3.
Alessandro
VI papa [1492-1503]. - La causa de' nuovi
guai d'Italia fu senza dubbio l'incapacitá politica e militare di lei;
l'occasione poi, fu l'ambizione straniera di Carlo VIII, aiutata dall'ambizione
traditrice di Ludovico il moro. Il quale richiesto da Ferdinando di lasciare il
governo al nepote Gian Galeazzo, volle usurparne il ducato; e perciò fecesene
dare da Massimiliano imperatore l'investitura disprezzata giá dal gran
Francesco Sforza, e non data poi a nessuno dei discendenti. E per poter poi
effettuare l'usurpazione, volle assicurarsi di Carlo giá minacciante, s'alleò
con lui, gli promise passaggio ed aiuto. Qui non era nessuna delle scuse
dell'altre chiamate; non quella, che può esser buona, di cacciare altri
stranieri; nemmen quella cattiva, di resistere a un nemico interno. Qui è un
cumulo di tradimenti; e quindi il Moro è il traditor piú esecrato nelle memorie
italiane. Ma pur troppo non fu il solo; il cardinal Della Rovere, che fu poi
papa Giulio II e fece tanto chiasso di cacciar i barbari d'Italia, spinto ora
dalla rivalitá, dalla inimicizia ad Alessandro VI, anch'egli si trova tra'
chiamatori ed accompagnatori dello straniero. - Carlo scese in agosto 1494 pel
Monginevra, Torino, Asti. Ivi ammalò e si fermò. Poi passò a Milano, visitò,
non protesse Gian Galeazzo giá morente, e che morí pochi dí appresso [20
ottobre] con voci di veleno. Cosí il Moro fu duca, e tirò fuori l'investitura
imperiale. Carlo proseguí, s'appressò a Toscana per Pontremoli. Viene Pier de'
Medici spaventato, e gli dá i castelli fiorentini che difendean que' passi,
quello stesso di Pisa. Ma tornato costui a Firenze, è cacciato dalla signoria,
dal popolo sdegnato [9 novembre]. Al medesimo dí, Pisa caccia i fiorentini, si
libera, presente, e piú o men connivente, Carlo VIII. Questi lascia un presidio
nel castello, muove a Firenze, v'entra militarmente, la lancia alla coscia,
tratta un accordo colla nuova signoria; e volendolo imporre duro, gli è
stracciato in faccia da Pier Capponi, che disse: - Sonate vostre trombe, noi
sonerem nostre campane. - Fu il solo bell'atto di questa guerra; cosí
vergognosa, del resto, che i contemporanei la disser fatta col «gesso» dei
forieri i quali segnavan gli alloggi francesi di tappa in tappa. S'accomodarono
tuttavia Firenze e Carlo; e questi proseguí a Roma, dove il papa chiusesi in
castel Sant'Angelo, e s'accomodò poi. Spaventato Alfonso II, il nuovo re di
Napoli testé succeduto, lasciava vilmente la corona a suo figliuolo Ferdinando
II [24 gennaio 1495]; e questi provava a difendere i passi, ma era vilmente
disertato da' suoi, e fuggiva da Napoli a Sicilia; e Carlo VIII entrava in
quella il dí appresso [22 febbraio]. S'arrendevano, a gara di viltá, castella,
cittá, province, grandi, popoli, il Regno. Tanto che tra pochi dí i francesi
n'erano ad oziare e viziarsi nella disprezzata conquista. - Allora, sollevavasi
tutta Italia, mezza Europa, lo Sforza traditore, perché non avea piú ad
acquistare ma a difendere il ducato, or minacciatogli dalle pretensioni del
duca d'Orléans discendente da una Visconti e signor d'Asti; Venezia, tornata
(per poco) al sentimento de' pericoli d'Italia; il Borgia, tornato dal suo
spavento; il re cattolico per restaurare i parenti, o forse fin d'allora
riaggiunger Napoli a Sicilia ed Aragona; e Massimiliano non so per quale delle
sue mutevoli ambizioni. Tutti questi insieme firmavano un trattato contra Carlo
[31 marzo]. Il quale cosí minacciato ripartiva da Napoli [30 maggio]; passava a
Roma, schivava Firenze, passava a Pisa; e varcato Appennino, trovava a Fornovo
l'esercito degli alleati italiani capitanato dal marchese di Mantova.
