PREFAZIONE
PROGETTATA DALL'AUTORE PER L'EDIZIONE NONA
Nella prefazione
all'edizione terza di Losanna 1846, ho esposto come mi venisse scritto questo
volume ad uso di un'enciclopedia, quali aiuti e difficoltá vi avessi, quali
opposizioni io prevedessi dall'opinione di quei tempi; tutti que' particolari
insomma, che sono o paiono necessari a dirsi, al momento di una pubblicazione. Ma
passati pochi anni, tuttociò non ha guari piú interesse se non per chi scriva
forse qualche articolo di bibliografia, biografia, o storia letteraria.
E cosí sará
probabilmente dei particolari seguenti che mi paiono ora necessari. Non tenendo
conto delle due edizioni fatte senza mia saputa (con data di Bastia... e
Losanna 1849) 1, questa è la prima, che rifaccia io dopo quella terza
del 1846. Ora, cosí facendo dopo quattro tali anni, io v'avevo due soli modi
schietti: primo, ristampare esattamente il mio testo del 1846, per serbare cosí
intiero quel poco di merito o di fortuna che poté essere allora a prevedere e
suggerire qua o lá alcuni «invidiati veri». E confesserò che, oltre alla
pigrizia, la mia vanitá letteraria, od anche politica, mi fece pendere a tal
modo. Ma per cosí fare con indisputabile ischiettezza, era necessario non
introdurre una correzione né di storia, né di stile, o nemmeno di stampa;
lasciare il testo scrupolosamente qual era, e poter dire che non vi s'era
mutato una sillaba. E mi parve men bello, e forse brutto sagrificare a quelle
vanitá quanti miglioramenti avessi a fare, ora omai, al mio lavoro. Se io
ristampassi quelle opere politiche che scrissi giá a diverse occasioni, io mi
terrei a siffatto modo di riproduzione letterale, sola onesta in tal caso. Ma
qualunque scritto fatto con intenzione a tutti i tempi, e perciò qualunque
storia, deve certamente migliorarsi dallo scrittore, finché e quanto piú possa.
- Quindi mi appigliai e seguii il secondo modo; di fare tutte le correzioni di
stampa, di stile, di storia, od anche di politica, che mi venisser sembrando
necessarie od utili, senza niun ritegno né cattiva vergogna. Io m'ero giá dato
l'esempio di non temer condannarmi, accennando ai fatti del 1809; che se poi io
abbia forse dimostrata qualche consistenza di princípi e di fatti nella mia non
breve vita letteraria o politica, io me l'attribuisco non a merito ma a
fortuna; alla fortuna primamente dell'educazione e degli esempi paterni, ed a
quella pur forse d'essermi rivolto a questi studi della storia nostra. Né di
biasimo, ma di lode mi sembran degni coloro, pochi pur troppo, i quali sanno
fare buon pro degli insegnamenti dati dalla sperienza o dallo spettacolo di
grandi eventi.
Ma il fatto sta che
effettuando con tali propositi le mie correzioni, e facendone innumerevoli di
stampa e di stile, ed alcune ne' fatti storici, non ne trovai, ch'io ne sia
conscio, una sola da fare ne' miei princípi storici o politici, ed una sola
(che notai) nelle mie previsioni; e che tutte le altre mi sembrano anzi, esser
consistite in porre al passato alcune allusioni le quali erano al futuro,
ovvero in confermare, e rinforzare i princípi giá posti. - Del resto, le due
edizioni sono lí, facili ad aversi alle mani da chiunque voglia comparare, giudicare
o biasimare. Io abbandono il mio libro e me stesso a' miei critici nemici od
amici. Non trovai tempo finora, ed ancor meno genio a scrivere delle cose mie;
né forse ne troverò: e rimango intanto non senza fiducia che la mia indifesa
perseveranza sia per aggiungere qualche conferma a quei princípi, di che
penetrato io ogni di piú, è naturale ch'io desideri penetrare i miei
compatrioti.
