16.
Coltura antica,
idolatra.
- Della religione giá dicemmo a suo luogo, e cosí faremo pure per le seguenti
etá, nelle quali le cose religiose si verranno sempre piú mescolando colle
civili e politiche; ondeché non ci resta né resterá a parlare separatamente se
non delle colture. - Nella etá dell'imperio romano, come due religioni, cosí
furono due colture, una antica e cadente coll'idolatria, una nuova e
progrediente col cristianesimo. - Il cader della prima incominciò vivente od
appena morto Augusto, e continuò senza interruzione, peggiorando via via poi;
ondeché non può attribuirsi, come si fa da alcuni, né ai barbari che erano
tuttavia lontanissimi, né al cristianesimo che era ancora impotentissimo a ciò.
Alcuni altri, del resto grandi, fanno causa di questa come d'ogni altra
decadenza della coltura, non so qual legge di periodicitá, a cui dicono
soggetta la natura umana; e per cui ogni coltura, giunta al sommo, dovrebbe
sempre e di necessitá cadere, fino a che sorga un'altra a succederle crescendo,
arrivando al sommo suo, e ricadendo di nuovo, all'infinito. Ma costoro si
lasciaron forse ingannare dallo spettacolo, frequente sí, non costante, di
siffatti periodi. I quali non si veggono dalla scienza or progredita né nella
coltura indiana né nella cinese; e men che mai in nessuna delle moderne
cristiane, non nell'italiana, né nella francese, e men che in niun'altra forse,
nell'inglese. E quindi sembra da abbandonare del tutto questa supposta legge
universale, e da cercar piú attentamente in ciascuna delle colture decadute le
cause speciali che la fecero decadere. E cosí facendo della romana, parrá
chiaro ch'ella decadde originariamente e principalmente per la sola ragione,
che fu spenta lá la libertá. Questa, il vedemmo, avea generati, educati prima
d'Augusto tutti i grandi del secolo ben detto «aureo», mal detto «d'Augusto».
Sotto il quale o dopo il quale non sorse piú uno pari a quelli, non uno forse
che sia poi stato detto «aureo». È accennato nel bellissimo opuscolo
contemporaneo Della perduta eloquenza, è volgare ai nostri dí: le
lettere si nutron di fatti gravi, importanti, da discutere, o narrare, o
ritrarre in qualunque modo di prosa e poesia; ondeché, cessando ovvero i fatti,
ovvero la libertá del discuterli o narrarli o ritrarli, ovvero peggio ed
insieme i fatti grandi e la libertá, cessa il cibo, il sangue, la vita delle
lettere; elle languono, si spossano, infermano talora fino a morte. E cosí
avvenne allora: l'eloquenza senza affari pubblici diventò retorica, o
panegirici, che suol essere lo stesso; la poesia, tragica, epica, o lirica,
inceppata dalle leggi di maestá, diventò leggiera, concettosa, non efficace,
non alta, non larga, versi non poesia; la filosofia resistette, die' alcuni
lampi, gli ultimi forse di quell'etá; ma la filosofia, che ha pretensione di
condurre ed è piú sovente condotta dalle lettere, seguí poscia anch'essa la
decadenza; e la seguirono, come sogliono, le arti e le scienze stesse.
Perciocché insomma le lettere che si dicono talora (appunto quando la servitú
le ha fatte incapaci) la piú vana, la men positiva, la men produttiva fra le
colture, son pur quelle che nutrono, ispirano e vivificano tutte le altre;
ondeché, mancando la vita ad esse, manca a tutte le altre. Né servono allora i
rimedi delle protezioni, o, come si suol dire, dei mecenati: non serví il vero
e vivo Mecenate, non Augusto ad impedire, non Vespasiano, Tito, Traiano,
Adriano, Antonino o Marc'Aurelio, a trattenere di molto la decadenza. E tutto
ciò è fuor d'ogni dubbio chiarito dalla successione, dalle date degli scrittori
via via minori. - Di Tibullo e Properzio, aurei ancora, si disputa in qual anno
nascessero, ma si crede negli anni ancor della repubblica. Ovidio nato negli
ultimi è certo il meno aureo degli aurei. Fedro, un servo trace nato piú o meno
tra le due etá, è aureo di stile, ma il genere trattato da lui è di quelli
minori, scelti appunto quando vengon meno i maggiori. Lucano, Persio, Stazio,
Marziale, Seneca il tragico, Seneca filosofo, del primo secolo dell'imperio,
son tutti minori e detti «argentei» unanimemente. - Quintiliano, fiorente tra
il primo e il secondo secolo, non se n'alza, pure sforzandosi di rialzar esso
le lettere cadenti. I due Plini, quantunque erudito il primo ed elegante il
secondo, e Giovenale stesso, quantunque generoso, non vi fecero guari piú. Se
avesse potuto farsi, sarebbe stato fatto da Tacito, uno scrittore, un uomo (per
quanto si sappia) di meravigliosa virtú in tempi or viziosi, or almeno minori.
Ma, vizio forse inevitabile in qualunque uomo combattente il secolo suo,
Tacito, resistendo alla decadenza giá invincibile, e sforzandovisi, ne rimase
aspro, duro, travagliato oltre alle leggi del bello, che non è piú bello quando
non è facile. E cosí Tacito rimarrá immortalmente simpatico agli animi
virtuosi, che si confortano allo spettacolo della altrui virtú infelice; ma
riman segno egli stesso della decadenza invano da lui trattenuta. Seguono
decadenti via via piú Svetonio, Frontino, Frontone, Petronio, numerati ancora
fra gli argentei; - e poi nel terzo, quarto e quinto secolo, detti di bronzo,
di ferro e non so piú che, una serie rara rara di minori, Ausonio, Claudiano,
Eutropio, Apuleio, Giustino, Macrobio, ed altri che non nomineremo. - Misti a
tutti questi latini, fiorirono alcuni greci, Plutarco solo grande, con una
turba di filosofi minori di varie scuole, od anzi di scuola ecletica in
Alessandria. E questi furono la speranza di Giuliano apostata. Dopo il quale
ancora, a' tempi di Teodosio, Simmaco, un senatore principale di Roma,
acquistava nome di eloquente o forse di animoso fra' contemporanei, difendendo
l'altare della Vittoria, ultimo degli idoli nella curia. Ma giudichi ora
ciascuno quale eloquenza, qual filosofia, quali animi retrogradi dovessero
esser questi; e qual regresso si fosse fatto, in somma, dalle varie ma tutte vive
ed incalzanti parole d'un Catone, d'un Cicerone o d'un Giulio Cesare. - Le
arti, greche e purissime da principio, riempirono dapprima Roma, poi l'imperio.
Augusto vantavasi di aver trovata Roma di mattoni, e lasciarla di marmi. E in
Gallia, in Ispagna e nell'estrema Africa, quasi come in Italia, si trovan resti
da far meravigliare quanto se n'empissero le cittá e le terre. Il fatto sta (e
credo sia da notare per l'avvenire dell'arti italiane che dovrebbon essere
provveditrici al mondo moderno), che l'ornamento dell'arti diventa un bisogno
in tutte le civiltá molto avanzate. Ancora, a tutte queste province fu estesa
dagli imperatori la rete delle strade romane. Tutto ciò fino agli Antonini. Ma
arti ed opere pubbliche furono neglette nel secolo delle contese e de'
moltiplici imperatori; e giá colle lettere si trovano l'arti molto corrotte
solto Diocleziano e Costantino, e corrottissime poi al cader dell'imperio. I
barbari sopravegnenti non trovarono della coltura antica nulla da corrompere;
tutt'al piú, resti da disperdere.
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