L'indipendenza
e l'indeducibilità dei grandi valori morali da qualsiasi speculazione teoretica
fu, come tutti sanno, riconosciuta e affermata, nella forma piú esplicita e con
grandissimo vigore dal Kant. Perciò le conclusioni riassunte nell'ultimo
capitolo sembrano mettere capo alla sua dottrina e alla soluzione data da lui
al problema che l'analisi precedente pone come il problema veramente centrale
dell'etica: quale sia il dato o quali siano i dati indeducibili della morale;
o, che torna lo stesso: quale sia il criterio (o quali i criteri) a cui si
riconduce la valutazione morale.
Bisogna
dunque cercare prima di tutto se questa soluzione sia veramente esauriente. Ma
giova intanto avvertire subito, per evitare le facili confusioni e gli equivoci
indotti da connessioni abituali di idee e di dottrine, che la indeducibilità
dei valori morali, come non implica necessariamente i principi e i procedimenti
tenuti dal Kant nel riconoscerla (poiché vi si giunge, come abbiam visto, anche
per altra via), cosí non richiede, per sé, né che si accettino né che si
ricusino le conclusioni alle quali si arriva.
La
connessione fra le diverse tesi che si raccolgono attorno alla autonomia
kantiana può essere, anzi veramente è, nel suo pensiero una connessione
necessaria, ma non è necessaria fuori di esso e fuori del sistema di dottrine
che lo esprime.
Cosí
il «primato della ragione pratica» nella soluzione dei problemi metafisici non
è una conseguenza logicamente inevitabile della indipendenza e validità per sé
dei valori morali; benché possa essere e sia anzi facilmente accolta da chi
riconosce questa indipendenza e validità.
Ciò
che si presenta come conseguenza di questo riconoscimento è il problema della
conciliazione tra le esigenze della speculazione teoretica e le esigenze della
valutazione morale; del qual problema il primato della ragion pratica esprime una
soluzione o traccia la via per la quale il Kant l'ha cercata.
* * *
Ma
veniamo al punto che ci interessa. Il concetto fondamentale dal quale il Kant
prende le mosse è, come è noto, quello del volere buono.
Il
volere buono è il volere che si determina non per un oggetto, qualunque esso
sia, che abbia un valore di fine per chi lo vuole (motivo «patologico»), ma per
il dovere: cioè per il rispetto alla legge perché è legge; non già in vista di
quel che la legge comanda, ossia delle conseguenze che il volere conforme alla
legge apporta.
Il
rispetto della legge in quanto è legge, astrazione fatta dal suo contenuto, è
dunque il rispetto di ciò che la fa esser legge, della sua validità
universale.
L'universalità
è la forma della ragione che si pone come esigenza del volere puro; è la
ragione stessa in quanto si manifesta come volontà, è la ragione pura pratica.
Se
l'uomo fosse pura ragione, cioè se non fosse insieme un essere sensibile
soggetto a tendenze, a impulsi di altre specie, il suo volere sarebbe santo,
e non si potrebbe parlare di dovere. Invece il dovere c'è perché c'è l'esigenza
di conformare l'azione alla ragione e non agli impulsi della sensibilità. E il
volere buono e appunto il volere che posto fra la legge e quegli impulsi — di
qualunque specie siano — si determina per la legge, cioè per l'universalità,
che è la forma della volontà razionale.
Il
criterio supremo della moralità è perciò espresso nella nota prima formula
dell'imperativo categorico, di cui si dice piú sotto.
* * *
Come
si deve intendere quella universalità? E basta essa ed essa soltanto a fornire
la caratteristica della valutazione etica, a distinguere ciò che vale
moralmente da ciò che non vale?
Quando
la prima formula dell'imperativo dice: «Opera soltanto secondo quella massima
che tu puoi volere nello stesso tempo che diventi una legge
universale», — questa possibilità di voler che la massima diventi
legge universale può esser presa in due significati diversi.
Può
voler dire la possibilità che sia seguita universalmente senza che
l'osservanza da parte degli uni tolga o impedisca o limiti la possibilità della
medesima osservanza da parte degli altri; la possibilità di pensarla senza
contraddizione come legge universalmente valida;
o può
significare invece la possibilità che il valore universale della
massima sia riconosciuto senza che questo riconoscimento
contraddica o neghi il valore, che è o si suppone già ammesso, di un principio
piú generale; ossia che si possa volere l'universale validità
della massima senza disvolere l'universalità di una massima piú
generale che la comprende, e si suppone che già sia o debba essere ammessa come
legge.
