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Alla distinzione fondamentale che ha origine nel presupposto stesso di ogni
valutazione morale (il valore assoluto della persona umana), tra valori morali
universali e valori morali propriamente personali, corrisponde naturalmente una
distinzione nel carattere di obbligatorietà che assume rispettivamente nella
coscienza l'attuazione degli uni e quella degli altri.
Ai
primi corrisponde, o si concepisce che debba e possa corrispondere una
obbligatorietà ad un tempo interna ed esterna, ai secondi solamente una
obbligazione interna. In quanto la società organizzata, lo stato, il Potere
politico è posto come potere che fonda e garantisce le condizioni esterne della
moralità, l'ideale politico è una derivazione necessaria e un elemento
dell'idealità morale; e rivestendo per tutti ugualmente il medesimo carattere
formale di Potere giusto, cioè di Potere la cui esistenza e validità è
affermata e voluta in grazia dell'esigenza morale a cui soddisfa, assume
tuttavia per ciascuno un contenuto in misura maggiore o minore diversa, secondo
il modo nel quale è concepita la giustizia che si potrebbe dir costitutiva;
cioè la giustizia come posizione e conservazione delle condizioni esterne
necessarie alla libertà di tutti.
È
notissimo, e sarebbe superfluo chiarire questo punto, che qui si disegnano due
orientamenti di coscienza diversi e in alcuni, se non tutti i postulati
pratici, opposti; e due concezioni politiche corrispondenti, tra le quali
intercorrono gradazioni varie di partiti.
E
sono: l'indirizzo che prende norme dal liberalismo conservatore: — la giustizia
è la garanzia della libertà di tutti nelle condizioni sociali storicamente
date e quello che prende impropriamente nome dal socialismo16: —
la giustizia è la costituzione di condizioni sociali tali che ciascuno
trovi in esse la medesima possibilità esterna di valere come persona — (che
coincide con l'interpretazione piú universalmente radicale della famosa seconda
formula della Fondazione di Kant).
Ciò
che qui importa di notare è piuttosto che in essa si rivela una forma del conflitto
fondamentale di cui si è toccato, nel modo di intendere la conciliazione o
meglio la subordinazione delle due esigenze costitutive della personalità:
l'esigenza universale e l'esigenza individuale.
Senonché,
appunto perché il conflitto tra queste due esigenze è considerato soltanto in
relazione alle condizioni esteriori, esso prende quanto alla forma veste
giuridica e quanto al contenuto natura economica; si presenta come negazione o
posizione nel Potere politico della facoltà di sottoporre ad una legislazione
esterna il possesso e l'uso dei mezzi di produzione e i modi di distribuzione
della ricchezza.
La
quale limitazione del carattere del conflitto è dovuta non solamente e non
tanto all'abbassamento inevitabile che ogni idealità subisce nel tramutarsi da
esigenza etica in programma politico, quanto ad una necessità intrinseca alla
costituzione stessa del Potere e alle condizioni della sua validità.
* * *
Nell'esemplificazione
introdotta qui sopra (Parte II, Cap. III) si è supposto che l'idealità
normatrice potesse avere per contenuto un ordine di valori noetici o estetici o
religiosi o edonistico-altruistici, ma non si è considerato distintamente il
caso che l'ordine normativo dei valori fosse dato dall'edonismo egoistico;
perché esso, nell'opinione comune, che risponde anche solitamente a verità, non
presenta quei caratteri formali di validità morale e di esigenza normativa, con
i quali può, o si concepisce che possa, presentarsi nella coscienza il contenuto
costituito dagli altri ordini di valori.
Ma
questo non toglie che anche l'egoismo possa erigersi a massima di condotta, a
principio normativo, purché, si intende, l'egoista razionalizzi il suo egoismo;
cioè riconosca legittimo che valga nelle medesime condizioni per tutti quello
stesso criterio di valutazione, che assume come valido per sé, e che dà, per
ipotesi, coerenza al suo giudicare e al suo fare.
