6.Adriano VI, Clemente
VII [1522-1534] . - Succedette Adriano
VI [Florent, 9 gennaio 1522], precettor giá di Carlo V, fiammingo. ultimo papa
straniero che sia stato; e santo papa che avrebbe voluto fare ciò che giá i
papi tedeschi un cinquecento anni addietro, restituir la severitá, la
disciplina della curia romana. Ma egli non era, né aveva ad aiuto un
Ildebrando; non si pose a capo dell'opinione italiana, come avean fatto que'
suoi compatrioti, e non riuscí. Bisogna vedere nel Vasari e in altre storie del
tempo le disperazioni degli artisti e de' letterati per questo che pareva loro
ritorno alla barbarie. Era assente; ed intanto che giungesse, furon distrutte
le opere politiche di Leon X: i La Rovere tornarono in Urbino, i Baglioni in
Perugia, gli Estensi in parecchie terre lor tolte. Venne Adriano [agosto 1522],
e strinsesi coll'imperatore, piú che mai signor d'Italia, posciaché i francesi
erano stati sconfitti alla Bicocca [29 aprile], ed avean quindi vuotata
Lombardia e Italia. Adriano intendeva, badava poco a politica; attendeva a
riformar Roma, la curia. Morí ai 24 settembre 1523. Ai romani, agli artisti, ai
letterati parve esser liberati. - E parve loro esser risorti, quando [18
novembre] fu eletto un nuovo Medici, il cardinal Giulio, che prese nome di
Clemente VII. Arti e lettere furono riprotette, benché molto meno; per la buona
ragione che Leon X vi aveva speso quanto si poteva e piú, e rimanevan poveri i
successori; e per l'altra che, tra la guerra di Carlo V e Francesco I, durata
tutto il pontificato d'Adriano e quasi tutto quello di Clemente, fu il tempo
peggiore che toccasse in quel secolo di strazi alla straziatissima Italia. Giá
un nuovo esercito francese sotto Bonnivet, era ridisceso in Lombardia; e
ridiscesevi un esercito tedesco sotto il Borbone, principe, contestabile e
traditor di Francia. Dir le fazioni che seguirono tra questi due, e Colonna e
Pescara capitani degli spagnuoli, e Giovanni de' Medici condottiero di quelle
«bande nere» che si contano per l'ultima delle compagnie di ventura, ed altri
minori, e le prede e le stragi di tutti, e le pesti che vi si aggiunsero, fu
quasi soverchio, e riuscí noiosissimo anche nelle storie distese e del tempo;
qui sarebbe impossibile ed inutile. Qui non sono nemmen piú a notare errori
particolari. Quando s'è fatto quello massimo di dar la patria a stranieri,
senza nemmeno serbar in mano l'armi onde approfittar di lor divisioni, di
nostre occasioni, non è piú nulla a fare o dire, che soffrire finché dura il
castigo di quel sommo errore, proprio o de' maggiori. Resta memoria d'un
progetto di quella mente feconda di Machiavello, la quale, colla sua costante
preoccupazione dell'indipendenza, si fa forse perdonare tanti altri errori; il
progetto che s'accostasser tutti gl'italiani a Giovanni de' Medici, alle bande
nere, che eran le sole armi italiane rimanenti. Ma che? Erano armi mercenarie e
poche; e poi, Giovanni era buon guerriero sí, ma non aveva date prove di
grandezza militare, ed anche meno di politica; né avea per sé quell'opinione
universale, che è, dopo l'armi, il primo apparecchio a farsi duce di siffatte
imprese. - Insomma, i francesi si ritrasser di nuovo per Ivrea ed Aosta nel
1524; e in questa ritirata morí Baiardo, che fra cosí brutte guerre seppe, dai
vinti stessi, ottener nome di «cavalier senza paura e senza rimproccio»; e che
morente e compatito dal Borbone, risposegli: - Non io che moio per la patria,
ma fate pietá voi che la tradite. - Borbone e Pescara fecero quindi una punta
in Provenza fino a Marsiglia; ma ne tornarono in fretta contra Francesco I,
scendente di nuovo. Questi pose assedio a Pavia [ottobre], e mandò un altro
esercito fin nel Regno, ove si mantenne parecchi anni. Ma accorso il Pescara a
Pavia, seguí [25 febbraio 1525] quella gran battaglia dove fu preso il re di
Francia. Se ne consolò e consolò la nazione con quel detto (fatto famoso, come
tanti altri, con un po' d'alterazione) «esser perduto tutto fuor che l'onore».