I due
significati sono profondamente diversi, sebbene possa parere a prima vista che
coincidano. Che, negli esempi che dà e nei commenti con cui li accompagna, lo
stesso Kant non mescoli qualche volta i due sensi e non ne oscuri le
differenze, non oserei negare; ma non parmi si possa dubitare che il vero
significato inteso e voluto da lui sia il secondo e non il primo.
1. Se
s'intende l'universalità nel primo senso bisogna riconoscere che:
a) non soltanto si può concepire, ma può darsi in effetto
che sia seguita universalmente, una massima senza che perciò se ne ammetta il
valore morale; come per converso:
b) può darsi che di una massima di condotta non sia possibile
l'osservanza universale senza che perciò se ne riconosca l'immoralità.
a) Come esempi del primo caso basta citare uno di quelli
addotti dallo stesso Kant (il 3° della Fondazione) in sostegno del
criterio dell'universalità: l'esempio dell'uomo d'ingegno che preferisce il
darsi buon tempo alla fatica di esercitare e perfezionare le sue doti naturali
(dove è chiaro che non vi è nessuna impossibilità di concepire che tutti
seguano quella medesima massima, sebbene questo non importi nessun
riconoscimento di valore morale); e quello (addotto dallo Schopenhauer contro
il Kant) della ragione del piú forte.
Anche
qui è possibilissimo ammettere che dappertutto dove vi è un forte di fronte al
debole il primo sopraffaccia il secondo, cioè che la subordinazione del debole
al forte sia fatta valere universalmente come legge, senza che perciò se ne
ammetta la moralità.
b) Per converso, tra le massime che non possono pensarsi
universalmente osservate senza contraddizione vi sono non solo massime
comunemente riconosciute come immorali, per esempio, che ciascuno possa
appropriarsi l'altrui, ma anche massime come l'opposta: che ciascuno ceda il
proprio a vantaggio d'altri. Della quale, se non gli economisti, almeno San
Francesco e i suoi ammiratori non metteranno in dubbio la santità.
Ed è
manifestamente del pari impossibile pensare universalmente praticate cosí la
seconda come la prima.
2. Ben
diverso è il secondo significato; per il quale la possibilità o l'impossibilità
di universalizzare la massima non riguarda l'osservanza, ma la compatibilità
o l'incompatibilità di questa universalizzazione della massima con la volontà
che la pone.
Senonché
questa incompatibilità (restringo, per semplificare, l'esame alla forma
negativa che è anche la piú importante) può esprimere due specie diverse di
contrasto: può voler dire che universalizzando la massima si viene a
togliere la ragione per la quale si è accolta, ossia a negare il motivo
stesso che la giustifica; oppure che si nega il valore di un'altra
massima che già vale, o si ammette che valga o debba valere per la
volontà, come legge universale.
I due
casi debbono essere considerati a parte e si possono chiarire facilmente con
esempi.
2'.
Supponiamo che oggi io, piú forte, trovandomi di fronte a un debole lo
costringa a fare il piacer mio, e che giustifichi la mia prepotenza con la
massima che il forte ha diritto di soggiogare il debole. Se il motivo, che mi
ha indotto a formulare la massima è l'interesse egoistico, accadrà che in nome
di questo stesso interesse io dovrò negare la massima quando le vicende
facciano di me, del piú forte di ieri, il debole di oggi.
Ossia
la massima non può essere universalizzata, senza che venga posta con ciò la
possibilità che sia negato il principio (cioè il motivo o l'interesse) in
grazia del quale l'ho accolta.
2''.
Se si suppone invece che io riconosca essere nella forza il fattore di ogni
elevazione morale, e nell'esercizio incondizionato di essa il valore morale piú
alto, la massima della prepotenza che approvo quando il piú forte sono io,
dovrà essere parimente approvata — anche se hic et nunc mi
dispiaccia — quando il piú forte sia altri; e l'universalità della massima
potrà esser voluta senza contraddizioni, perché si accorda con il mio
supremo criterio morale (che è quanto dire universale) di valutazione; ossia
perché è una forma subordinata di un'altra massima già posta dal mio volere
come legge universale11.
Il
significato nel quale è preso dal Kant il criterio della universalizzazione, è,
come si è detto, il secondo; e propriamente quella forma del secondo che
risponde all'ultimo dei casi ora esaminati (2").
