7.
Corrado II [1138-1152]. - Fu disputata la
corona tra Arrigo d'Este o de' Guelfi, duca di Baviera e Sassonia, detto il
«superbo», e potentissimo in Germania ed Italia, e quel Corrado d'Hohenstaufen
che giá vedemmo tener per poco il regno d'Italia. Vinse Corrado l'elezione; e
quindi incominciò il lungo regnare di questi Svevi; e incominciarono insieme in
Germania i due nomi di «guelfi» e «ghibellini», il primo ad accennar la parte
antiimperiale, il secondo quella degli imperatori Svevi eredi e successori
della prima e propriamente detta casa Ghibellina. Morto Arrigo il superbo nel
1139, Guelfo, fratello di lui, continuò la parte e guerreggiò contra Corrado; e
finalmente andarono amendue [1147] a quella seconda crociata che, promossa con
tanto zelo da san Bernardo, terminò cosí male. Ma tornatine i due,
guerreggiossi di nuovo nel 1150; e vincitore Corrado si disponeva a scendere in
Italia, quando morí nel 1152. Fu il primo imperatore che non iscendesse mai;
furon quindici anni d'abbandono, di respiro, dal signore straniero. - Ma gli
intervalli d'abbandono, di signoria non sentita, son quelli in che appunto gli
improvidi italiani pensaron sempre meno a liberarsi; e que' nostri padri non si
valsero di que' quindici anni se non a dividersi e guerreggiarsi tra sé piú e
piú, per quegli interessi piccoli e presenti, che fanno improvidi gli uomini ai
grandi e futuri. Morto Anacleto antipapa, continuò la parte di lui, e fu
ridotta ad obbedienza per intervenzione di san Bernardo il gran pacificatore.
Ma sorsero intanto nuovi turbamenti in Roma per Arnaldo da Brescia, un
riformatore ostile e inopportuno della Chiesa, ultimamente e bene riformata da
Gregorio VII e i successori. Fu condannato in concilio fin dal 1139, e
combattuto anch'esso da san Bernardo. Continuò Ruggieri sue guerre di conquista
e riunione del Regno, e gli fu confermato questo [1139] da papa Innocenzo II. E
morto Innocenzo [1143], succedettergli Celestino II, Lucio II, Eugenio III,
buoni pontefici, turbati da' grandi romani costituitisi in senato; imitazione
forse buona de' nuovi Consigli di credenza, ma fatta risibile dalla formola di
«senatus populusque romanus», che si riprese. Le grandi formole usate
nelle cose piccole non servono che a far sentire tal piccolezza. In Toscana e
Lombardia guerreggiaronsi peggio che mai le cittá; Roma contra Tivoli, Milano
contra Cremona, Milano contra Como, Pavia contra Verona, Verona contra Padova,
Padova contra Venezia, Venezia contra Ravenna, Piacenza e Milano contra Parma e
Cremona, Modena e Reggio e Parma contra Bologna, Bologna e Faenza contra
Ravenna ed Imola e Forlí, Verona e Vicenza contra Padova e Treviso, Venezia
contra Pisa, Pisa e Firenze contra Lucca e Siena; trista lista abbreviata sui
cenni probabilmente non compiuti del Muratori, e che ho voluto qui porre a
mostrare quali fossero in generale gli errori della gioventú di que' comuni,
quali in particolare lor mali apparecchi alla grande occasione nazionale che
s'appressava. Né ciò era tutto; dividevasi ogni cittá in parti pro o contra
l'imperio, pro o contra ogni discesa imperiale, pro o contra que' nobili, que'
capitani o cattani, rinchiusi gli uni in lor castella e talor pretendenti alla
signoria feodale della cittá, aggregati gli altri alle cittadinanze e rinchiusi
in loro alberghi o case consortili. Era uno sminuzzamento di potenza, una
discordia universale, maggiore che non la feodale stessa; migliore in ciò solo,
che la discordia era almeno per gli interessi di tutti e non dei pochi
tiranneggianti. Ma le discordie, quali che sieno, son mali apparecchi,
perdizioni delle occasioni nazionali. E tanto piú che le discordie non sogliono
essere altro che invidie; e le invidie sono il vizio piú pervertitore delle
menti; e le menti pervertite non sono piú bastanti alle dure imprese
d'indipendenza. Il vedremo registrato qui; e il vedemmo, in natura, altrove.
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