23.
Religione,
coltura.
- Delle condizioni politiche e civili di questa etá dicemmo via via, e cosí
faremo per le etá seguenti; ondeché ne diremo separatamente. - La religione
poi, simile, come vedemmo, nell'origine e nella genealogia degli dèi alla
greca, si accomunò ora interamente con essa; e perché i greci l'avean giá accomunata
a tutto l'Oriente, ed ella non trovava nell'Occidente numi e culti molto
diversi, ella diventò, senza difficoltá, universale nel mondo romano. Ogni
politeismo è naturalmente tollerante; serbando gli dèi propri, ammette a
secondari gli dèi stranieri. Del resto, tali religioni, tutto esterne di natura
loro, erano in Grecia diventate giá indifferenti a chiunque vi s'internasse
colla filosofia; e cosí diventarono ai romani quand'ebber bevuta quella
filosofia. La religione rimase poco piú che arte politica, stromento, arcano
d'imperio, in mano a' patrizi, che serbarono fino alla fine della repubblica la
privativa del sommo pontificato e de' sacerdozi maggiori. - Incominciata da
Socrate, Platone, Aristotele e gli altri capiscuola, questa fu la grande, la
utile etá della filosofia; non ne sorgerá mai piú un'altra tale. In seno alla
religione vera, restan minori di necessitá i destini della filosofia.
All'incontro la filosofia greco-romana andava molto piú oltre e piú giusto
nella veritá che non la religione contemporanea; e perciò fu grande ed
utilissima. E perciò Cicerone, tutti i romani professavano doversi prendere da
essa, eloquenza, lettere, ius pubblico e privato, costumi, ogni civiltá,
ogni coltura, di preferenza che dalla religione. - Le lettere specialmente
dipendettero tutte, si conformarono tutte dalla filosofia. Del resto, le romane
furono sempre figliuole delle greche; fin dall'origini, quando è tradizione che
Numa le prendesse da Pitagora (tradizione falsa quanto a Pitagora che fu
posteriore, ma giusta nel significato nazionale); quando Demarato le portava
giá dalla Grecia propria; e poi quando i romani piú rozzi conquistarono i
magno-greci piú colti, e finalmente i greci coltissimi. Polibio, contemporaneo
ed amico de' Scipioni, fu uno de' primi e piú grandi venuti di Grecia a
ingentilir Roma. - Nella quale poi, come dapertutto, s'ingentilí la lingua
poetica primamente: Livio Andronico uno schiavo greco, Nevio un campano, Ennio
un magno-greco, Plauto un umbro, Terenzio schiavo cartaginese (tutti stranieri
al Lazio) furono i primi poeti e scrittori latini dal 250 al 150 all'incirca.
Romani si furono i primi prosatori e storici, Fabio Pittore e Catone il
vecchio, di poco posteriori a' primi poeti. Seguirono nell'ultimo secolo, e i
piú negli ultimi anni della repubblica, Lucrezio, Catullo ed altri poeti;
Varrone, Sallustio, Cesare ed altri storici e prosatori vari; e principalmente,
com'era naturale in quel governo libero, in quelle contese di libertá e di
parti, molti uomini di Stato, giureconsulti ed oratori, gli Scevola, i Bruti, i
Rufi, Ortensio, Cicerone; oltre poi tutti i grandi capi di parte, che nominammo
dai Gracchi fino ad Augusto, i quali non poterono certo diventare tali, se non
colla persuasione prima che coll'armi; colla persuasione, che sovente non è
retorica, talora non filosofia né ragione né giustizia, ma sempre si deve dire
«eloquenza». - Degno, e forse importante, è poi ad osservarsi, che mentre
fiorivano tuttavia i piú e migliori di questi, giá erano nati ed educati Tito
Livio, Cornelio Nipote, Orazio, Virgilio, Ovidio e tutti insomma gli aurei del
secolo detto «aureo» al cader della repubblica. Figli dunque della repubblica,
cresciuti nella viva atmosfera della libertá, si debbono dire tutti questi
sommi latini, tutti questi splendori, che mal si sogliono chiamare del secolo
d'Augusto. I grandi son figli dell'etá in cui s'allevano, e non di quella in