Né
potrebbe cadere sotto qualsiasi altra la considerazione, che è la sola
veramente decisiva, fatta da lui per provare che non potrebbe essere
universalizzata la massima proposta nel 3° esempio, già citato, dell'uomo che
ha ingegno e rinuncia a coltivarlo. «Egli vede bene che senza dubbio una
natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora
sussistere, anche quando l'uomo (come l'abitatore del Mar del Sud) lasciasse
arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a volgere la sua vita verso
l'ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il
godimento; ma egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge universale
della natura e che ciò sia innato in noi come istinto naturale. Perché come essere
ragionevole egli vuole necessariamente che tutte le facoltà siano
sviluppate in lui». (Fondazione, Parte II).
La
medesima considerazione è ripetuta a proposito dall'altro esempio (il 4°) in cui
si fa l'ipotesi del brav'uomo, che si propone di non far del male a nessuno, ma
quanto all'adoperarsi nei bisogni altrui è del parere: ciascuno per sé, e Dio
per tutti. «Quantunque sia possibile che sussista una legge universale
della natura conforme a quella massima, è impossibile di volere che un
tale principio valga come legge della natura»12.
* * *
Per il
Kant dunque l'universalità della massima non è criterio della sua bontà e del
valore morale della volontà che vi si conforma, se non perché essa è una prova
dell'accordarsi della massima seguita nell'azione con la natura dell'essere
ragionevole, con la legge posta dalla Ragione, che è la legge stessa
morale13. Soltanto intesa cosí la formula (la 3a della Fondazione)
della volontà di ogni essere ragionevole che istituisce per mezzo delle sue
massime una legislazione universale, o nei termini della Critica della
ragion pratica (op. cit., p. 30): «Opera in modo che la massima
del tuo volere possa valere insieme come principio di una legislazione
universale»; e coll'autonomia del volere come principio di tutte le leggi
morali e dei doveri conformi ad esse (op. cit., p. 33). E soltanto
cosí si può intendere come egli creda di derivare dall'universalità la formula
famosa e piú feconda (ma feconda in quanto dà un contenuto
all'universalità, non in quanto semplicemente ne riceve la forma): «Opera in
modo da trattare l'umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro,
sempre ad un tempo come fine e non mai soltanto come mezzo».
Ma intesa
cosí l'universalità, essa non esprime che una doppia esigenza: dell'universale
conformità delle massime alla ragione, alla legge morale, al volere puro come
principio di una legislazione universale, vale a dire, alla legge morale; e
della universale validità delle massime come comandi, cioè dell'universalità
del dovere. Ma né dall'universale imperatività delle massime, né dalla
universale loro conformità alla legge morale è possibile ricavare quali
sono i modi di operare che le massime impongono, quale sia la legge
universale che la volontà per mezzo delle sue massime pone a se stessa.
Se ora
vogliamo, e possiamo ormai farlo legittimamente, uscire dalla terminologia
kantiana e servirci dei termini usati nella parte precedente, possiamo
raccogliere e completare l'analisi del criterio kantiano in una forma forse piú
chiara.
* * *
I
valori morali sono valori riconosciuti dalla pura ragione, valori che esprimono
la volontà dell'uomo in quanto è essere ragionevole. La esigenza caratteristica
sentita profondamente dal Kant, che i valori morali siano superiori ed estranei
ad ogni interesse egoistico, e apprezzati e voluti per sé, indipendentemente da
ogni considerazione delle loro conseguenze, lo spinge (poiché la volontà come
potenza pratica gli sembra inevitabilmente legata a tendenze e impulsi
sensibili, a fini, cioè a rappresentazioni di conseguenze valutabili solo in
rapporto alla sensibilità del soggetto) a fare dei valori morali degli enti di
ragione, a trarli dalla ragione pura, a fare della ragione pura la ragione
pratica («la ragione pura è per se stessa pratica»).
Ma la
ragione per quanto si faccia non dà valori; la ragione esige o impone la coerenza;
teorica: dei giudizi fra di loro e con i principi e i dati su cui si
fondano; pratica: delle valutazioni derivate e mediate con le
valutazioni direttamente date o postillate, e delle azioni con le valutazioni.
Non dà dunque le valutazioni, sebbene sia tutt'altro che trascurabile, anche
per questo rispetto, l'ufficio di confronto, riduzione, subordinazione,
unificazione che le è proprio.
