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Piemonte.
Casa Savoia. Amedeo VIII [1100-1434]. - Ma qui è d'uopo
lasciar l'Italia meridionale, e volgerci a quell'angolo occidentale in cui
scriviamo, e che pur trascurammo fin dal principio della presente etá, fin dalle
origini italiane della casa di Savoia. Dicemmo Odone conte di Morienna e
d'altri feudi oltre Alpi, ed Adelaide contessa di Torino e d'altre cittá e
feudi in Piemonte, stipiti di quella famiglia, a cui alcuni cercano una
antichitá italiana ulteriore, a cui può bastar questa di otto secoli, superior
cosí di sette a quelle di ogni altro principe italiano presente, salvo i papi.
Al tempo di Adelaide era stata nell'Italia occidentale un'altra casa molto
potente, quella d'un conte Aleramo signoreggiante negli Appennini dalla sponda
destra del Po fino a Savona. Alla morte di Adelaide [1091], la successione di
lei fu disputata, straziata, tra Umberto II Savoiardo, figlio di suo figlio;
Bonifazio conte di Savona, figlio di una figlia d'un altro suo figlio; Corrado
di Franconia, figlio di Berta sua figlia, l'infelice moglie che vedemmo dello
scellerato Arrigo IV imperatore; e soprattutto poi dalle cittá che appunto
allora vedemmo costituirsi in comuni. Quindi Umberto II e i Savoiardi primi
successori di lui furono ridotti a poco piú che Savoia e i comitati
oltremontani; e le famiglie Aleramiche, tra cui principali quelle di Monferrato
in mezzo agli Appennini, e di Saluzzo tra l'Alpi ai fonti del Po, divisero
l'Italia occidentale con le cittá liberatesi, Torino, Chieri, Asti, Vercelli,
Novara, e, quando fu fondata, Alessandria. I Savoiardi scendevano, potevano
secondo le occasioni, in Torino e l'altre; e quando non potevano qui,
s'estendevano all'intorno di Savoia, in Elvezia, in Francia; ovvero
guerreggiavan piú lungi, alla ventura, in Inghilterra, in Fiandra, in Oriente,
alle crociate. Casa Savoia fornirebbe ad una storia della cavalleria piú
numerosi, piú splendidi e piú veri cavalieri, che non ne sieno di falsi in
parecchi poemi e romanzi; casa Savoia ebbe quasi sempre la virtú di entrare con
alacritá, e cosí con fortuna, nelle condizioni de' secoli suoi. - Al finir del
decimoterzo fece un grand'errore; ma perché questo pure era del tempo, e gli
errori stessi, quando sono tali, sono men pericolosi, perciò questo la indebolí
appena, o forse l'afforzò. Vi si disputò, s'alterò, forse s'usurpò, e certo si
divise la successione tra Amedeo V e il fanciullo Filippo nipote di lui [1285].
Gli Stati generali, raunati in Giaveno, ne decisero o sancirono la decisione;
Amedeo V rimase conte di Savoia e signor supremo, il fanciullo signor vassallo
del Piemonte. E cosí rimase la famiglia divisa ne' due rami (oltre altri
minori) un centotrenta anni; pur signoreggiando il ramo Savoiardo su quel di
Piemonte, che dalla moglie di Filippo ebbe pretese e nome di principi d'Acaia.
Del resto, Amedeo V superò forse i predecessori in isplendor di cavalleria e
certo in potenza. Nel 1290 entrò in una lega contro a Guglielmo di Monferrato,
che fu poi preso dagli alessandrini, e tenuto in una gabbia dove morí
commiserato da Dante nel poema [1292]. Finita in Giovanni, figlio di questo, la
casa Aleramica e prima di Monferrato [1305], passò il marchesato a sua figlia
ed al marito che era de' Paleologhi di Costantinopoli, e continuò in questa
seconda casa, benché i saluzzesi gliel disputassero e perciò facessero omaggio
ad Amedeo V. Questi fu poi gran seguace e consigliero ad Arrigo VII imperatore
nella sua discesa dal 1309 al 1313; e gran nemico come tutti i suoi, ed era
naturale, agli Angioini che da Provenza e dal mezzodí volevano ficcarsi in
Piemonte. Nel 1316 dicono andasse a combattere pe' cavalieri gerosolimitani
contro a' saracini a Rodi; e salvatala, ne portasse il motto cavalleresco di «fert», il quale significhi colle
quattro iniziali: «Fortitudo Eius Rodhum Tenuit». Ma se mi si conceda
una digressione di due righe su questo patrio trastullo, io crederei che questo
motto, il quale si trova piú antico e sempre intrecciato con «lacci d'amore»,
non voglia dir altro, se non che uno di que' buoni cavalieri, l'inventor del
motto, si vantava di portar que' lacci. Morí Amedeo V in Avignone, dov'era