cui finiscono; i secoli si dovrebbero nominare da chi li genera ed educa, e non
da chi li termina; e il cosí detto secolo d'Augusto, finí ad Augusto e per
Augusto. - Ad ogni modo, questi ultimi scolari de' greci emularono, arrivaron
sovente, superarono talora i maestri. Non forse in poesia, ma certo in
parecchie di quelle lettere che dipendono dalla scienza e dalla pratica di
Stato. Nell'eloquenza, per vero dire, io odo i periti delle due lingue por
Demostene il sommo greco sopra Cicerone il sommo romano; ed io m'accosto
volentieri a tal opinione, e per quella superior semplicitá che riluce
nell'ateniese, e perché difensor d'indipendenza, mi par piú fortemente ispirato
che non il romano difensor di libertá. Certo, se mi si conceda di giudicare
(con metodo opposto al solito) degli antichi da' moderni, tutti i grandi
oratori politici del secolo scorso e del presente, i Pitt, Fox, Burke,
Mirabeau, Foix, Canning, e i viventi, si veggono seguir molto piú l'andamento
oratorio demosteniano, che non il ciceroniano; ondeché si può credere che il
primo, il quale regge ai secoli e si rinnova cosí in societá diversissime, sia
piú naturale, piú universale, piú pratico. Quanto agli storici mi pare che i
romani tutti insieme abbiano superati i greci. Niuna semplicitá, non quella
stessa di Tucidide, è superiore a quella di Cesare; e Cesare è superiore a
Senofonte nel parlar di sé, nel dettare storie personali, memorie militari.
Tito Livio (a malgrado gli assalti moderni i quali non provano nulla contro a
lui, se non ch'ei parlò incompiutamente e dubitativamente di fatti trovati
incompiuti e dubbi nelle tradizioni), Tito Livio rimane pure a' nostri dí il
piú grande, l'inarrivato, forse inarrivabile esempio d'una storia nazionale,
scritta ad uso non d'eruditi, non di questa o quella condizione speciale
d'uomini, ma di tutte. Sallustio, non imitator de' greci, né di nessuno, fu
primo e forse sommo in quel modo stretto e forte, che fu imitato poi, e portato
oltre, da Tacito; e se è vero che fosse vizioso uomo alla pratica, egli ha
almeno il merito, pur troppo non cercato da' nostri cinquecentisti ed altri
moderni, d'esser rimasto virtuoso scrittore. L'ipocrisia della virtú e
l'ipocrisia del vizio, sono amendue brutte; ma la seconda è piú dannosa. In
tutto, niuna etá, niuna nazione, niuna lingua finora, vanta una triade di
storici come Cesare, Sallustio e Tito Livio; senza contar Tacito posteriore.
Finalmente, superiore a tutti gli antichi, furono i giurisperiti romani. Poco
resta, per vero dire, da giudicar di quelli dell'etá repubblicana; tuttavia e
quel poco, e le tradizioni, e la ragione stessa ci fa certi che in quell'etá
dell'origini e della libertá furono le fondamenta di quella scienza, la quale
sopra ogni altra dipende dai fatti originari e si fonda sulla libertá. In
somma, di tutta questa letteratura latina, o prima italiana, gli oratori, gli
storici, i giureconsulti son quelli che noi dovremmo studiare incomparabilmente
piú. Ivi quello stile piano e pratico, che è cosí raro nelle lettere italiane;
ivi una realtá, una vita, una libera operositá che si ritrovano sí ne' nostri
trecentisti e quattrocentisti, ma non guari piú giú; ivi poi una grandezza
degli affari trattati che non si ritrova forse (dirollo a malgrado le invidie
nostre ed altrui) se non ne' romani moderni, negli inglesi. Né vogliamo
studiare quegli stessi a servile imitazione od a vano vanto: quella è
pedanteria sempre, questo vergogna a decaduti. Sopra ogni cosa di que' grandi
maggiori nostri, imitiamo lo spirito di pratica, la sodezza nello scrivere come
nell'operare: questo è il miglior modo di dimostrare la filiazione nostra da
que' romani, che furono i piú sodi, i piú pratici uomini del mondo antico.
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