Non è
meraviglia che a voler cavare, da essa soltanto, i valori morali, non se ne
estragga in ultimo che questa esigenza di una universale coerenza della volontà
con se stessa; esigenza necessaria e caratteristica di ogni uomo che sia
persona, perché sottintesa, affermata, voluta (anche quando coi fatti la
smentiamo, ma sempre a malincuore) costantemente, come prova e testimonianza a
noi stessi della unità spirituale, della esistenza e continuità dell'io come persona.
Ma essa per sé non ci dice né che cosa sono i valori, né quali
sono i valori sui quali si fonda e ai quali deve far capo l'esigenza
unificatrice della coerenza. La ragione appresta, scegliendoli dal groviglio
delle conoscenze, i riti adatti a fornir la trama dell'ordito. Ma i fili dell'ordito,
i valori fondamentali sono dati dalla volontà; né si può derivarne la
natura dalla natura della trama; né dal disegno della tela.
* * *
Né
maggior luce può venire dalla Volontà come il Kant la concepisce; né dal
concetto del Volere puro né da quello del Volere buono.
Il
Volere puro, il Volere autonomo, il Volere spoglio come s'è detto, di ogni
impulso sensibile, e capace di volere i valori morali per sé, non può esser per
lui che il Volere che vuole la ragione, la ragione stessa in quanto è pratica,
in quanto è forma legislatrice, e non dà che questa medesima universalità.
Quanto
al concetto del Volere buono, esso aggiunge bensì alla nota dell'universalità
(rispetto della legge perché è legge) la nota dell'obbligatorietà (un'azione è
buona quando è compiuta per il dovere); ma questa nota è possibile nel volere
buono soltanto in causa del conflitto tra il rispetto della legge morale — col
quale si identificherebbe per sé il volere puro — e gli impulsi sensibili.
È
dunque un carattere che riguarda la moralità, non la valutazione
morale, e che esprime il pregio la eccellenza la supremazia dei valori morali
in confronto degli altri valori; ma non dice in che consistano i valori, né
donde nasca questa eccellenza (se non dall'universalità della legge). In ogni
caso anche se il dovere è, nella conoscenza dell'uomo empirico, la ratio cognoscendi della legge, sta però nella legge la ragion d'essere
del dovere e non nel dovere la ragion d'essere della legge. Sapere che i valori
morali debbono essere attuati non è sapere in che consistono, né sapere perché
meritano che si debba attuarli.
Che
debbano essere scritti con la iniziale maiuscola tutti i sostantivi che viene
imparando, potrebbe anche essere per uno scolaro tedesco il criterio per
distinguerli come tali dalle altre voci del discorso; ma non è l'obbligo di
scriverli con l'iniziale maiuscola che li fa essere e diventare sostantivi.
* * *
Resta
da esaminare la forma che il criterio di valutazione assume nella 2a
delle note formule; quella in cui si assegna alla legge un contenuto cioè un
fine; e il rispetto della legge perché legge, diventa rispetto dell'umanità
o della persona umana come fine in sé.
Ma è
facile vedere come questa pretesa derivazione dalla prima formula, o è
veramente chiusa nei limiti di una derivazione e non dice nulla di piú di
quella onde è dedotta; o assume davvero un contenuto, e questo costituisce per
sé un criterio di valutazione distinto e diverso da quello da cui si pretende
dedurlo.
Il
quale non si esaurisce piú nell'universalità della valutazione morale ma
richiede un riferimento agli oggetti
della valutazione; ed è un criterio non piú formale soltanto, ma anche
materiale. Se, anche inteso cosí, sia adeguato al bisogno resterà da vedere piú
innanzi.
Il
termine che media il passaggio kantiano dalla legge come forma all'umanità come
fine è il rispetto della natura ragionevole.
—
Poiché la legge è la ragione, il rispetto della legge, cioè della ragione,
importa il rispetto dell'essere ragionevole, come tale; della natura di essere
ragionevole e della persona umana nella quale si manifesta a noi questa natura.
Si
potrebbe già discutere, a rigore, sulla legittimità di passare dal rispetto
della ragione al rispetto di una natura ragionevole, perché ciò che impone
rispetto nella ragione è secondo il Kant la sua forma legislatrice e non il
soggetto, qualunque sia, che la porta, e in cui si realizza questa forma.