Ora è
da notare che dal puro calcolo egoistico razionalizzato si deduce quel
medesimo ordine di valori universalmente strumentali di libertà e di
giustizia, che si deduce da ciascuna delle idealità normative supposte.
E
basta a persuadercene il fatto che l'economia pura assume come presupposto,
cioè come norma universale di condotta dell'homo oeconomicus,
appunto un postulato edonistico, non solo, ma edonistico-egoistico. Ed è noto
che il liberalismo politico è modellato — s'intende sempre nel suo aspetto
puramente politico, cioè esteriore — sul liberismo economico.
Questa
considerazione contraddice solo in apparenza la tesi, per la quale non può
essere normativo che un valore considerato come valore per sé distinto dagli
impulsi e dai desideri transitori e variabili del soggetto; perché il valore
che l'economia contempla in realtà, non è il piacere, o la soddisfazione
soggettiva, ma la ricchezza. La quale ha bensì sempre normalmente
soltanto un valore strumentale, ma (anche lasciando in pace l'esempio
dell'avaro) può essere — ed è in effetto dall'economista — considerata come
valore per sé, e come comune termine di riferimento di ogni specie di valori
edonistici; e perciò di ogni ordine di valori in quanto sono considerati e
valutati nel loro effetto edonistico, nel quanto di soddisfazione e di
godimento che se ne trae e che è misurato obbiettivamente dal quanto di
ricchezza necessario a procacciarli.
Ne
segue che il Potere politico e il sistema giuridico che riceve da esso sanzione
e validità di diritto positivo, possono assumere un significato e un valore al
tutto diversi — pur avendo per contenuto una medesima materia — secondo che
questo contenuto è valutato come un ordine di valori strumentali che trova la
sua ragion d'essere e la sua giustificazione soltanto nel suo carattere di
condizione necessaria della coesistenza degli egoismi individuali, o
secondo che è considerato come un ordine di valori morali diretti e
immediati, come un'esigenza del valore primario assoluto della persona
umana, e della libertà che ne è la nota essenziale. E ne segue parallelamente
che si possa ravvisare nell'ordine giuridico cosí la realizzazione di
un'esigenza etica, come un sistema di condizioni che precede idealmente
l'esigenza etica e la rende possibile, ma che sussiste e sussisterebbe per sé
indipendentemente da essa.
In
realtà, siccome il valore morale non è valore e non è morale se non per la
coscienza che lo sente e lo riconosce come tale, l'alternativa che ne nasce è
questa: che o si riconosce come ordine di valori per sé, suscettivo di assumere
in alcune o in molte delle coscienze individuali carattere e forma di valori morali,
anche l'ordine dei valori edonistico-egoistici, o si deve ammettere che il
contenuto del diritto, in quanto fosse legittimato soltanto da una deduzione
etica e non dal principio della convenienza egoistica, resterebbe estraneo
all'egoista; subito da lui, ma non approvato e non voluto. Cioè tale che non si
potrebbe pretendere ragionevolmente da lui che lo riconosca e lo
accetti.
Dal
che nasce la conseguenza che la deduzione etica del diritto deve
coincidere, quando al contenuto, con la deduzione puramente egoistica,
cioè che le norme di diritto devono essere stabilite come se la loro
ragion d'essere fosse unicamente l'utilità egoistica.
E il
fatto — inevitabile — che la sanzione (premio o pena) ha un contenuto
egoistico, cioè si risolve in un motivo egoistico dell'osservanza del diritto,
sembra confermare tale conseguenza.
* * *
Di qui
seguono due corollari non trascurabili per la valutazione dei rapporti tra
morale e politica. Il primo è questo: che il Potere politico, in quanto è forza
di coazione che pone come esternamente obbligatorie certe condizioni quali si
siano (negative o positive) dell'attività dei singoli, non è mai per sé,
direttamente, organo morale; perché il valore morale, che è del tutto
interiore, insindacabile e incoercibile, sfugge a questa azione; e perché i
mezzi di cui la legislazione esterna può disporre — sia di persuasione (premi),
sia di costrizione (pena) — non possono presentarsi che come motivi di ordine
egoistico; e hanno per sé un valore o premorale (cioè di condizione di
fatto anteriori alla moralità ed estranei ad essa) o pro-morale (cioè
tengono luogo del motivo morale o ne surrogano l'efficacia pratica quanto agli
effetti esteriori della condotta). Perciò gli istituti politici non sono in sé
né morali né immorali se non in quanto sono valutati come tali interiormente
dalla coscienza dei singoli.