andato a promuovere una nuova crociata presso ad uno di que' papi infingardi
[1323]. - Seguendo separati i due rami di Savoia e di Piemonte o Acaia, questi,
che non aveano ad attendere al di lá dell'Alpi, attesero tanto piú al Piemonte,
e vi s'ingrandirono tra' nuovi marchesi di Monferrato, e gli antichi di
Saluzzo, e gli Angioini, e le cittá guelfe e ghibelline, e i tirannucci e i
condottieri; mentre i cugini di Savoia li aiutavano all'occasione. Fra'
Savoiardi fu di nuovo cavaliero splendidissimo in fatti di guerra e di pace
Amedeo VI, detto il conte Verde dal colore (secondo quegli usi) costantemente
da lui usato. In Piemonte guerreggiò e s'aggrandí; e guerreggiò contro a'
Visconti parenti suoi, per difender due pupilli di Monferrato; e guerreggiò in
Puglia, e in Oriente; assisté al ritorno de' papi in Roma; arbitrò e conchiuse
la pace di Torino dopo la guerra di Chioggia tra Genova e Venezia. Una volta,
accogliendo a sua corte Carlo IV imperadore, e ricevendone l'investitura de'
suoi Stati, e rompendosi, secondo l'uso barbaro-imperiale, gli stendardi e gli
stemmi al vassallo prima d'investirlo, egli afferrando il suo della croce
bianca, nol patí; e cosí in modo cavalleresco e politico insieme protestò della
indipendenza (fosse di diritto o di fatto) di casa Savoia. Governò,
risplendette quarantanove anni [1334-1383]. - Succedettegli Amedeo VII, detto
il conte Rosso; il quale pure guerreggiò, torneò in casa, e fuori, e aggiunse
a' suoi Stati Nizza e quella bella contea, squarcio di Provenza, datagli da
quei cittadini, concedutagli da re Ladislao per non poterla difendere esso da
Luigi d'Angiò, e lasciatagli prender da questo non meno impotente quantunque
vicino. Morí dopo otto anni di signoria [1391]. - E successegli, fanciullo,
Amedeo VIII tutto diverso de' predecessori; giá non piú gran cavaliero, ma uomo
politico, prudente insieme ed ardito, riunitore ed ampliator dello Stato, se
non incolpevole, certo lontanissimo dalle infamie de' Visconti e degli altri
tirannucci contemporanei; ordinator poi e legislatore, e che cosí, cioè
secondando i tempi senza prenderne i vizi, fu fondator nuovo della sua robusta
monarchia. Seppe guerreggiare, ma fu famoso massimamente in trattar negozi
vari. Cosí asserí suoi diritti su Ginevra, sui marchesi di Saluzzo, contro i
Delfini e i Borboni di Francia. Entrò, giovò ne' negoziati che vedremo, per far
finir lo scisma. Nel 1416, ottenne dall'imperator Sigismondo il titolo di duca.
Nel 1418, estinta la casa d'Acaia, riuní gli Stati. Nel 1430, ordinò, ampliò
gli antichi statuti di Savoia, e feceli comuni ne' suoi Stati, pur lasciandone
molti locali qua e lá; saviezza di que' tempi, in cui era ancora impossibile
l'uniformitá. Come i maggiori suoi, comprò, acquistossi in vari modi parecchie
signorie feodali o cittadine incastrate ne' suoi Stati o limitrofe. La piú
bella fu Vercelli, avuta da' Visconti [1427]. Finalmente, nel 1434 Amedeo VIII
lasciava quasi tutte le cure del governo a suo figliuolo Ludovico, e si
ritraeva poi, egli primo con sette compagni, in Ripaglia, un bel sito sul lago
di Ginevra, per vivervi tranquilli, romiti, cristiani. Ma il vedremo indi
ritolto poi a nuovi e maggiori affari. Oramai la storia di questo gran seno occidentale,
non si può separare piú da quella della restante Italia, e vi diventerá talor
principale. Quella piú antica che abbiam qui corsa, non ha guari altro
interesse che le imprese cavalleresche di que' principi. Ma giova, ricrea
l'animo seguir le vicende di quella, dicasi pur rozza, feodale o semibarbara,
ma virile, ma semplice, ma virtuosa schiatta, non pura forse d'ogni violenza od
inganno, ma non imbrattata certamente di niuna di quelle nefanditá e viltá de'
Visconti, degli Estensi, degli Scaligeri, degli Ezzelini, e de' papi di
Avignone, e degli Angioini di Napoli, e de' senatori di Venezia e delle
signorie cittadine, e dei condottieri tramezzati in tutto ciò. Siffatto
paragone è semplice veritá, e non è ragion di tacerla perché sia a lode de'
principi miei. Anche la paura di esser tacciato d'adulazione è viltá, se fa
tacer la veritá. Or torniamo alle nefanditá.
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