Tuttavia,
finché si pensa l'essere ragionevole come puramente tale cioè come costituito
di sola ragione ed esaurientesi in essa, il passaggio si riduce in fondo ad una
ipostasi, e il contenuto non muta. Ma quando si deve venire all'uomo, il
trapasso è ben diverso. L'uomo è essere ragionevole, ma non tutto, e non
soltanto ragione. Ora: quando si dice rispetto della persona umana, si intende
rispetto di tutta la persona in quanto nella persona si rivela una coscienza
uno spirito (che la comprende sí, ma è ben lungi dall'esaurirsi nella ragione),
oppure si intende la persona in quanto è essa stessa ragione e null'altro, cioè
in quel che ha di universale, di medesimo in tutti gli uomini, di (come si
dice, sebbene il dirlo qui paia un bisticcio) impersonale?
Non
c'è che da ripetere quel che s'è detto già; dall'assumere come fine questa persona-ragione
vuota di ogni altro contenuto non si ricava altro criterio che sempre e ancora
il rispetto della ragione come tale.
E solo
verrebbe fatto di chiedersi se questo inchinarsi davanti alla persona, soltanto
per quel che vi è in essa di medesimezza e di identità con ogni altra persona e
non anche per quel che vi è di proprio originale, individuale e irriducibile,
non si assomigli all'inchinarsi davanti a un apparecchio telefonico per il
rispetto dovuto alla voce autorevole che in esso risuona.
Oppure
si intende che la ragione (o meglio un Volere razionale) conferisce dignità
all'uomo, a tutto l'uomo, a tutte le facoltà e attività che essa ordina e fonde
nella unità inscindibile del medesimo e del diverso, del comune e del proprio,
dell'universale e dell'individuale; che non la ragione, ma lo spirito umano
nella interezza delle sue manifestazioni, la coscienza vivente in ogni persona
merita questo rispetto; e allora, allora soltanto, si può parlare di un
contenuto che non si esaurisce nella forma.
Ma è troppo
evidente che inteso cosí il rispetto alla persona non si può derivare dal
rispetto alla ragione e alla legge perché legge.
Intesa
cosí la persona umana, essa non è piú l'universalità vuota e astratta di una
legge fine a se stessa, ma è la sorgente di quei valori morali dei quali la
«ragione» constata la universale validità e la riconosciuta sovranità
sugli altri valori, mette in luce le esigenze, determina le condizioni di
attuabilità; (e potrà poi indagare se e come tali esigenze e condizioni si possano
conciliare con quelle degli altri ordini di valori e in particolare con quello
del sapere); di quei valori morali che il «Volere puro» pone in forma di legge,
e il «Volere buono» attua in forma di doveri.
* * *
Che
per la natura ragionevole dell'uomo si intenda non soltanto la pura forma della
ragione, ma anche altre facoltà, disposizioni, modi di essere e forme di
attività, e che il Volere ragionevole non riconosca come valore morale soltanto
la conformità alla forma della ragione, ma la conservazione l'incremento
l'esercizio di queste altre facoltà e attività spirituali, appare in forma
tipicamente significativa nel commento già riferito sopra con l'esempio (il 3°
della Fondazione) a cui si riferisce: «Come essere ragionevole
egli (l'uomo) vuole necessariamente che tutte le facoltà siano
sviluppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli ad ogni
sorta di fini possibili».
Questo
volere dell'uomo ragionevole, che è il volere puro, il volere autonomo, morale,
è dunque il volere che vuole «necessariamente» lo sviluppo di tutte le
facoltà, cioè il volere di cui si pensa e si ammette che il contenuto
sia costituito da valori già dati e riconosciuti senza contestazione come fini
di un volere buono cioè come valori morali14.
E
appare manifesto che la riduzione del criterio di valutazione morale a criterio
puramente formale suppone che siano già noti, quanto al contenuto,
i fini dell'operare morale; già conosciuti e determinati, quanto all'oggetto
loro, i doveri. E risponde alla domanda: quand'è che l'intenzione
dell'operare è veramente buona, che un atto è veramente morale? ma non
alla domanda: quali sono le azioni, in cui questa buona
intenzione si deve tradurre; quali sono i fini a cui il volere buono
deve rivolgersi; ossia quali sono i valori, nella cui attuazione fatta
con purità di volere consiste la moralità?
Alla
quale domanda si presume dunque che la risposta sia già data dalla coscienza
morale. E la risposta è data infatti, e non può esser data, che da lei.
Ma se
la risposta non fosse univoca?
Se,
supposto pari in due coscienze il rispetto della legge, la legge comandasse
all'una quel che vieta o non comanda all'altra, potrebbe bastare a dirimere il
contrasto tra le due leggi il sapere che il volere è buono quando si determina
per rispetto alla legge, e che la moralità consiste nel compiere il dovere per
il dovere?
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