Combattessi addí 6 luglio, molto piú forti gl'italiani. Disputasi chi vincesse;
ma i francesi avean combattuto per passare, e passarono. Giunsero ad Asti,
Carlo vi si fermò a corteggiar donne e trattar pace col Moro; e fattala, partí
[22 ottobre] da Torino per a Francia, dove non pensò piú guari a Italia. -
Tornò quindi Ferdinando II nel Regno, rientrò in Napoli [7 luglio], e
guerreggiandovi poi due anni contro a' francesi rimastivi sotto Monpensieri, se
ne liberò coll'aiuto degli spagnuoli capitanati da Gonzalvo di Cordova, il
conquistator di Granata, detto il «Gran capitano». Capitolarono gli ultimi
francesi ad Atella, e moriva Ferdinando II poco dopo, lasciando il regno a
Federigo III suo zio, fratello di Alfonso [1496]. Ed anche da Pisa si erano
ritirati i francesi fin dal primo dí di quell'anno, lasciando disputarsi e
guerreggiarsi tra sé pisani e fiorentini, e per gli uni o gli altri le varie
potenze d'Italia, e Massimiliano re de' romani. Il quale, invitato anch'egli
dal Moro, il gran chiamator di stranieri, scese a frapporsi in tutto ciò con
poca gente e pochi danari, e quindi non prese le corone solite, non fece nulla,
e risalí disprezzato oltre ogni altro imperatore mostratosi in Italia. - I
fiorentini tentavano intanto riordinar lor repubblica sgombra di Medici; ma
eran divisi in parti, non piú nazionale o straniera, né per il papa o
l'imperatore, per l'aristocrazia o la democrazia, per la repubblica o la
signoria, ma pro e contro un frate domenicano, Gerolamo Savonarola. Costui,
zelante, costumato, austero a sé, aspro ad altrui, in tempi corrotti, avea
colle prediche politiche tratti molti a sé, vivente ancora Lorenzo. Era stato
chiamato al letto di questo morente, e dicesi non l'avesse voluto assolvere,
perché Lorenzo non voleva restituire la repubblica, a modo di lui il frate.
Avea profetato malanni, castighi di Dio, francesi; ed or pendeva a questi che
avean adempiute sue profezie. I suoi partigiani chiamaronsi «piagnoni»; i
contrari, gente di mondo, gentiluomini i pii, «arrabbiati»; i medii, piú o men
desiderosi de' Medici, «bigi,» e poi «palleschi»; nomi e parti del paro
ignobili. I particolari del tempo son vere commedie; il fine, tragedia
barbarissima, da medio evo che ancor fiorisse. Contrario al frate riformator di
costumi e disciplina ecclesiastica era Alessandro VI, naturalmente. Gli proibí
di predicare. Il frate obbedi per poco; poi ricominciò, e contro al papa.
Allora uscirono da sé, o fecersi uscire contra lui altri frati; prima un
agostiniano, poi un francescano, Francesco di Puglia, il quale propose una di
quelle stoltezze od empietá parecchie volte condannate dalla Chiesa, un
giudicio di Dio: che passassero egli fra Francesco e il Savonarola tra una
catasta ardente; e chi passasse illeso, quegli vincesse. Savonarola non volle,
ma s'offrí per lui fra Domenico suo confratello. Appuntossi il dí 7 aprile
1498; grande aspettativa, grand'apparecchio, gran concorso. Ma venuti al duello
i due frati, fecero come chi vuole e disvuole, attaccaron disputa sul modo:
cioè (quasi profanazione al dirne), sul Sacramento, che il domenicano volea
portar con sé tra le fiamme, e il francescano non voleva. Non se ne fece altro.