A coloro poi i quali
biasimano, quasi contrario alla imparzialitá della storia, questo modo di
scriverne, non solamente narrando ma giudicando, io ho giá risposto e nella
citata prefazione ed altrove. Ma perché, se v'è colpa, io l'ho aggravata nella
presente edizione, aggiugnerò qui: che l'imparzialitá mi sembra consistere non
nel non giudicare, ma nel giudicare imparzialmente; che anzi non capisco come
possa essere imparzialitá dove non sia giudizio; che senza questo non può
essere se non indifferenza, e che le storie (fortunatamente rare) scritte con
indifferenza alla virtú od al vizio, alla buona od alla cattiva politica della
patria, adempiono male quell'ufficio, che pur si pretende imporre alla storia,
di maestra della vita pubblica degli uomini e delle nazioni. Del resto, tutto
ciò tocca a una questione piú che letteraria e delle piú importanti nelle
condizioni presenti della patria nostra. A qualunque nazione è necessario farsi
e tener ferma una politica nazionale. È chiaro per sé; uomo o nazione, niuno
vive bene senza uno scopo buono e ben tenuto; e la fortuna è de' perduranti. Ma
abbondano gli esempi a conferma: Roma antica, ed anche moderna; casa d'Austria
da parecchi secoli; casa Prussia e casa Russia da poco piú di uno; il piccolo e
nuovo Belgio da vent'anni; e sopratutto quei due popoli che vantan comune il
vecchio sangue sassone, ma si trovano in condizioni e luoghi cosí diversi;
vecchio l'uno sul proprio suolo, monarchico, ed in mezzo agli interessi
europei; nuovo l'altro all'incontro, repubblicano ed isolato fra le solitudini
americane; e che tutti e due colla fermezza delle loro politiche interne sono
cresciuti, l'uno da centocinquanta l'altro da settantacinque anni, a tal
grandezza da contendersi e dividersi oramai l'imperio, il primato, l'egemonia
dell'orbe intiero. Noi siamo lungi da siffatti destini; non abbiamo da
conquistar egemonie, preoccupate da altri, impossibili a tramutarsi, stolte a
sognarsi, per ogni avvenire prevedibile. Ma abbiamo conquiste molto piú
importanti a fare o compiere; la libertá e l'indipendenza importano
incomparabilmente piú che l'imperio del mondo. Né arriveremo mai a siffatti scopi,
se non sappiamo prefiggerli a noi stessi con sapienza, e tendervi poi con
virilitá e costanza; cioè se non sappiam farci e seguir poi una buona politica
nazionale. Miriamo agli esempi contrari e fatali del secolo presente: Francia,
Spagna, Germania, Polonia; o meglio, miriamo a noi stessi da quattordici secoli
in qua fino a ieri.
Nelle monarchie assolute
e nelle aristocrazie, le politiche nazionali si fondano e si serbano molto piú
facilmente; basta un gran principe o un gran cittadino ad inventarle; e si
tramandano poi per successione, per educazione, per tradizione. Fu giá piú
difficile nelle democrazie antiche e del medio evo, dove molti giá concorrevano
ad avviare o sviare la cosa pubblica; ma negli Stati rappresentativi moderni
(repubbliche o monarchie con poca differenza, benché con qualche vantaggio
dell'ultime) i concorrenti alla cosa pubblica non sono piú a migliaia, né a
centinaia di migliaia, come i cittadini raccolti sulle piazze di quelle
repubbliche municipali; bensí a milioni sparsi su territori estesi e diversi;
ondeché è cresciuta d'altrettanto, dall'uno al mille talora, la difficoltá di
formare e serbare quell'opinione comune e costante che forma e serba qualunque
politica nazionale. Che anzi, la difficoltá sarebbe impossibilitá senza quell'aiuto,
quello stromento somministrato a tempo dalla Provvidenza conduttrice degli
eventi umani; non fu possibile il vero e durevole ordinamento de' governi
rappresentativi, prima che si fosse inventato e diffuso un mezzo ad ampliare la
discussione della cosa pubblica in quella medesima proporzione, prima che si
fosse inventata e diffusa la stampa. Io ho accennato in questo volume l'epoca
dell'invenzione della rappresentanza, precedente di due secoli alla invenzione,
di tre o quattro alla diffusione della stampa. E l'invenzione della
rappresentanza non serví, venne meno, si neglesse, si perdé, finché non fu
fatta e diffusa quella della stampa.
La stampa aiuta il buono
ordinamento degli Stati rappresentativi in tre modi: 1° diffondendo in tutti
gli angoli del paese, portando a cognizione di tutti i concorrenti alla cosa
pubblica gli atti e i discorsi e le opinioni degli uomini pubblici che la
conducono; 2° discutendo via via quegli atti, que' discorsi, quelle opinioni,
tutta la politica giornaliera; 3° innalzandosi a discutere, sforzandosi a
stabilire una politica permanente della nazione. I due primi uffici sono della
stampa giornaliera; dove questa esiste ed è libera, cessa l'utilitá e la
frequenza di quegli scritti politici fatti all'occasione, che si dicono altrove
«di circostanza», «brochures», «pamphlets». Ma tutt'all'incontro,
l'ufficio di fondare la politica permanente d'una nazione qualunque non può
esser adempiuto bene dalla stampa giornaliera; preoccupata della giornaliera
politica; non si può, non si suole adempier bene da essa, nemmeno presso alle
nazioni raccolte in uno Stato, dove sono una cosa sola la politica della
nazione e quella dello Stato; ma è piú impossibile che mai presso a una nazione
divisa in vari Stati, dove perciò sono cose necessariamente moltiplici la
politica della nazione intiera e le politiche parziali degli Stati divisi. Non
serve deplorar sempre i fatti deplorabili; bisogna mutarli dove sia possibile;
e dove no, sapervi applicare la politica giornaliera o permanente della patria.
