23.
La regina
Giovanna e i suoi quattro mariti [1343-1377] - Roberto di Napoli lasciò morendo il regno a
Giovanna figlia di suo figliuolo premorto, giovinetta di diciassett'anni e giá
maritata ad Andrea d'Angiò fratello di Luigi re d'Ungheria, pronipote anch'egli
de' due Carli I e II. Visser discordi pochi anni; fu ucciso Andrea, uscendo
d'appresso alla moglie [1346]. Papa Clemente VI ne mandò giudicare da Avignone;
furono torturati e suppliziati parecchi uomini e donne; e la regina si rimaritò
[1347] con Luigi di Taranto, un altro collaterale di casa Angiò. Scende Luigi
d'Ungheria fratello dell'estinto a vendetta, e caccia gli sposi novelli che
rifuggono al papa in Avignone [1348], gli vendono questa cittá, e co' danari
tornano a Napoli, onde Luigi s'era partito per paura della famosa peste
(descritta da Boccaccio) di quell'anno. Guarnieri, il condottier tedesco
ridisceso giá con Luigi, a capo della «gran compagnia» rifatta, passa a
Giovanna, ripassa a Luigi. Se ne prolunga la guerra; riscende Luigi per mare a
Manfredonia [1350]; si ricombatte, si rimette il giudicio a papa Clemente;
giudica Giovanna innocente, ed ella riprende il Regno ed è incoronata con Luigi
di Taranto [1352]. Morto il quale poi senza figliuoli [1362], Giovanna prende
del medesimo anno a terzo marito Giacomo d'Aragona figlio del re di Maiorca, ma
non gli dá titolo di re. Egli la abbandona, guerreggia in Ispagna, v'è fatto
prigione, è riscattato dalla moglie [1365] e vien a raggiungerla. E morto esso
pure [1374], Giovanna prende a quarto marito Ottone di Brunswick [1376].
Intanto in Roma succedeva uno degli effetti piú strani di quella smania
imitativa, di quella pretesa di restaurar l'antico primato romano, che giá
vedemmo sorgere in Arnaldo da Brescia e nei senatori disprezzati da Federigo I;
quella smania che era venuta crescendo nel presente secolo col ricrescer delle
lettere e delle memorie antiche, in parecchie cittá italiane, in Firenze e
Venezia principalmente (come si scorge da' lor fatti e loro storici), ma soprattutto,
com'era naturale, in Roma. Qui dunque avvenne una rivoluzione letterata,
pedante: Cola di Rienzo, un giovane del volgo, ma colto e imaginoso, imagina
restaurar il nome, i magistrati, la potenza del popolo romano, abbandonato da'
papi, straziato da' Colonna, Orsini, Savelli ed altri grandi. Contra questi ei
nodriva (è frase del Sismondi) «un odio quasi classico, e ch'ei credeva
ereditato da' Gracchi». Un dí di maggio 1347 ei solleva il popolo, si fa
tribuno, stabilisce quello ch'ei chiama il «buono stato», s'accorda col vicario
del papa, sale con esso in Campidoglio, e cita dinanzi al popolo romano
Ludovico di Baviera imperatore, ed il competitore di lui Carlo di Lucemburgo
(figlio di Giovanni il venturiero, nipote di Arrigo VII). È riconosciuto,
lodato in tutta Italia, massime da' letterati. Ma letterato, antiquario, poeta,
il buon Cola non sa governare, meno guerreggiare. È cacciato prima che finisse
l'anno da' nobili e da un legato del papa; fugge a Carlo IV che, morto il
Bavaro e scartati alcuni competitori, era rimasto solo. Nel 1352 è consegnato a
papa Innocenzo IV allor succeduto in Avignone, ed è da questo aggiunto al
cardinale Albornoz di lá mandato a restaurar la potenza papale in Italia. Cosí
da luglio a ottobre 1354 signoreggia di nuovo in Roma con dignitá di senatore;
finché popolo e grandi si sollevan contro lui, e lo trafiggono a piè del
Campidoglio. Non frammischiatosi, come giá Arnaldo, in cose spirituali, non in
elezioni di papi ed antipapi come gli antichi Alberici, fu il piú innocente fra
gli usurpatori romani; fu sognatore, ed esempio a molti altri. - Dopo di lui
l'Albornoz continuò con piú politica e piú fortuna la restaurazione della
potenza papale in Roma, nelle Marche, in Romagna, in Toscana stessa, durante
tutto il pontificato d'Innocenzo VI e quasi tutto quello d'Urbano V,
succedutogli nel 1362. Francese questi pure, pontificò primamente come gli
altri da Avignone; ma nel 1367 ei fece rivedere un papa al posto suo, venne a
Roma, vi rimase presso a tre anni, e tornò poi nel 1370 ad Avignone, e nel
medesimo anno vi morí. Succedette Gregorio XI pur francese; il quale pure
pontificò primamente in Avignone; ma pressato, dicesi, principalmente da santa
Caterina da Siena e da santa Brigida, restituí finalmente la Sedia in Roma l'anno
1377. Eran settant'anni appunto dalla traslazione in Francia. - In Toscana,
Firenze risplendeva, s'arricchiva, poteva piú che mai. Raccoglieva il frutto di
sua costanza guelfa, di sua indipendenza, meglio difesa che non quella di niuna
