La
distinzione stabilita nel capitolo precedente implica che siano valori morali
diretti, cioè supremi e normativa per ogni coscienza, soltanto quelli che la
coscienza stessa pone a sé e riconosce come tali; e non dà ragione del fatto
che siano posti e riconosciuti come valori morali diretti, cioè valori
per sé, anche quei valori di libertà e di giustizia che appaiono,
nella deduzione che se n'è fatta qui sopra, come valori morali universali soltanto
in grazia del rapporto necessario di precedenza condizionale che li lega ai
primi. E ciò significa che la distinzione stessa non ha che un valore
provvisorio, finché non si ammette quella tesi, e non si dà ragione di questo
fatto.
* * *
C'è,
sottinteso, nella tesi del resto inevitabile — che siano valori morali per
ciascuna coscienza quei valori che essa pone a sé come supremi e normativi,
qualche presupposto? E qual è questo presupposto?
Non è
difficile scoprirlo.
Perché
un ordine di valori, diciamo per comodità di espressione, una idealità, sia
riconosciuta da una coscienza come suprema e normativa si richiedono due
condizioni imprescindibilmente:
1° che
la detta idealità possa costituire un criterio di valutazione atto a
subordinare ogni altro valore, a dare unità coerente alle valutazioni e a
segnare una direzione costante alla volontà;
2° che
essa sia in effetto posta dalla volontà come suprema e riconosciuta degna di
dirigerla; e perciò che l'attuazione di quella e la esclusione di ogni atto che
la neghi sia sentita come un esigenza incondizionata (esigenza di non smentire
con la volizione la volontà, con l'atto la valutazione); e sia sentito o posto
idealmente come dovere il subordinare ad essa ogni altro valore e il negare
ogni interesse che contrasti con quello.
Ma
queste due condizioni sono le condizioni stesse che fanno dell'io temporaneo
disgregato e molteplice una unità, cioè una Volontà consapevole e coerente, un
carattere, una persona; sono in una parola le condizioni della personalità.
Riconoscere
il valore supremo di ciò che costituisce l'unità personale, di ciò per cui
l'individuo si afferma ed esprime la sua volontà di essere persona, implica
dunque il presupposto del valore diretto, originario, incomparabile e
incommensurabile, cioè assoluto, della persona umana, come volontà di essere
tale e come coscienza di questa volontà.
Questo
valore per sé, intrinseco e assoluto della persona, è dunque il presupposto
implicito, il postulato sottinteso in ogni valutazione morale; perché non si
può riconoscere il valore morale di nessun oggetto o fine o idealità senza
postulare il valore della volontà personale che lo pone, e fuori della quale
non avrebbe senso l'esigenza normativa che lo fa essere morale.
Ed è
vana, anzi in sé contraddittoria, ogni discussione sulla sua legittimità.
Perché discutere di questa legittimità non è possibile senza ammettere e
postulare come dato e fuori di ogni contestazione, qualche valore intrinseco,
al quale si possa riferire e col quale si possa confrontare e commisurare il
valore in discorso.
E
poiché il valore che dovrebbe servire di termine di confronto e di dato
incontestabile per giudicarlo, implica necessariamente la validità di ciò che
deve essere giudicato, cioè la legittimità del presupposto del quale si
discute, ogni contesa assiologica intorno ad esso si avvolge irrimediabilmente
in un circolo vizioso.
Avviene,
mutatis verbis, qualche cosa di perfettamente analogo a quel che accade
nel campo della conoscenza, quando si discute del valore teorico della ragione.
Ogni critica presuppone necessariamente la validità di quella ragione che è
chiamata in causa.
* * *
Bisogna
dunque accettare o respingere la legittimità del presupposto; accettando o
respingendo insieme ciò che si regge sulla sua validità.
Non
c'è via di mezzo possibile. Ricusarlo vuol dire negare ogni valore morale; accettarlo
vuol dire riconoscere valore morale a ciò che costituisce la personalità,
a ciò che le è essenziale, e che la fa essere non la personalità astratta e
comune che non sussiste per sé e non basta a costituire questa o quella
persona, la mia persona; ma la persona individuata viva e concreta, in
quel che ha di universale e di comune e in quel che ha di proprio, di suo, di
individuale; l'umanità non dell'uomo genere, dell'uomo tipo, ma di questo
o di quell'uomo. In quanto è uomo, senza dubbio; ma anche in
quanto è questo.
L'uomo-ragione
dà, come s'è detto e ripetuto, la sola coerenza. Non è poco, ma non è tutto.
L'uomo-volontà
pone questa coerenza come legge del mio valutare e del mio fare, impone a me
che l'idealità posta e riconosciuta come suprema valga veramente come suprema,
che io ne affermi il valore intrinseco, ne approvi o ne accetti le esigenze
sempre dovunque si presentano, in me e fuori di me; mi impone, in una parola,
di essere persona; e di volere che ogni uomo sia persona.
