19.
Re Carlo I
d'Angiò [1268-1285]. - Morto Corradino,
trionfò parte guelfa. Morto Clemente IV un mese dopo, e non succeduto nessun
papa quasi per tre anni, re Carlo rimase solo capo della parte trionfatrice,
capo straniero della parte nazionale, che fu il seme di tutti i danni. In
Toscana, in Lombardia, in Piemonte le cittá si rifacevan guelfe, e le piú
facevan Carlo capo di lor vari governi, di lor signorie, signore. Firenze era
stata delle prime (fin dal 1266); e perseverò poi guelfa sempre, non ultima causa
di sua grandezza, di sua coltura; l'ispirazione nazionale è somma delle
ispirazioni. In Lombardia, i due grandi capi ghibellini Oberto Pelavicino e
Buoso di Doara finirono, quegli poco piú che signor privato di castella, questi
spoglio del tutto. Se Carlo si fosse contentato d'Italia, egli l'aveva allora.
Ma fu dapprima distratto da quella crociata ch'ei fece col fratello san Luigi
in Africa, dove questi morí [1270]; e sempre poi dal disegno di riconquistar
l'imperio greco. E fosse leggerezza naturale o perché le menti ristrette non
sanno attendere a un tempo alle cose presenti e alle ulteriori, fu meravigliosa
la noncuranza con che egli e i suoi francesi malcontentarono i regnicoli,
gl'italiani tutti, gli stessi guelfi. Naufragate le navi genovesi al ritorno
d'Africa sulle coste di Sicilia, ei le fece predare; era uso del tempo in casi
soliti, ma scandaloso anche allora contra crociati ed alleati. Guido di
Monforte, uno de' principali francesi, che aveva perduto il padre nelle guerre
contra Inghilterra, trovandosi un dí in chiesa con Arrigo principe inglese, lo
trucidò a personale e vile vendetta, fuggí di chiesa, e ripentito rientrovvi a
tirar fuori l'ucciso pe' capegli, come gli era stato tirato il padre; e re
Carlo lasciò impunito quell'arrabbiato. Poi, gli storici concordano ad accusare
Carlo e i francesi di ruberie, di lussi e lussurie; tanto piú insultanti a que'
repubblicani, che eran rimasti semplici e costumati fin allora, e che allora
appunto (com'è notato da Dante e da' cronachisti) incominciarono a corrompersi.
Poi, come succede a tutte le parti vittoriose di dividersi in moderati ed
esagerati, cosí fin d'allora subito si divise parte Guelfa in quelle due
suddivisioni che poc'anni appresso furono famose in Firenze sotto ai nomi di
«bianchi» e «neri»; e i papi seguenti, quando furon nazionali, furono in
generale moderati; e gli Angioini e francesi e lor papi furono sempre
esagerati. Ed insomma, per legge naturale, inevitabile, in pochi anni gli
stranieri nuovi furono odiati, certo non meno, forse piú che gli antichi. Tutto
ciò incominciò a vedersi quando fu fatta finalmente l'elezione di Gregorio X
[1272]; uno de' papi, che seppe far meglio insieme i due uffici di pontefice e
di principe, che adoprò i quattro anni del troppo breve pontificato a far paci
dentro e fuori Italia, in tutta la cristianitá, per riunirla ad una nuova
crociata. Anche lasciando la santitá e l'utilitá politica di quell'imprese a
cui dopo Gregorio X niuno attese piú per due secoli, restano belli e superiori
alla sua etá gli sforzi per cui egli fece richiamar i ghibellini nelle cittá
guelfe di Toscana, e conchiuder paci tra re Carlo e Genova, tra Venezia e
Bologna. Carlo all'incontro faceva ricacciare i ghibellini ripatriati. Come
Gregorio primo e il secondo e il settimo, cosí il decimo segna un'epoca, un
cambiamento nella politica dei papi. Fu primo de' guelfi moderati. Ancora
Gregorio riconobbe l'imperator greco, e riuní (per poco pur troppo) quella
chiesa alla latina; e re Carlo trattò all'incontro, s'apparentò con Baldovino
l'imperator latino cacciato. Finalmente attese Gregorio X a far cessare
l'interregno nell'imperio occidentale, vanamente disputato da parecchi anni tra
due competitori lontani ed impotenti, Alfonso re di Castiglia e Riccardo di
Cornovaglia, principe d'Inghilterra. Scartati quelli, fu ora eletto in Germania
a re de' romani (cosí incominciavasi a chiamar il re di colá, investito oramai,