altra cittá italiana, salvo Venezia. Eccessiva giá in democrazia, tollerava ora
i nuovi nobili o grandi, sorti sulle rovine dell'antica aristocrazia, i grandi
commercianti, fra cui giá sorgevano i Medici, fra cui pure riammetteva per
grazia alcuni antichi. E cosí finalmente tollerandosi, le due classi
inevitabili dell'aristocrazia e della democrazia si salvarono da que'
tirannucci, peggiori certamente che non le offese reciproche o gli eccessi
dell'una e dell'altra. Fin d'allora, non militare abbastanza per ordinare armi
proprie, per esentarsi de' condottieri, fu politica in modo da barcheggiare con
essi, e servirsene nelle solite rivalitá contro a Pisa, e in quella or piú
pericolosa co' Visconti di Milano. Firenze non fu buono Stato se si giudichi
positivamente da sé, posciaché non asserí l'indipendenza compiuta, posciaché
non ebbe armi proprie; ma Firenze fu senza dubbio il migliore Stato d'Italia
dopo Venezia; e non merita né tutti gl'improperi di Dante, né tutti gl'inni di
Sismondi. - I Visconti erano sempre i maggiori principi d'Italia. Morto
Luchino, avvelenato, dicesi, dalla moglie [1349], eragli succeduto suo fratello
Giovanni arcivescovo. Signore giá di sedici cittá, comprò da Pepoli Bologna
[1350]. Fu citato a renderne conto ad Avignone; rispose che v'andrebbe con dodicimila
fanti, seimila cavalli; s'accomodarono. Tenne Bologna in feudo papalino [1352].
Minacciò, guerreggiò invano Firenze, signoreggiò Genova [1353], morí nel 1354.
Succedettergli insieme nella signoria tre nipoti suoi, Matteo, Bernabò e
Galeazzo; ma morto il primo, dicesi avvelenato da' due altri, questi, serbando
Milano in comune, si spartirono l'altre cittá. Ma liberaronsi in breve Bologna,
Genova e Pavia [1366]. Capo di questa fecesi un fra Iacopo de' Bussolari,
letterato, poeta, amico del Petrarca anch'egli, un Cola di Rienzo lombardo. E
anch'egli durò poco; restituí Pavia ai Visconti [1359]; finí in un carcere di
frati a Vercelli. E i Visconti assaliti poi da una potente lega di fiorentini e
degli Estensi di Ferrara, de' Gonzaga di Mantova e del marchese di Monferrato,
resistettero. - Genova e Venezia fecersi di questi tempi una guerra maggior
delle precedenti; disputaronsi il primato del lago italiano, a cui Pisa
decaduta giá non pretendeva piú. I genovesi, afforzati in Galata e Pera
sobborghi di Costantinopoli, contesero, rupper la guerra con Cantacuzeno
imperatore, gli assediaron la cittá, gli arser la flotta [1348]. Poi contesero
co' tartari a Caffa, altra lor colonia [1350]; poi co' veneziani a cui voller
chiudere il commercio alla Tana (Taganrog). Questi s'allearono co' greci e con
gli aragonesi, e capitanati tutti da Niccolò Pisani grand'uomo di mare,
combatterono una gran battaglia nel Bosforo contro a' genovesi capitanati da
Paganino Doria, altro grande [1352]. Vinsero i genovesi, e fatta pace co' greci
continuaron la guerra co' veneziani. Ma furono vinti dai pisani alla Loiera nel
mar di Sardegna [1353], e allor fu che diedersi al Visconti. Con tal aiuto
riarmarono, rifecer capitano Paganino Doria, ricombatterono una terza battaglia
al golfo di Sapienza in Morea, e vinsero [1354]. Allora fecesi tra le due
repubbliche una pace, che pur troppo non durò poi, che durando avrebbe forse
confermato il primato marittimo all'Italia per sempre. Ma giá si sa:
l'assurditá delle rivalitá marittime è l'ultima ad intendersi, anche in tempi
piú progrediti che non eran quelli. Venezia fu turbata poi da una congiura, piú
o meno accertata, del suo doge stesso Marin Faliero. Ne fu accusato,
condannato, ucciso segretamente [1355]; materia di future tragedie. - Del resto,
si frammischiarono a tutti i fatti della penisola, guerreggiarono, predarono,
si moltiplicarono, si sciolsero, si riunirono, e si accrebbero di quelle che
Francia veniva cacciando, le funeste campagnie italiane sotto duca Guarnieri il
tedesco «nemico di Dio», fra Moriale un provenzale, il conte Lando, Anichino
Bongarten, Alberto Sterz tedeschi, Giovanni Hawkwood inglese, ed altri minori.
- E poco diverso oramai da cotestoro discese Carlo di Lucemburgo [1354], fu
incoronato re a Milano, imperatore a Roma [1355], e risalí a Germania. Dove poi
l'anno appresso [1356] ei pubblicò la Bolla d'oro; quella costituzione
che ordinò l'elezione, gli elettori degli imperatori romani o germanici, e durò
(mutata, s'intende, nel corso de' secoli) finché duraron quelli. Nel 1368
ridiscese in Italia, vendette signorie, vicariati imperiali qua e lá, e fece
incoronar l'imperatrice in Roma da quel papa Urbano V, che vedemmo precursore
della restituzione della sedia pontificale.
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