Ma non
è ancor tutto. Quel che io devo essere per valere come persona, l'idealità che
deve dare unità al mio io, e in cui si esprime non la volontà in genere, ma la mia
volontà di essere persona, è posta da questa mia volontà ed ha valore
per me perché è posta da lei.
Certo,
la mia coerenza deve essere e non può essere altro che la coerenza della
ragione; l'esigenza che la mia volontà impone a me di essere persona è quella
medesima esigenza che la volontà di ciascun altro (capace di moralità) impone a
lui, e che a me e a lui e a ciascun altro impone il rispetto della persona come
tale; ma l'una e l'altra esigenza non investono il medesimo contenuto
spirituale in me e negli altri. Limitano le categorie di valori, nelle quali
l'io può attingere l'idealità regolatrice, ma non determinano per tutte la
medesima idealità.
La mia
volontà deve — per far di me una persona — uniformarsi a quelle due esigenze
che sono le esigenze necessarie e costanti di ogni personalità (non solo reale,
ma anche fittizia); e deve perciò superare l'io transitorio, l'io degli
interessi momentanei e mutevoli (dei quali non si misura il valore che dal loro
effetto su di me), e appuntarsi in una idealità che le sia norma; ma non può
uscire di sé per diventare una volontà diversa, non può cessare di essere quella
certa volontà, che fa di me non la persona umana in generale, ma la mia
persona.
Insomma
non può volere l'unità se non di quello spirito di cui è la volontà.
* * *
Ma
quale è la prova che questa idealità non è un capriccio dell'io transitorio e
mutevole, ma è veramente legge delle mie valutazioni e delle mie azioni?
La
prova non è e non può essere data se non a me stesso, da me, dall'attestazione
della mia coscienza. Ed è perciò che la legittimità dei valori posti da me non
è contestabile da altri né controllabile.
Ma vi
è tuttavia una prova esterna, di fatto, tenuta normalmente valida nel giudizio
comune; e che è veramente necessaria, anche se non è sempre sufficiente; e
questa prova è il sacrificio. Appunto perché il sacrificio attesta che
ogni mia facoltà, ogni mio potere si raccoglie e si appunta nella volontà di
attuazione di quel valore; e che io nego e respingo da me ciò che mi
costringerebbe a negarla.
Cosí è
che il valore della vita si misura dal valore di ciò a cui si è disposti a
sacrificarla; e che, per converso, l'esser pronti alla morte apparisce
l'affermazione piú decisiva del valore di ciò a cui si è devoti.
* * *
Le
esigenze costitutive della personalità si attuano dunque informando di sé un
contenuto spirituale che è sempre in qualche parte proprio e caratteristico di
ciascuna coscienza individuale; come raggi di una medesima luce che tralucono
per cristalli diversi; e ciò fa di quel particolare contenuto la condizione o
il mezzo per il quale la personalità si pone e si realizza nell'io individuale
e concreto; la materia che si suggella di quella forma.
E il
valore morale di questo contenuto nasce da questo suo essere lo strumento il
tramite, per il quale si esprime nella coscienza individuale il valore assoluto
della personalità umana.
Per
tal modo l'idealità, nella quale si concreta per la coscienza delle persone
singole il criterio o la legge della valutazione morale, costituisce per
ciascuno l'affermazione della unità spirituale della sua volontà di
essere persona, della sua libertà.
Cosí
la libertà, che nella deduzione esteriore ed empirica del capitolo precedente
acquista valore solo strumentalmente universale e necessario, in
quanto l'attuazione dei valori di libertà appare la condizione comune e
imprescindibile della attuazione di ogni ordine di valori, è invece qui valore
per sé immediatamente universale; e sorgente di quegli stessi valori che
valgono per le coscienze singole come supremi soltanto perché sono lo strumento
del realizzarsi di essa libertà in ciascheduna. È, quindi, la sorgente cosí dei
valori costitutivi della personalità in astratto, come dei valori costitutivi
delle diverse personalità in concreto; cosí dei valori universali della persona
ideale come dei valori propri della persona reale.
Nel
presupposto stesso di ogni valutazione morale ha dunque radice cosí l'esigenza
dell'universale come l'esigenza dell'individuale; l'esigenza di una valutazione
comune e l'esigenza di una valutazione singolare e propria; ossia l'esigenza
che la volontà personale si affermi ad un tempo, come riconoscimento dell'una e
dell'altra, o, meglio, dell'una nell'altra.
L'imperativo
della libertà è ad un tempo: sii persona, e: sii la tua
persona; sii uomo, e: sii quel che tu devi essere per essere uomo; rispetta
l'umanità, e: rispetta in te e in ogni altro l'espressione individuale e
concreta dell'umanità.
* * *
A
nessuno verrà in mente di credere che si intenda di stabilire cosí il dovere di
creare nuovi valori, di affermare nuove intuizioni morali; e porre accanto
al dovere di essere giusti, quello di essere originali.
Sarebbe
come voler obbligare uno scienziato a fare delle scoperte, almeno nel senso che
si suol dare comunemente alla parola. Le intuizioni morali nuove, come le
scoperte scientifiche, come le nuove forme di arte, si presentano a chi... le
trova. Spiritus flat ubi
vult.
