13.
La casa de'
Franconi o Ghibellini. Corrado il salico [1024-1039]. - Incomincia quindi la nuova casa detta de'
Vibellini, o Ghibellini, dal castello di Weibelingen lor culla, e de' Franconi,
dalla provincia dove eran cresciuti e fattisi duchi prima di salire al regno ed
all'imperio. E perché le mutazioni di dinastie sogliono essere insieme effetti
e cause di nuove condizioni nazionali, perciò da esse si dividono
opportunamente le storie di parecchie altre nazioni, e perciò parecchi storici
imitatori cosí dividon la nostra. Ma molto inopportunamente questi, a parer
mio. Perciocché, quando i re son di due nazioni, le mutazioni di dinastie si
fanno secondo le mutazioni della nazione dov'elle sono nazionali, e non di
quella dove elle sono straniere; ondeché queste mutazioni di dinastie, patite e
non fatte da noi, non sono se non segno nuovo di solita sofferenza e non di
mutazioni nazionali nostre. Le quali poi in Italia venner da altro, e appunto
in bel mezzo della presente dinastia. - Eletto dunque re in Germania Corrado
duca di Franconia, egli rimaneva, secondo il diritto germanico, re d'Italia. Ma
non secondo il diritto italico. I tedeschi eran venuti piú e piú a noia. Appena
saputa la morte di Arrigo il santo, i pavesi avean a furia di popolo distrutto
il palazzo regio di lor cittá. Quindi Maginfredo conte e marchese di Torino,
Alrico vescovo d'Asti fratello di lui, i marchesi d'Este ed altri grandi offrono
la corona a Roberto re di Francia, secondo de' Capezi, per lui o suo figlio; e
rifiutati, a Guglielmo duca d'Aquitania pur per lui o suo figlio; e il duca
viene a Italia, guarda, esamina, e va via. Tanto era caduta ancor da vent'anni
la misera corona, non piú osata cingere da nessuno di que' marchesi italiani,
portata fuori ad offrir qua e lá, e rifiutata da ciascuno per non mettersi in
nostre divisioni, nostri odii, nostre invidiuzze, direi quasi nostri
pettegolezzi. Intanto Ariberto, arcivescovo potentissimo di Milano, tronca i
dubbi, e va a Germania a far omaggio a Corrado ed incoronarlo [1025]. Scende
questi poco appresso [1026], e con grand'oste muove contro a Pavia; ma
trovatala forte, va a farsi incoronar a Monza, e poi prende cittá e castella, e
viene a Ravenna, dove nasce nuova baruffa tra tedeschi e cittadini, torna a
Milano, passa l'inverno in Ivrea. L'anno appresso [1027] passa per Toscana e si
fa incoronare imperatore in Roma da papa Giovanni XIX; ed ivi terza baruffa tra
romani e tedeschi. Tutto inutile. Scende a Benevento e Capua, e vi si fa
riconoscere all'intorno, risale a Roma, a Ravenna, a Verona, a Germania,
lasciando tranquilli i pavesi, a patto che riedifichino il palazzo. Resta
Ariberto con quella potenza di vicario imperiale, che incominciavano a dar
gl'imperatori a' lor aderenti principali qua e lá. Era naturale; gl'imperatori
non potendo far valer essi da lungi lor autoritá indeterminata, sconosciuta, la
trasmettevano qual era, per valer ciò che potesse, a qualche grande che paresse
poterlo da vicino. Nel 1032, egli Ariberto e Bonifazio, marchese di Toscana,
guidano un esercito d'italiani in aiuto a Corrado che prese il regno di
Borgogna finito allora in Rodolfo. Nel 1035, scoppia tra l'arcivescovo e i suoi
valvassori di Milano una guerra grave, e molto notevole a far intendere le
condizioni di quella societá feodale cosí diversa dalla nostra. Perciocché
sembra ne sorgessero allora piú o meno delle simili in Italia, ed anche fuori,
tra i vassalli grandi, o, come si diceano, «capitani seniori», o signori, e i
valvassori piccoli o «iuniori». Era finito il secol d'oro di quelli,
incominciava di questi; era un principio di quell'emancipazione delle classi
inferiori dalle superiori che dura d'allora in poi. Combattessi in Milano, i
piccoli valvassori n'usciron vinti: ma si fecer forti de' lor pari alla
campagna; e tutti insieme alzarono una lega, un tumulto, che chiamossi «la
Motta» (e voleva probabilmente dire «ammottinamento»), e andò allargandosi via
via. Scende allora [fine 1036] Corrado a giudicar e compor questi nuovi
turbamenti; e favorisce la Motta contra l'arcivescovo, i valvassori piccoli
contro a' vassalli grandi. Era naturale, era séguito della politica imperiale,
che vedemmo dividere i ducati in comitati; i comitati grandi in piccoli, od in
giurisdizion del vescovo entro alla cittá e il «corpo santo», e comitato
diventato rurale; o piuttosto è politica di tutti i grandissimi, che contro a'
grandi innalzano i piccoli. E cosí Corrado tiene prima a bada Ariberto accorso
in sua corte, e poscia in Pavia fa prender lui, e qua e lá altri vescovi.