Il popolaccio beffato infuriò, gli «arrabbiati» si sollevarono; e al dí
appresso diedero l'assalto al convento di San Marco, e fecer prigioni fra
Gerolamo, fra Domenico, e un terzo, fra Silvestro. I quali poi furono in pochi
dí interrogati, torturati, condannati, ed arsi in piazza [23 maggio]. - Di
Savonarola chi fa un santo, chi un eresiarca precursor di Lutero, chi un eroe
di libertá. Ma son sogni: i veri santi non si servon del tempio a negozi umani;
i veri eretici non muoiono nel seno della Chiesa, come morí, benché perseguitato,
Savonarola; e i veri eroi di libertá sono un po' piú sodi, non si perdono in
chiasso come lui. Fu un entusiasta di buon conto; e che sarebbe stato forse di
buon pro, se si fosse ecclesiasticamente contentato di predicare contro alle
crescenti corruttele della spensierata Italia. - Alla quale, come tale,
ripullulavano le occasioni di perdizioni. Al dí appunto della festa fallita in
Firenze, era morto Carlo VIII, era salito al trono di Francia Luigi XII, quel
duca di Orléans che giá dicemmo pretender a Milano come discendente d'una
Visconti, e che or pretese a Napoli come re di Francia, successore ai diritti
degli ultimi Angioini. Se gli fosse riuscito il tutto, incominciava fin
d'allora, e a pro di Francia, quella unione dei due grandi Stati italiani di
settentrione e mezzodí, la quale sessant'anni dopo die' l'Italia legata in mano
a Spagna. Luigi XII non era avventato come Carlo VIII; era anzi principe
prudente, destro, politico, e in Francia cosí buono che n'ebbe nome di «padre
del popolo». Eppure, anch'egli ebbe le maledizioni d'Italia; tanto i migliori a
casa son cattivi fuori! Non attese dapprima se non a Milano; e que' veneziani
che s'eran sollevati contro Carlo VIII, si collegaron ora con Luigi XII per il
misero acquisto di Cremona e Ghiara d'Adda [trattato di Blois, 15 aprile 1499].
Chiaro è: que' vantatissimi politici non ebber forse mai, non aveano certo piú
niuna politica vera, lunga, propriamente detta, ma solamente abilitá alla
giornata; quella vantata aristocrazia non aveva piú l'aristocratica virtú della
costanza, ma solamente l'aristocratico istinto della propria conservazione. E
legossi pure con Luigi XII Alessandro VI, per far suo infame figliuolo Cesare
Borgia duca di Valenza in Francia e di Romagna in Italia. E lasciaron fare,
Massimiliano distratto in Germania, e Federigo III di Napoli mal fermo nel
nuovo regno. Cosí da Asti, giá sua, Luigi XII assalí il ducato; ed alle prime
fazioni sbandaronsi le truppe del Moro, che fuggí in Germania; e Luigi entrò in
Milano [2 ottobre 1499], e tutto il ducato con Genova furono di lui. Ma tornato
esso in Francia, e riposando i francesi lasciati nella conquista, ritorna il
Moro con un esercito di svizzeri e fuorusciti, e riprende Como, Milano, Parma,
Pavia, Novara. Arriva La Tremoglia con un nuovo esercito di francesi e
svizzeri. Svizzeri di qua, svizzeri di lá, dicesi ricevessero da lor paese
ordine di non combattersi. Ad ogni modo quelli dello Sforza lasciano in mano
agli altri e a La Tremoglia i lor compagni italiani, i Sanseverino lor
capitani, e finalmente lo Sforza; e poi risalgono a lor monti saccheggiando per
via. Cosí il Moro, traditore tradito, fu preso, tratto a Francia e tenuto poi
dieci anni al castello di Loches, finché vi morí disprezzato, dimenticato. E
Milano e il ducato ridiventarono francesi tranquillamente per parecchi anni. -
Intanto Luigi XII aveva giá apparecchiato l'acquisto di Napoli in questo modo.