E cosí in una divisa in parecchi Stati, quand'anche fossero tutti
rappresentativi, bisogna saper vedere che la politica nazionale permanente non
è possibile a formarsi bene né dagli oratori né dai pubblicisti giornalieri di
ciascuno di quegli Stati; non è possibile, se mai, se non da quegli scrittori
che rotti alla pratica ed allo studio della cosa pubblica ne sappiano raccôrre
i risultati in iscritti posati e meditati con mira alla patria intiera. Dico
che questi soli hanno probabilitá di fondare una politica permanente della
nazione italiana, perché non tengo per probabilitá computabile, tengo per poco
piú che caso, quello che avvenisse mai d'un principe od uomo di Stato, cosí
grande insieme e cosí fortunato, da vincere le discordie e le invidie, da raccôrre
in una le diverse opinioni, le politiche parziali italiane.
Tolto un tal caso, un
tal dono di Dio, che non si sprechi l'ufficio di fondare la futura politica
patria, non può appartenere se non agli studi, agli scritti gravi, lungamente,
virilmente apparecchiati e condotti; non può appartenere se non a voi, giovani
scrittori italiani i quali venite su in etá tanto piú fortunata che non la
nostra, i quali v'avete non solamente quella libertá di scrivere e pubblicare,
quelle occasioni e quegli eccitamenti che non avemmo noi, ma uno scopo oramai
determinato e magnifico, lo scopo di mantenere ed estendere la libertá e
l'indipendenza. Non vi lasciate forse ingannare da vane speranze o vani timori,
lusinghe d'ogni pigrizia, impedimenti ad ogni operare. Questa politica
nazionale non ci è, ma ci può essere per opera virile di voi. Non ci è,
posciaché si tituba ancora; ne' fatti, tra l'assolutismo e la libertá
rappresentativa; e nell'opinione, tra la monarchia rappresentativa e le
repubbliche rappresentativa o democratica o sociale o che so io, posciaché si
dubita forse della stessa necessitá dell'indipendenza, certo sui modi di
acquistarla ed ordinarla. Ma ella può essere poi certamente. Non sono i
compatrioti vostri piú ottusi o men capaci di ragione degli altri popoli
civili; sono, è vero, piú appassionati nell'azione, piú disavvezzi d'ogni
politica, piú nuovi alla rappresentativa: ma non vi lasciate sgomentare; tali
difficoltá son di quelle che si vincono. Voi vincerete le passioni colla
ragione, purché vogliate ragionare, valendovi de' riposi che avvengono sempre
tra le rivoluzioni; voi vincerete ogni ignoranza con gli studi vostri, purché
li sappiate fare e scrivere poi con sinceritá, semplicitá e virilitá. Né vi
lasciate soverchiare, nemmeno dal sentimento (quantunque bello, in voi giovani
principalmente) del rispetto ai maggiori. I vostri grandi avi, iniziatori di
tutta la coltura e di gran parte della civiltá europea, scrissero secondo le
opportunitá e le possibilitá di quei princípi; non potevano scrivere secondo le
possibilitá e per le necessitá de' vostri tempi progrediti e progredienti. I
vostri avi piú vicini e minori scrissero di ciò che potevano, e cosí non, o
male, di politica, lungo i tre secoli di servitú. E i vostri padri poterono a
stento abbozzare, accennare desidèri. Voi avete un dovere, un destino severo,
ma magnifico; avete tutto da fare in materia di politica nazionale, avete
un'opera meno da compiere che da fare o rifare tutta intiera; tutta l'opera
politica della patria vostra, tutte le parti ond'ella si compone: spiegazioni
del passato, esposizioni del presente, previsioni dell'avvenire, storia
generale della patria, storie speciali de' diversi Stati e delle diverse etá,
politica generale e politiche speciali, statistiche od inventari delle forze
vive o morte della nazione, comparazione con quelle degli avversari, degli
alleati, di tutti i compagni di civiltá; ed avete ad inventare per fino le
forme, i mezzi, lo stile e la lingua a tutto ciò. Tutto ciò decadde ne' tre
secoli, né si può imitare da modelli piú antichi, antiquati. Voi avete tutto a
fare; voi siete nella piú bella condizione che sia o possa essere al mondo, per
uomini giovani, forti, e bramosi di servir la patria.