Ariberto ubbriaca, dicesi, i tedeschi che gli erano a guardia, e fugge a
Milano. Vienvi a campo l'imperadore, e sfoga il dispetto contra terre e
castella; e poi, rotto dall'arcivescovo e milanesi, si ritragge a Cremona, e
poi a Parma, dove sorge la solita baruffa tra popolo e tedeschi. E fu durante
l'assedio di Milano, addí 28 maggio, che Corrado fece la sua famosa
costituzione de' feudi, in che appunto ei protegge i feudatari piccoli contro
a' grandi, e li fa ereditari: quella costituzione che fu giá detta perfezione
del bel sistema feodale, che noi diremo nuovo passo a libertá. E fu pur da
questo assedio che incominciò Milano ad essere antitedesca; e perciò, per le
solite emulazioni de' vicini italiani, diventò all'incontro tedesca Pavia; un
rovesciamento di parti, onde vedrem sorgere maggiori pericoli e rovine, ma
maggior potenza e gloria a Milano. Sciolto dall'assedio, l'arcivescovo
vittorioso offrí la corona al conte di Sciampagna; e dicesi questi
l'accettasse, ma appunto allora ei morí. Ad ogni modo, l'imperatore chiamato da
papa Benedetto IX, che si trovava ne' medesimi frangenti co' suoi baroni, fu
[1038] a Roma, dove ripose il papa in potenza, e poi a Capua e Benevento alle
solite contese di colá; le quali poi lasciando, non men che quelle di Milano,
ei risalí a Germania, e vi morí l'anno appresso [1039]. Intanto Ariberto,
pressato da' vicini di parte imperiale e da' propri valvassori, seguiva la
medesima arte che l'imperatore, quella solita di sollevar contro ai propri
minori i minimi, i popolani cittadini o campagnuoli da lui dipendenti. E perché
questi non erano come i militi a cavallo, ma povera gente a piè, dava ad essi a
stendardo, a segno di raccolta in battaglia, quel carro grave, tirato da buoi,
e portante una campana, che era stato usato giá da' monaci certamente (vedi Cronaca
della Novalesa), e forse da' vescovi, a raccoglier le tasse di lor
dipendenti; e che accresciuto quando che sia della croce, e d'un intiero altare
a dirvi messa e dar benedizione a' combattenti, fu ora chiamato il «carroccio»;
e fu usato poi da quasi tutte le cittá italiane, troppo di rado sacro nelle
guerre d'indipendenza, troppo sovente sacrilego nelle civili di cittá a cittá,
o di cittadini a concittadini, famoso ad ogni modo nelle nostre storie. Sarebbe
bello a qualche principe italiano restaurar, rimodernandola, la nazionale e
devota usanza. Ma, mentre in Germania si rinnovano quanti si possono di
siffatti sussidi allo spirito di nazionalitá, in Italia si disprezzano come
erudizioni del passato, o sogni dell'avvenire.
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