Il
secondo è questo: che dovendo l'ordine giuridico poter essere giustificato da
un punto di vista puramente egoistico, affinché il Potere politico possa avere
un contenuto, non soltanto negativo, ma positivo, comune col
contenuto delle diverse idealità tipiche morali (essere o diventare organo
promotore e fautore dei mezzi di cultura), è necessario che il contenuto di
queste idealità sia o possa essere considerato insieme come il medesimo, o come
elemento o condizione essenziale del contenuto medesimo, delle soddisfazioni
egoistiche; o in altri termini, che i valori, poniamo, intellettuali, estetici,
simpatetici, religiosi, siano nello stesso tempo i valori piú desiderati o desiderabili
nel rispetto edonistico, o elementi o condizioni essenziali dei valori
egoistici.
E ciò
equivale a dire che la funzione primaria e preliminare del Potere politico come
organo di cultura è quella di ordinare i mezzi atti a dare ai motivi edonistici
un contenuto sempre piú spirituale e morale, ossia ad elevare e affinare nei
singoli la capacità di sentire e apprezzare come beni migliori e piú
desiderabili di ogni altro i valori spirituali.
La
funzione positiva preliminare è dunque quella di apprestare i mezzi o
le condizioni esterne necessarie alla possibile educazione ed elevazione
spirituale di ciascuno.
* * *
Fin
qui si è considerato il Potere politico soltanto come organo di obbligatorietà
esteriore rispetto ai singoli soci, dalla cui volontà è idealmente
posto, astrazione fatta da ogni relazione dello stesso potere con altri poteri;
cioè come stato di fronte ad altri stati.
Ma se
si considera per questo rispetto, esso assume ipso facto natura e
funzione di Persona in rapporto con altre Persone e raccoglie in sé, unifica e
fonde in un'unica Volontà e personalità le volontà e le persone dei singoli. I
quali per rispetto agli stati esteri spariscono come volontà distinte, e sono
sostituite nel loro valore assoluto di persona dallo stato. Il che significa
nello stesso tempo che per questo rispetto la volontà dello stato è per la
coscienza di ciascuno la propria volontà, e che lo stato diventa esso soggetto
e sorgente di idealità etiche.
Non è
possibile e non è necessario esaminare distesamente le conseguenze che nascono
da questo diverso significato e valore che lo stato assume in forza dei suoi
rapporti con altri stati; ma non è difficile vedere l'antinomia che ne deriva
nei rapporti tra il cittadino e lo stato, secondoché lo stato è considerato
nella sua azione interna o nella sua condotta esterna. Rispetto a quella il
Potere politico è, dal punto di vista etico, mezzo, e la persona
singola, fine; rispetto a questa lo stato è fine e il singolo è mezzo.
Nel primo rispetto il cittadino non ha doveri verso il Potere politico, se non
in quanto vede nell'osservanza di questi doveri una condizione necessaria alla
tutela dei propri diritti; nel secondo rispetto non ha diritti di fronte alle
stato, se non in quanto la garanzia di questi diritti sia una condizione
necessaria all'adempimento del suo dovere verso di esso.
Dai
suoi rapporti col Potere, considerato per quel rispetto, è esclusa (almeno
idealmente) ogni esigenza di sacrifizio di sé; considerato per questo, tale
esigenza è necessaria.
Di qui
la tendenza a far prevalere il secondo ordine di concetti nei partiti politici
che considerano come insuperabile l'opposizione degli stati ed eticamente
incondizionata la sovranità di ciascuno; e la tendenza opposta nei partiti, che
credono superabile l'opposizione, e condizionata eticamente la sovranità degli
stati nelle loro mutue relazioni.