Ma vi
sono, in un certo senso piú modesto, come nella ricerca scientifica le piccole
continue scoperte di indagatori e di studiosi mediocri ma coscienziosi, che
cavano e puliscono la selce e temprano l'acciarino, dai quali l'uomo di genio
farà sprizzare la scintilla, cosí nella vita morale le piccole nuove intuizioni
e nuove interpretazioni, e connessioni, ed elevazioni di valori morali, che
preparano il solco alla semente dei grandi. Vi è, a guardar bene, perfino
nell'apparente applicazione monotona di una medesima massima alla medesima
classe di azioni, un'impronta, un segno, una sfumatura, nella quale si rivela l'originalità
morale della persona; originalità di finezza, di delicatezza, di grazia, di
abnegazione, di calore, di fantasia, di acume; gradazioni e colorazioni diverse
di valori noti, combinazioni nuove di pregi prima disgiunti. Ciò che è proprio
di una persona anche comune (sia venia al bisticcio) non è tanto il rivelarsi
di una proprietà, o dote, o qualità diversa; di un nuovo elemento di valore
(che non è novità frequente neanche nei grandi); quanto questo modo, col quale
si raccolgono, si mescolano e si fondono per lui in sintesi nuove i valori
elementari già intuiti. Ciò che è caratteristico dell'individuo consiste anche
qui, se si dà alla parola il suo significato originario, in una
«idiosincrasia».
* * *
Queste
minori e, nella loro infinita varietà inafferrabili, differenze individuali, si
raccolgono però, come accade, attorno a tipi diversi, segnati soprattutto dal
prevalere, conforme a quel che si è accennato già, di un ordine di valori sugli
altri. Dal che possono derivare non solo differenze assai grandi, ma
opposizioni recise.
E qui
sta appunto la sorgente dei contrasti tra valutazioni morali diverse, di fronte
ai quali la critica non può fare che opera di constatazione e di sistemazione.
Come
possa adempiere a questo ufficio e quali frutti se ne possano attendere non è
qui il luogo di esaminare.
Qui
importa solo notare come questa indagine e sistemazione critica non potrà che
presentare, nella forma tipica piú compiuta e recisa e col massimo rilievo, i
contrasti che sorgono naturalmente dal prevalere, nella unificazione morale
della coscienza personale, di uno piuttostoché di un altro ordine di valori, e
dalla misura di questa prevalenza.
Ma la
forma fondamentale sarà data dal contrasto tra i valori universali morali — i
valori di libertà e di giustizia — e quelli che valgono come supremi (cioè che
pretendono, come i morali, la direzione suprema della valutazione), nella
coscienza individuale.
Se la
libertà e la sua sorella germana, la giustizia, fossero patrimonio acquisito e
non come è, come deve essere, una conquista faticosa del genere umano che dura
e durerà nei secoli, il problema non esisterebbe se non nella forma di esigenza
della conciliazione di quei valori spirituali che non si presentano come
necessariamente e universalmente morali.
Problema
formidabile anche questo, ma non tale da segnare una antitesi di criteri non
conciliabili; antitesi che rende necessaria la subordinazione dell'uno dei due
all'altro, ma che può legittimare nella coscienza personale cosí l'una come
l'altra soluzione.
Questa
antitesi è, in breve, tra i valori di giustizia e i valori di cultura; tra
l'esigenza che ogni uomo sia o possa diventare persona, cioè volontà
libera consapevole e coerente, e l'esigenza che si accresca e si
arricchisca di nuovi valori l'uomo che è già persona, che è già, se non
l'uomo libero del Fichte, l'uomo che ha coscienza del suo dover e del suo poter
farsi libero, e che vi tende come al suo supremo valore.
È, in
termini forse meno precisi ma piú recisi, l'antitesi tra il numero e la qualità,
tra l'estensione e l'intensità; tra il dovere di rendere partecipi (di porre la
possibilità che si facciano partecipi) dei valori di libertà — accessibili
soltanto ad alcuni —, quelli che non ne sono partecipi, e il dovere di
accrescere in quelli che già li possiedono i valori di cultura, che sono pure,
almeno mediatamente, incremento dei valori di libertà.
L'umanità
(la persona umana) si rispetta elevandone in sé e negli altri il valore; si
eleva cosí nell'uno come nell'altro dei modi anzidetti.
Le due
vie sono convergenti?
Speriamo
che siano; ma, nella valutazione presente, tra l'incremento di una cultura,
dalla quale sono esclusi i piú tra quelli che pur ne sono strumento necessario,
e la possibilità di togliere o scemare questa esclusione, quale è l'esigenza
morale prevalente?
Dire
che la cultura dei pochi è necessariamente elevazione di tutti, o dire che
l'elevazione di tutti è necessariamente incremento della cultura, è baloccarsi
con parole; è un ripetere su un altro verso le vecchie coincidenze del bene
generale col bene individuale. Il dire non basta a porre in essere quel che si
dice.
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