per prescrizione, del diritto d'esser incoronato imperatore) Rodolfo
d'Absburga, lo stipite della prima casa imperiale d'Austria. Ma quest'ultima
non fu certamente buona opera politica per l'Italia, a cui aveva giovato giá
l'interregno, a cui avrebbe anche piú, se si fosse lasciato cader in disuso il
funesto nome, le funeste pretensioni: ondeché ciò che dicemmo de' comuni e di
lor leghe, è a dir ora di questo e de' seguenti od anzi forse di tutti i papi;
che essi non seppero innalzarsi mai a desiderare od imaginare né l'indipendenza
compiuta d'Italia, né, finché durarono gl'imperadori romani, una cristianitá
senza tal capo ed ornamento. Del resto, Rodolfo fu forse il migliore che
s'avesse mai. Principe non solamente prode e gran guerriero, ma (lo dico con
intimo convincimento) previdentissimo politico, attese tutta sua vita a
fondare, ad estendere la potenza di sua casa in Germania; e la fondò ed estese
molto bene in que' paesi d'Austria e Boemia, su quel Danubio, dove fu, è, e
sará sempre il nerbo, la veritá di lor potenza; trascurò l'Italia dov'era lo
splendore, ma dov'era e sará sempre la fallacia di essa. Non vi scese mai,
diede appena speranze di venirvi ad alcuni ghibellini, confermò ai papi (piú
esplicitamente che non fosse forse stato fatto mai da Pipino, Carlomagno o
Matilde) quegli Stati ch'essi hanno oggi ancora. E tutta questa germanica
politica di casa d'Austria, ei la fondò e tramandò cosí bene, che rimase piú o
meno quella di tutti i discendenti di lui, imperadori o non imperadori, per due
secoli, fino a Massimiliano e Carlo V. Cosí questi non l'avesser lasciata, per
tornare a quella delle due case ghibelline di Franconia e di Svevia! L'Italia
ne sarebbe da parecchi secoli, non la piú grande, non la primeggiante
probabilmente, ma almeno la piú felice fra le nazioni del mondo; e casa
d'Austria non avrebbe perduto il principato di Germania per proseguir sempre
quel d'Italia, e non averlo tranquillo mai; e Germania, rimasta piú felice essa
pure, e piú unita, avrebbe adempiuto meglio l'ufficio suo passato di
difenditrice, adempirebbe meglio il suo presente o futuro di estenditrice della
cristianitá, all'Oriente. Ma che? Dall'epoca appunto a cui siam giunti,
dall'abbandono delle crociate, dal non ascolto dato a Gregorio X, i principi
cristiani quasi sempre amarono aggirarsi, intricarsi nel medesimo cerchio di
politica ristretta europea gli uni contra gli altri, anziché estenderla agli
interessi esterni e comuni. - Ad ogni modo, morto il buon papa Gregorio X, come
appunto s'apparecchiava a passar in Asia egli stesso [1276], succedettergli in
poco piú d'un anno quattro papi: Innocenzo V, Adriano V, Giovanni XXI e [1277]
Niccolò III imitator di Gregorio, paciero e guelfo moderato come quello, ed
anche piú di quello, temperator della oltrepotenza angioina. Appoggiandosi al
nuovo re de' romani, fece a Carlo deporre i titoli e le potenze di senator di
Roma, e di vicario imperiale in Toscana; e pacificò quindi questa e Romagna,
facendo ripatriar i ghibellini. Ma morto esso nel 1280, e disputandosi
l'elezione tra italiani e francesi, soverchiaron questi per forza di Carlo, e
fu eletto [1281] Martino IV francese; e francese, angioina, guelfa esagerata
rifecesi l'Italia. - Ma intanto da quel resto di sangue e di diritti ghibellini
che erano stati portati da Costanza a Pietro d'Aragona, dalla fedeltá di due
grandi fuorusciti pugliesi, Ruggeri da Loria e Giovanni da Procida, e
principalissimamente dall'ira de' popoli oppressi, apparecchiavasi una mezza
rovina agli Angioini, un terzo popolo straniero alla misera Italia, una
divisione di quel bello e natural regno delle Due Sicilie, che riuní allora per
poco, che riunisce ora da oltre un secolo il piú gran numero d'italiani
indipendenti; ondeché non può se non dolere qualunque volta ci si veda o si
tema ridiviso. Ruggeri era in Aragona diventato almirante e grand'uomo di mare;
il Procida (se grandezza e cospirazione possono stare insieme) gran cospiratore.