* * *
Si è
avuto occasione di notare nel capitolo precedente che per la ragione stessa per
la quale la idealità è concepita e voluta dalla coscienza di ciascuno come
normativa di tutta la condotta, per questa ragione la subordinazione di ogni
interesse individuale e, quando sia richiesto, il sacrifizio di sé individuo
all'idealità etica che lo costituisce in persona, diventano la prova viva e
continua del valore intrinseco supremo riconosciuto all'idealità; della
conformità, per adoperare termini già usati, del volere operante o
esecutivo col volere valutante o legislativo.
In
questa devozione a un Valore sentito e voluto come valido per sé
all'infuori di ogni interesse puramente soggettivo e accidentale dell'individuo
è già la nota caratteristica della religiosità; nota che è rilevata, sebbene
con qualche incertezza e confusione, anche nel linguaggio comune. Dove il verbo
«adorare» significa appunto devozione a un oggetto, al quale si riconosce un
valore incomparabile e a cui si è disposti a sacrificare ogni altro bene.
Ma
questa devozione all'idealità, perché sia piena, effettiva e costante, suppone
o richiede le disposizioni spirituali, le condizioni soggettive, nelle quali e
per le quali si viene attuando; richiede da noi, in noi, il potere di tenerle
fede.
Ora,
quando noi concepiamo l'ideale morale come un Ente, una Virtualità, una
sorgente di energie spirituali, a cui attingiamo il potere nostro di
realizzarlo in noi stessi, e a cui possono attingere i partecipi della stessa
idealità il medesimo potere, e quella virtualità è sentita come divina, e lo
spirito perfetto che lo realizza in sé come Dio, la nostra devozione è
religione.
* * *
Vi è
dunque per questo rispetto una certa analogia nei rapporti della Morale con la Politica e con la Religione. Il Potere politico realizza le condizioni esteriori della
moralità, la Virtù divina realizza le condizioni interiori.
E
poiché l'attuazione del valore morale consiste essenzialmente nell'atto del
volere, cioè è interiore e spirituale, e la conformità materiale ed esteriore
trae il suo valore dalla prima; cosí il Potere politico potrà apparire alla
coscienza religiosa come mezzo e strumento del Potere religioso. Anzi dovrà apparir
tale finché essa considera le condizioni esterne della convivenza come
idealmente poste e giustificate soltanto in forza della propria
idealità, e non giustificabili fuori di quella.
Ma se
si guarda un po' piú dentro si vede che la coscienza stessa religiosa deve
esser condotta a riconoscere che quella subordinazione non è neppure per essa
necessaria; perché la legislazione esterna trova la sua giustificazione in
quella stessa esigenza etica fondamentale, in nome della quale essa coscienza
riconosce il valore supremo della propria idealità, e l'autorità divina del
Potere che la realizza.
È la
esigenza del rispetto della persona umana come sorgente di ogni valore; del
valore stesso e della inviolabilità della fede che essa attesta, e che oppone a
ogni altra fede. Ed implica quella libertà che essa non può negare in altra
persona senza negarne il valore per sé: che ogni altro deve riconoscere a lei
per non vilipendere la propria; che è il principio da cui muove e il termine a
cui riesce ogni elevazione dello spirito.
Inoltre:
Ogni sforzo che si faccia per tradurre un dovere religioso in obbligo giuridico
e dargli una sanzione materiale esterna, contraddice, nel momento stesso che
sembra affermarla, l'esigenza della religiosità. Perché tende a sostituire al
motivo religioso — del tutto interiore — della devozione e della adorazione, un
motivo esteriore e di necessità egoistico; il motivo della sanzione. Il quale
si trova cosí invocato a garantire ciò di cui è la negazione: la disposizione
interiore dello spirito, e la purità delle intenzioni.
* * *
Ed è
poi, questa distinzione e indipendenza del Potere politico e della legislazione
esterna da ogni particolare fede religiosa, da un punto di vista obbiettivo,
inevitabile non meno che la indipendenza già notata da ogni particolare
idealità morale.