Addí 11 novembre 1500, in Granata erasi firmato un trattato tra lui e
Ferdinando il cattolico, parente e protettore di Federigo III, re di Napoli; ed
eravisi concertato che i francesi assalirebbono il Regno, che gli spagnuoli
accorrerebbero a difenderlo, e che prima d'incontrarsi, lo spartirebbono. Certo
costoro eran contemporanei non del tutto indegni del Moro, di Alessandro VI e di
Cesare Borgia. Effettuossi l'accordo. Nella state del 1501, entrarono per la
frontiera settentrionale del Regno il duca di Nemours co' francesi, e per le
Calabrie Gonzalvo il Gran capitano, che macchiò sue glorie in quest'infamie.
Federigo il misero re, tradito e ridotto agli ultimi, scelse capitolar co'
nemici vecchi anziché con gli amici traditori, e diessi in mano a' francesi che
il trassero a Torsi dove morí nel 1504. Cosí finí il primo regno indipendente
di Napoli; e andò a riunirsi a Sicilia, nella servitú straniera, per due secoli
e mezzo. - Intanto, e naturalmente, disputaronsi i ladroni per le spoglie.
Corso appena un anno [1502], ruppesi guerra tra francesi e spagnuoli.
Combattutosi variamente dapprima, furono sconfitti i francesi a Seminara e Cerignola
[aprile 1503]. E sceso un altro esercito francese, fu vinto pur esso al
Garigliano al fine del medesimo anno dal Gran capitano; e tutto il Regno rimase
fin d'allora spagnuolo. - Nell'agosto era morto papa Borgia. La brevitá cosí
sovente tormentante di questo sunto ci serve qui, dispensandoci dal dire le
dissolutezze, le rapine, i tradimenti, i veleni, le crudeltá di tutta quella
famiglia. Tanto piú che tutto ciò fu bensí il sommo della perversitá di quei
tempi perversi, ma non ne fu mutato essenzialmente né durevolmente quasi nulla
in Italia. Fu progetto di Alessandro e del figlio distrurre i signorotti, i
vicari pontefici che signoreggiavano nelle cittá della Chiesa, i Colonna ed
Orsini intorno a Roma, i Varani in Camerino, i Freducci in Fermo, i Trinci in
Foligno, i La Rovere in Sinigaglia ed Urbino, i Baglioni in Perugia, i Vitelli
in Cittá di Castello, gli Sforza in Pesaro, i Malatesta in Rimini, i Riario in
Imola, gli Ordelaffi in Forlí, i Manfredi in Faenza, i Bentivoglio in Bologna e
gli Estensi in Ferrara. Cesare Borgia doveva rimanerne duca di Romagna. Ma con
tutte le loro male arti sofferte od aiutate dalle potenze italiane e straniere,
a che riuscirono? Assassinarono signorotti, riunirono poche signorie, e non
durò il ducato. E meraviglia che Machiavello ed altri di que' tempi ammirasser
costoro. Se non che, la Dio mercé, e che che si dica, anche la scienza politica
è progredita d'allora in poi: il Machiavello de' nostri tempi ha professato che
le scelleratezze sogliono essere non solamente delitti, ma errori. Cosí fosse
ben imparato e tenuto fermo in Italia. Dicesi che Alessandro VI istituisse la
censura ecclesiastica de' libri [1 giugno 1502]; ma ei non fece che applicarla
a' libri stampati. E il fatto sta che ella esistette sempre, ed esiste in
qualunque chiesa, anche acattolica, voglia mantenere i suoi dommi. La cattiva
imitazione, poi, delle censure politiche nacque molto piú tardi. Dicesi morisse
Alessandro di un veleno apparecchiato a' suoi nemici, e preso da lui e dal
figliuolo che ne rimase infermo, e incapace di provvedere ai fatti suoi durante
la vacanza della Sede. - La sola buona opera italiana di questo tempo, fu la
guerra sostenuta da Venezia contro a' turchi nel Friuli, in Grecia, in mare,
dal 1499 al 1503, in che fecesi pace. S'allega a scusa dell'aver cosí mal
provveduto Venezia in quegli anni all'indipendenza d'Italia; non serve ad ogni
modo per gli anni addietro. Tutti gli italiani furono colpevoli, in somma, che
la penisola libera di stranieri (e si può dir degli imperatori stessi) dieci
anni addietro, fosse ora tutta occupata da essi, salvo Venezia, Toscana, e gli
Stati del papa.
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