Corse Sicilia ad inasprir grandi e popolo; Costantinopoli due volte, a farvi
sentire i pericoli, le minacce dell'ambizioso Carlo, e trarne sussidi di
danaro; Roma (sotto Niccolò III) ad ottenerne approvazione quando fosse fatto;
ed Aragona a rendervi conto e pressare un'impresa a Sicilia. E Pietro
l'apparecchiava sotto nome d'impresa contro a' saracini, e salpava e scendeva
in Africa; quando il lunedí di Pasqua 30 marzo 1282, andando secondo il costume
i cittadini di Palermo a' vespri del vicino Monreale, un francese insultò una
fanciulla al fianco di suo fidanzato, e fu ucciso lí da questo, e tutto il
popolo si sollevò al grido «Muoiano i francesi»; e ne fu fatto macello in
Palermo, e via via poi in ciascuna delle cittá dell'isola, al dí, all'ora che
v'arrivò la novella del feroce esempio. Cosí, come suole quando v'è materia
vera, la rivoluzione popolare troncò indugi e dubbi alla cospirazione
principesca ed aristocratica. Allora Carlo, giá mezzo disperato all'annunzio,
pregava Dio, «se dovea scendere, di scendere almeno di piccol passo», ed
assaliva poi Messina con una gran flotta. Ma sopragiungevano finalmente [30
agosto] Pietro, che fu riconosciuto re in tutta l'isola, e Ruggeri di Loria che
sforzò Carlo a lasciar Messina, e gl'inseguí ed incendiò la flotta. Poi Carlo e
Pietro si sfidavano personalmente a vicenda per a Bordeaux in Francia; ed a
vicenda andandovi, s'accusaron l'un l'altro di non esservisi trovati, di non
avervi sicurezza; e non se ne fece altro [1283]. Il papa francese spogliava Pietro
de' suoi regni, e Pietro li serbava. E Carlo tornando di Francia a Napoli,
trovava sua flotta ribattuta dal gran Ruggeri, e condottone via prigione il
proprio figliuolo Carlo il giovane [1284]; e si vendicò malvagiamente sui
napoletani, ed accorato morí in sul principio del 1285. Morendo dicono pregasse
Dio: gli perdonasse i peccati, per il merito fattosi in conquistar il Regno a
santa Chiesa! Tanto gli uomini sembrano illuder sé, e voler illudere Dio
stesso, chiamando merito e sacrificio le proprie ambizioni! Ma entriamo noi il
men possibile nell'intenzioni: son segreti di Dio giudice, giudice terribile e
misericordioso. - L'anno innanzi [1284] erasi combattuta un'altra gran
battaglia navale tra genovesi e pisani, di nuovo alla Meloria. Ma qui furono vinti
i pisani; e non se ne rialzaron mai piú, né essi, né parte ghibellina in
Toscana.
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