Perché
ciò che fa la certezza e la inconfutabilità della convinzione religiosa è
insieme ciò che ne fa la incomunicabilità e la indimostrabilità.
È
certo che la «esperienza religiosa» del mistico non può essere negata da altri.
Le intuizioni alle quali essa si riconduce sono, per la coscienza che le prova,
certe di una certezza diretta, cioè anteriore a ogni prova, non meno delle
«sensazioni». Ma al pari di queste non sono comunicabili ad una coscienza che
non le prova e non le vive.
Potrebbe
parere materia di discussione l'interpretazione che il mistico fa di
questi dati, il momento (che l'analisi obbiettiva può distinguere dal momento
dell'intuizione) per il quale la coscienza trapassa dalla intuizione sua, dall'esperienza
propria diretta, all'affermazione del divino in sé, come oggetto
dell'intuizione.
Ma
anche questo processo sfugge alla discussione perché non è logico ma psicologico:
anzi non è per la coscienza del mistico un passaggio, una argomentazione, ma
una integrazione che si pone coll'atto stesso dell'intuizione e che è vissuta
con la medesima certezza. Perciò, chi vuol sottoporre dal di fuori
questo processo ad analisi critica, analizza in realtà qualche cosa di diverso.
Analizza il processo discorsivo che dovrebbe fare, per
provare la validità della sua conclusione, una coscienza che non senta
già la certezza di questa conclusione; o, piú esattamente, che consideri come conclusione
di un passaggio logico, quel che per il mistico non è conclusione logica, ma è
evidenza psicologica.
E
d'altra parte è pur vero che questo medesimo carattere di evidenza immediata
che rende la certezza del mistico invulnerabile ad ogni attacco di critica, le
toglie nel medesimo tempo ogni possibilità di dimostrazione.
Se poi
la certezza religiosa si fonda sull'autorità e non sull'«esperienza»
non ne è perciò meno inevitabile la individualità e la incomunicabilità. Perché
se l'autorità della rivelazione è accettata come tale per un atto di ossequio,
di riverenza e di devozione alla divinità dalla quale è data, essa è un atto di
volontà, non di ragionamento, e presuppone quella certezza del divino,
alla quale essa rivelazione dà bensì un contenuto dogmatico, ma non dà, se non
lo trova, il valore di certezza.
E se
la mia coscienza la accoglie in virtù di prove teoriche o storiche o morali,
per le quali sia indotta a riconoscere nella rivelazione stessa un'origine
divina, le prove della rivelazione (supponendo pure superati tutti i problemi
che vi si riferiscono) non sono prove della certezza che io
ho del divino, ma sono prove che mi inducono a riconoscere nella
rivelazione un segno di quel divino, di cui ho la certezza.
* * *
Ma il
riconoscere questo carattere interiore personale e insindacabile cosí delle diverse
idealità etiche come delle diverse credenze religiose (anche se si accompagni
alla consapevolezza che ciò che costituisce la legittimità e inviolabilità
dell'una è, nello stesso tempo, ciò che costituisce la medesima legittimità e
inviolabilità di ciascun'altra), non è la medesima cosa che spogliare ognuna di
esse di quella tendenza alla negazione non solo, ma alla esclusione delle
dottrine opposte, che è propria di ogni fede, vale a dire della affermazione
del valore intrinseco di una idealità, che per ciò si riconosce come degna di
valere universalmente.
In
questa diversità e molteplicità varia e inesauribile di valutazioni sta la
fonte di ogni incremento della cultura e di ogni elevazione spirituale.
Ciascuna
di queste voci è una voce umana, la voce di una persona; e
ciascuna deve poter farsi sentire. Ma quella ragione medesima che pone questa
esigenza ne pone il limite; e i limiti sono i valori morali universali il cui
contenuto si allarga e si arricchisce della potenzialità di sempre nuovi valori
nella esperienza dolorosa e gloriosa dei secoli; e che tralucono per tutto dove
è qualche lume di umanità, perché sono il pregio a cui si riconosce l'uomo e si
misura la sua dignità di uomo.
Liberum esse hominem est necesse; vivere non est necesse.
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