11.
Continua. - Allora,
naturalmente, ad accrescersi la lega lombarda, la Concordia; ad entrarvi
Novara, Vercelli, Como, Asti, Tortona, parecchi signori feudali, il marchese
Malaspina stesso. Non rimanevano guari piú imperiali, se non Pavia e il
marchese di Monferrato. E contra questi, i confederati immaginarono edificare
una fortezza; ma le fortezze di que' tempi erano le cittá, o piuttosto i
numerosi cittadini. E cosí in un piano tra Bormida e Tanaro fondarono una cittá
nuova, che dal papa, loro alleato, chiamarono Alessandria; e la fortificarono e
popolarono dalle terre all'intorno, in tal modo che dicesi armasse nell'anno
quindicimila guerrieri [1168]. Poi entrarono nella Concordia nuove cittá,
Ravenna, Rimini, Imola, Forlí; e allora preser il nome piú esteso di «Societá
di Venezia, Lombardia, Marca e Romagna ed Alessandria». I consoli delle cittá
si riunivano a parlamento ed eleggevan rettori della Societá; e si estesero i
giuramenti a non far pace né tregua né compromesso coll'imperatore, ad impedire
«che non scendesse esercito imperiale grosso né piccolo di qua dall'Alpi», a
mantener la lega per cinquant'anni; tutto magnifico, salvo che mancarono sempre
in quegli atti le due parole, in quelle menti le due idee d'«indipendenza» e
d'«Italia». E queste furono le deficienze (non, come si dice dal Sismondi ed
altri, quella di una repubblica federativa; perciocché una tale era giá di
fatto costituita nell'assemblea de' consoli di ogni cittá; né sei secoli
appresso, durante la rivoluzione tanto piú felice degli anglo-americani, s'ebbe
mai niuna assemblea confederativa piú ordinata), queste furono le deficienze
che perdettero tutto, che fecero inutili poi tutti gli altri fatti di quella
guerra; queste, che fecero la Societá lombarda tanto meno gloriosa ed efficace
che non le leghe posteriori delle Province unite di Neerlandia o d'America;
queste, che rimangono scusabili forse per l'opinione mal avanzata o piuttosto
pervertita dall'antico amore all'imperio, ma deplorabili ad ogni modo da quanti
italiani sentano oramai la virtú di quelle due parole od idee. - Sei anni
rimase allora l'Italia senza l'imperatore, occupato nelle sue cose germaniche;
né la lega progredí guari piú. Genova, che avea privilegi assicurati e che non
volea concordia ma guerra colla odiata Pisa, non aderí mai; e questa guerra
delle due trasse seco quella di Toscana tutta, Lucca, Siena e Pistoia con
Genova, Firenze e Prato con Pisa. E niuna di queste aderí, e tutte trattarono piú
o meno con Cristiano, arcivescovo di Magonza, cancelliere imperiale e capitano
d'eserciti; ed Ancona sostenne uno stupendo assedio contra questo prete
guerriero, ma s'accostò non alla Societá, sí all'imperator greco, e cosí ebbe
contro di sé Venezia. E finalmente, nefando a dire, in uno de' giuramenti di
confederazione, di societá, di concordia, trovasi Cremona riserbarsi il diritto
di tener distrutta la vicina ed invisa Crema. Duole nell'anima, ma cosí è. Noi
non abbiamo vent'anni di storia compiutamente bella, di vera concordia in tutti
i nostri secoli moderni. Il fatto è; sappiam vederlo e confessarlo una volta
finalmente, per non rifarlo mai piú. Alle nazioni, come ai principi, come ad
ogni uomo, l'essenziale non è non aver errato, ma risolversi a non rifare il
medesimo errore. - Nel 1174 ridiscese finalmente Federigo per la quinta ed
ultima volta. Non gli era aperto se non il passo di Susa, per le terre dei
conti di Savoia che troppo duole trovare qui. Scendendo il Moncenisio arse
Susa, a vendetta del fatto di sei anni addietro. S'avanzò ad Asti, la quale,
meno devota a libertá che non la prima volta, entrò in patti e si sottopose.
S'avanzò contra Alessandria; e questa, cinta di mura di terra pesta e paglia,
ovvero coperta i tetti di paglia (onde il glorioso nome rimastole di
Alessandria «della paglia»), si difese fortemente quattro mesi, senza soccorsi
della Societá. Finalmente, adunata questa a Modena, mandò un esercito; e
Federigo, levato l'assedio [1175], mosse verso quello. Ma, non assalito (forse
per il solito rispetto all'imperio), entrò in trattati; ottenne, licenziando
l'esercito suo, che i lombardi licenziassero il loro; e cosí egli e sua corte
ebbero il passo e giunsero a Pavia. Seguirono trattati nuovi, che non
condussero a conchiusione, ma che giá allentarono la Societá. E cosí passò,
perdettesi il rimanente di quell'anno. - Alla primavera del seguente e
gloriosissimo 1176, scese un nuovo esercito tedesco per li Grigioni e Como, in
aiuto all'imperatore; ed egli, lasciando la corte in Pavia, andò di sua persona
di soppiatto a raggiungerlo. Allora, i milanesi aiutati solamente delle milizie
di Piacenza, e d'alcuni scelti di Verona, Brescia, Novara, Vercelli, e forse
(come vantano alcune famiglie in lor tradizioni) di fuorusciti di altre cittá diroccate,
uscirono alla campagna, formarono due compagnie elette nomate «della Morte» e
«del Carroccio», e s'avanzarono sulla via da Milano al Lago Maggiore.