Quanto alla storia in
particolare, io non vorrei cadere in quel vizio o pedanteria di esagerare
l'importanza di quello studio a che abbia atteso ciascuno piú specialmente. E
quindi non aderirò a quel detto, che la storia non sia la gran maestra della
vita pubblica agli uomini ed alle nazioni; piú gran maestra agli uni e all'altre
è la pratica senza dubbio. Ma dove manchi la buona pratica (e tale è il caso
nostro pur troppo), la storia è pure il miglior aiuto, il miglior fondamento
che si possa avere ad una politica nazionale. Mal si fonda qualunque politica
sulle piú profonde considerazioni teoriche o filosofiche, ovvero sulle stesse
condizioni naturali del paese o delle schiatte. A quel modo che non poche cose
fatte di mano degli uomini, come le fortezze, le vie, i canali, i porti di mare
e le grandi cittá diventano condizioni del paese non meno reali od importanti
che le naturali, i monti, i fiumi, o le marine; cosí i fatti de' maggiori
lasciano tradizioni, memorie, nomi, glorie, addentellati, che son pur essi
realitá in mezzo a quelle de' fatti presenti. E la storia poi è il solo
registro di tali realitá; sola ella ricorda come sí sien poste in opera or bene
or male queste e tutte le altre realitá naturali od artefatte, tutte le forze
vive o morte della nazione; sola ella può giudicare quali esempi patrii sieno
da imitare, quali da fuggire. Una nazione nuova senza storia (come l'americana)
ha nel fondare la sua politica i vantaggi degli uomini nuovi; piú operositá,
piú o sola preoccupazione avvenire, niun impaccio di diritti o pregiudizi
passati. Ma una nazione vecchia, e che perciò abbia storia, ma non la sappia,
non ha i vantaggi né degli uomini nuovi né degli antichi, ha tutti gli
svantaggi degli uni e degli altri, orgogli con ignoranze, pregiudizi senza
tradizioni, i vizi senza le virtú degli avi, impossibilitá di rifare il
passato, incapacitá di farsi un avvenire. Non v'è rimedio; non si può uscire
dalle condizioni del proprio essere; bisogna saper esser bene ciò che si è; chi
ha un passato, debbe tenerne conto nel presente, se vuole apparecchiarsi un
avvenire.
Ma io tronco questo
discorso di un tempo che si annunzia oramai sereno all'operositá italiana, per
tornare alla mia oscuritá. Fu giá sogno di mia gioventú letteraria scrivere una
storia generale di mia patria. Fu colpa mia non averlo adempiuto? Dio solo sa
ciò che avrebbono potuto gli uomini. Ad ogni modo questo volume è misero resto
di quel sogno. Sia tale almeno, che porti seco tutta quella utilitá che può
avere. Un ristretto come questo non può recare quegli esempi particolari che
soli servono d'insegnamento alla vita pubblica degli uomini; ma raccogliendo in
poco spazio e presentando cosí alla memoria ed all'attenzione altrui la vita
intiera d'una nazione, può servir talora alla formazione della politica
permanente di lei. Non aggiungo alla piccolezza del lavoro né la miseria delle
vanitá personali né quella di troppa obbedienza alle supposte od anche alle
buone regole. Se si trovi soverchio il mio discorrere per un sommario, si muti
questa parola sul titolo, e vi si ponga Discorsi. Ci sará cosí almeno
conceduto il discorrere.
Per servire al medesimo
scopo, ho esteso e posto al passato il cenno ch'io faceva giá degli anni non
finiti allora dal 1814 al 1848; ed ho aggiunte alcune parole sugli anni
presenti. - Debbo i miglioramenti tipografici, e quello principale dell'indice
dei nomi, a' miei editori; e debbo al signor Reumont, tedesco caro all'Italia,
alcune correzioni dei fatti storici: ne avrei potute far altre, se in questi
anni in che si pensava a tutt'altro che libri, non avessi smarrite alcune
simili note mandatemi da altri benevoli ed attenti leggitori. Se non fosse
indiscrezione nuova, pregherei questi a rimandarmele, e chicchessia a
mandarmene altre. S'intende sempre correzioni di fatti; ché, quanto a' princípi
od opinioni, è piú difficile che mai ch'io ne muti nessuna.
Torino, 5 novembre 1850.
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