accennato anche al quarto; nel quale ultimo è sottinteso manifestamente il valore della simpatia e della benevolenza, che non possiamo ammettere sia subordinato al valore della propria quiete o dei propri comodi.





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