S'incontrarono a Legnano, ed ivi seguí, addí 29 maggio 1176, la piú bella
battaglia di nostra storia. I lombardi, vedendo avanzar l'oste straniera, si
inginocchiarono per chiedere a Dio la vittoria, si rialzarono risoluti ad
ottenerla o morire; la disputarono a lungo, l'ottener compiuta. Federigo, non
gran capitano di guerra, ma grande uomo di battaglia, gran cavaliero, cadde
combattendo presso al carroccio, non comparve alla fuga, arrivò solo e giá
pianto a Pavia. Ma Federigo fu troppo piú gran negoziatore, grand'uomo di
Stato, conobbe i tempi, cedette a proposito. Adunque mandò ambasciatori a papa
Alessandro, che era stato alleato non capo della guerra: ma che doveva essere
naturalmente, e tal fu ora de' negoziati; e che potrebbe in essi accusarsi
d'aver derelitta la Societá lombarda, se non fosse che due doveri sono in
qualunque papa, di capo della cristianitá e di principe italiano, e che quello
è primo incontrastabilmente, e lo sforza a riaccettar nella Chiesa chiunque vi
vuol rientrare, sia a pro o a danno d'Italia; se non fosse del resto, che non è
un cenno, non un'ombra a mostrare che le cittá lombarde o niun italiano
d'allora desiderasse l'indipendenza, desiderasse piú di ciò che al fine
s'ottenne; se non fosse anzi, che parecchie delle cittá si staccarono dalla
Societá comune, trattarono miserabilmente, separatamente, molto piú che il
papa. Il quale ad ogni modo non volle conchiuder nulla egli solo, nulla se non
in Lombardia; e perciò imbarcatosi sulle navi di Venezia [1177], venne a
questa, dove fu convenuto non riceverebbe l'imperatore prima che fosse
conchiusa pace o tregua. E la pace non si conchiuse, sí la tregua per sei anni;
e fu convenuto non si guerreggiasse intanto tra imperatore ed imperiali da una
parte, e le cittá collegate dall'altra; e queste conservassero lor Societá, e
non fosser richieste di giuramento; una specie di status quo. Allora
Federigo, che giá era a Chioggia, entrò in Venezia; e secondo le tradizioni si
prostrò a' piedi di Alessandro, e questi glieli pose sul capo dicendo il testo
«super aspidem et basiliscum»; e l'imperatore rialzandosi rispose: - «Non
tibi sed Petro»; - e il papa riprese: - «Et mihi et Petro»; - fiabe
forse, ma che accennano i costumi e le opinioni del tempo. Ad ogni modo furono
pacificati. - Quindi il papa tornò a Roma, e pacificossi definitamente col
senato; e l'imperatore, visitata Toscana e Genova, pel Moncenisio ritornò in
Germania. Ed indi, ne' sei anni della tregua, negoziando con parecchie cittá
separatamente, ed assicurando loro cosí per ogni caso que' tristi privilegi,
che, soli in somma, eran voluti da tutti, ei le staccò. La brevitá del nostro scritto
ci dispensa da tali miserandi particolari; noteremo solo il piú caratteristico.
Alessandria nata dalla lega se ne staccò pur essa, fecesi privilegiare; i
cittadini di lei usciron tutti, un brutto dí, dalle mura, e rientrarono a
cenno, a grazia d'un commissario imperiale, lasciarono il bel nome, preser
quello di Cesarea. I posteri furon piú degni, ripresero il primo. - Finalmente
addí 25 giugno 1183, appressandosi a giorni il fine della tregua di Venezia, fu
ultimata la pace a Costanza. Firmarono come ancor collegate Vercelli, Novara,
Milano, Lodi, Bergamo, Brescia, Mantova, Verona, Vicenza, Padova, Treviso,
Bologna, Faenza, Modena, Reggio, Parma e Piacenza, diciassette costanti; e
coll'imperatore Pavia, Genova, Alba, Cremona, Como, Tortona, Asti e Cesarea.
Ottennero i privilegi che avean voluti e tenuti dal tempo d'Arrigo V in qua:
confermate alle cittá le regalie entro alle mura e nel distretto: solo lasciato
all'imperatore il «fodero» o viatico quando scendeva; serbati i consoli senza
conferma, colla sola investitura imperiale; soli lasciati all'imperatore i
giudici in appello, e questi costituiti in un giudice stabile, il podestá;
riconosciuto il diritto di pace e di guerra; riconosciuto quello, che avrebbe
potuto esser piú utile, di serbare e rinnovare la Societá. Il trattato era
dunque onorevolissimo, anche utile, anche progressivo. Ma era perduta per
compiere l'indipendenza la grande occasione che la nazione era in armi contro
al signore straniero. - Né l'occasione tornò mai piú per seicentosessantacinque
anni. L'Italia progredí in lettere, in arti, in ogni sorta di coltura, in molte
parti della civiltá, ma non nella piú essenziale, nell'indipendenza; e la
nostra storia non narra quasi piú che variazioni di dipendenze. Perciò ci
trattenemmo oltre al solito in questo secolo corso da Gregorio VII alla pace di
Costanza, che è il piú bello di nostra bella etá. Ci rifaremo abbreviando i
secoli delle discordie interne; sempre ne rimarrá abbastanza da mostrarceli
troppo minori di quello, dove la concordia, non ottenuta, fu almeno nomata e
tentata.
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