11.
Il
cristianesimo [1-306]. - Ma ci è debito qui
accennare i princípi e i progressi di quella religione cristiana, che, nata
coll'imperio, cresciuta mentre questo decadeva, e compressa, perseguitata fin
ora, salí ora a un tratto a condizione di religione trionfante e regnante. -
Nato in Giudea sotto Augusto, nella famiglia regia ma decaduta di Davidde, un
fanciullo chiamato Gesú, era cresciuto in casa al mestiero paterno di
falegname, e vi si era trattenuto trenta anni; ed avea predicato poi per tre
altri, sé professando il Messia aspettato da sua nazione, sé il Cristo
profetato, sé figliuolo di Dio, rinnovatore ed estenditore all'intero mondo
della religione primitiva d'un solo Dio. Morto esso al tempo di Tiberio, sulla
croce, per opera degli ebrei che aspettavano un liberatore politico, un Messia
temporale, e che scandalezzandosi abborrivan questo; subito dopo, dodici
discepoli principali di lui, detti «apostoli», e sessanta altri, tutti gente
incolta, popolana, bassissima, e di quella nazione dispregiatissima, s'eran
dispersi ad annunziare il gran fatto che l'Uomo Dio era risuscitato e salito al
cielo, che regnerebbe spiritualmente a poco a poco sulla terra tutta, fino al
fine de' secoli, ed altre simili novelle, dette fin d'allora da nemici ed amici
«stoltezze de' cristiani», «stoltezze della croce». Eppure furono credute via
via, secondo che si spargevano; e si sparsero prontamente, largamente. In molte
cittá di Giudea, d'Asia, di Grecia, sorsero adunanze, chiese di cristiani. Il
principale de' principali discepoli ne fondò una in Antiochia, poi in Roma,
centro dell'imperio; e questa fu quindi la principale e centrale di tutte. Cosí
l'Italia ebbe da Dio quest'ufficio di centro della cristianitá: un ufficio,
come tutti quelli di quaggiú, dotato di diritti e vantaggi, carico di doveri,
che vedremo, nella storia seguente, perenni. In quelle chiese o congreghe
primitive s'accumunavano dapprima tutti i beni; poi, tanto almeno da mantenerne
i fratelli poveri; del resto, un solo Dio in cielo, una sola fede in terra, una
sola donna a ciascuno, le passioni umane condannate, il corpo vilipeso, l'anima
eterna sola importante; insomma, una credenza e una morale purissime, non
dissimili veramente da quelle speculate invano da alcuni filosofi, ma fatte ora
effettive, universali tra questi novatori, ma fondate su principi, su fatti i
piú contrari che potessero essere alla ragione pura, filosofica, precedente o
non ammettente que' fatti. Quindi, non che aiuto, repulsione, guerra di questi
filosofi allora trionfanti, guerra di ogni uomo dell'antica coltura allora
avanzatissima, guerra d'ogni uomo devoto alle religioni patrie, guerra di ogni
uomo di Stato serbatore di queste contro ai nuovi settari. E quindi supplizi,
martíri, persecuzioni legali contro essi. Dieci principali se ne contano, sotto
Nerone, Domiziano, Traiano, Marco Aurelio, Settimio Severo, Massimino, Decio,
Valeriano, Aureliano, e finalmente la piú feroce e piú universale sotto
Diocleziano; imperatori diversi, come si vede, gli uni tiranni, gli altri
buoni, altri grandi, e nel numero Traiano il sommo uomo di Stato, Marco Aurelio
il filosofo, tutti uniti nella massima di Stato di distrurre la nuova setta.
Eppure, tra tante opposizioni e persecuzioni, e contro ad ogni ragione e
probabilitá filosofica, politica e storica, contro ad ogni andamento consueto
degli eventi umani, queste «stoltezze cristiane» s'erano sparse fin da' tempi
di Traiano cosí, che Plinio si lagnava ne fosser deserti i templi de' numi
patrii, e che al principio del terzo secolo se ne scorgon pieni il palazzo,
Roma, le province, le legioni. E tutto un altro secolo durò, crebbe, soffrí
questa societá religiosa che taluni osan chiamare setta filosofica o politica,
ma che fu tutto all'opposto; non filosofica, posciaché, imponendo dommi e virtú
asprissime alla natura umana, conquistò pure quelle moltitudini dove niuna
filosofia riuscí mai a penetrare; e non politica nemmeno, posciaché appunto
diventò moltitudine e pluralitá di cittadini, senza entrar una volta nelle
contese, nelle congiure, ne' tumulti, nelle turpitudini dell'imperio. Ed ora,
siam per vedere l'imperatore farsi cristiano, senza un interesse che potesse
muoverlo, se non di prendere l'opinione, la religione de' piú; e cristiano
palesarsi a un tratto l'imperio tutto intiero. E quindi (benché non sia istituto
mio di persuader nessuno, ma solamente, com'è ad ogni storico, di presentare
gli eventi col carattere che vi vedo), quindi parmi dover notare, che tutta
questa serie d'eventi naturalissimi non poté succedere se non
sopranaturalmente, dico per intervenzione straordinaria, immediata, manifesta
della Providenza divina. Sant'Agostino e Dante posero questo dilemma di che non
s'esce: o la propagazione del cristianesimo innaturale in ogni etá,
innaturalissima in quella della massima coltura antica, fu effetto de' miracoli
che persuasero i neofiti; ovvero avvenne il miracolo maggiore, d'un fatto
grandissimo adempiutosi contro a tutte le ragioni naturali, un effetto senza
causa; e nell'un caso e nell'altro dunque, v'è miracolo, sopranaturalitá,
intervenzione, rivelazione, religione divina. - E il vero è poi, che senza
sopranaturalitá non si spiegano né il principio, né il mezzo, né l'andamento,
né lo scopo del genere umano, non la storia universale; e men che niuna, non la
storia speciale dell'Italia, sede del miracolo perenne della centralitá da
diciotto secoli.
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