Ad ogni modo guastò questo, quando tratto prigione a Spagna, e non sapendo
soffrir la noia (gran vizio talor anche a un re), firmò un trattato [14 gennaio
1526]; e liberato nol tenne, mal sofisticando sul proprio diritto di promettere
in prigione, ch'ei non doveva usar se non l'aveva. - Del resto, questi eran
tempi di perfidie complicate; e la liberazione di Francesco I fu aiutata da un
altro tradimento fatto a un traditore italiano. Francesco Sforza e Morone suo
cancelliero, oppressi in Milano da' lor alleati spagnuoli e tedeschi, idearono
liberar sé, e seco l'Italia. Buona, santa idea di nuovo; e che, se si fosse
potuta eseguire con qualche ardita alzata d'armi, avrebbe fatto essi immortali
e la patria finalmente felice. Ma ridusser l'impresa a una congiura. Alla
quale, numerosa di necessitá, avvenne ciò che è impossibile non avvenga: che
tra un gran numero di uomini, gli uni traditori, gli altri almeno simulatori,
non se ne trovi alcuno che simuli e tradisca la congiura stessa. Fu svelata
questa (che del resto fu la sola che avesse uno scopo italiano, fra le tante
congiure accennate) dalla duchessa d'Alençon, sorella di Francesco I, e dal
Pescara, italiano, discendente e capitano di spagnuoli, a cui i congiurati
promettevano il regno di Napoli. La prima tradí il disegno per liberar il
fratello; il secondo, quando ciò seppe; e sia che fosse stato fino a quel punto
traditor del suo principe, o de' congiurati, costui arrestò il Morone ai 14
ottobre 1525, e morí un mese appresso, esecrato. - Fecesi poi, a' 22 maggio
1526, una lega migliore, poiché aperta, tra il liberato Francesco I, Clemente
VII, lo Sforza e i veneziani. Ma fu infelice del paro; l'avesser fatta al
principio della guerra! ora era tardi. Lo Sforza ne rimase spoglio di Milano
[24 luglio], e Roma pagò caro la leggerezza, la pretesa abilitá, l'effettiva
inabilitá e i lussi de' Medici. In settembre di quell'anno fu presa Roma una prima
volta, e saccheggiato il Vaticano da Pompeo Colonna; e Clemente, rifuggito in
castel Sant'Angelo, riescí a far patti e liberarsene. Ma l'anno appresso, il
Borbone, giá vittorioso in Lombardia, in tutto il settentrione, ed a capo d'un
grande esercito quasi disoccupato e non pagato, s'incammina con esso verso
mezzodí; senza che si sappia, senza che sapesse egli forse qual cittá o
provincia d'Italia destinasse a servir d'occupazione e di paga a sue vecchie e
feroci bande. Scende, varca Appennino, minaccia Firenze, piomba su Roma [5
maggio 1527]. Addí 6 dá l'assalto ed è ucciso d'un'archibugiata che il vano
Benvenuto Cellini dice aver tirata egli. Succedegli un tedesco francese, il
Nassau-Oranges; e si continua, s'entra in Trastevere e Vaticano, si saccheggia
ed ammazza, e si passa il Tevere; e in tutta Roma, peggio che mai, prede e
stragi e tormenti a' prigioni per trarne riscatti e far palesar nascondigli,
men da soldati arrabbiati che da assassini da macchia. S'aggiunsero i Colonna,
la fame, la moria. Eserciti alleati s'appressarono, e non osarono mettersi in
questo inferno; il papa s'arrese e rimase prigione, e poi fuggí. Carlo V fece
le viste di piangerne da lontano, ma lasciò continuare nove mesi. Ai 17
febbraio 1528 solamente, uscirono l'Oranges e sue bande, per danari mandati da
Clemente giá scampato. Intanto si sfidavano Carlo V e Francesco I; e non ne
seguiva nulla di piú che in quell'altra scimmiata di lor maggiori, Pietro
d'Aragona e Carlo d'Angiò. Scendea Lautrec con un esercito francese, e correa tutta
Italia fino al Regno; dove guerreggiò poi coll'Oranges, e perirono egli e molti
de' suoi d'una gran moría. Ed anche in Lombardia v'era moría e guerra tra un
nuovo esercito francese sotto il Saint-Pol, e un nuovo tedesco sotto il
Brunswick. Ai 28 maggio, Filippino Doria, genovese ed ammiraglio di Francia,
dava una gran rotta navale all'armata imperiale nel golfo di Salerno. Ai 30
giugno, Andrea Doria, zio di Filippino ed anche ammiraglio di Francia, ne
dismette il servigio; e ai 20 luglio, passa all'imperatore, a patto di
lasciargli liberar la patria, e la libera addí 12 settembre, e ne rifiuta poi
la signoria, la tiene in libertá, ne riman primo e gran cittadino. Finalmente,
ai 20 giugno 1529, si fa pace in Barcellona tra Carlo V e Clemente VII; e in luglio
s'incomincia, e addí 5 agosto si firma in Cambrai, tra Luigia di Savoia per
Francesco I suo figliuolo, e Margherita d'Austria duchessa di Savoia per Carlo
V, un trattato che fu detto quindi «delle dame»; per cui, fatta pace tra le due
potenze strazianti Italia, rimase questa una seconda volta abbandonata tutta ad
Austria. In novembre, furono insieme a Bologna papa, imperatore e Sforza; e fu
restituito a questo il ducato con dure condizioni [22 novembre]; fatta pace con
Venezia [23 dicembre]; fatto duca il Gonzaga, giá marchese di Mantova [25 marzo
1530]; e dal papa incoronato a re d'Italia e imperatore Carlo V [22 febbraio,
24 marzo 1530]. Questo congresso di Bologna fu quasi placito imperiale a modo
de' Carolingi. - E rifatti cosí amici imperatore e papa, rimasene abbandonata a
questo la misera Firenze. Ella avea giá cacciati i governanti medicei, s'era
rivendicata in libertá fin da dieci dí dopo la presa di Roma [16 maggio 1527].
Ed erasi poi ordinata in repubblica meglio forse che non fosse stata mai; aveva
quell'armi proprie, ordinate un vent'anni prima per consiglio di Machiavello.
Fortificò allora, afforzò sue mura; ed a tale opera venne, abbandonando Roma e
i lavori e l'arte, bell'esempio, Michelangelo. Peccato che tutto questo spirito
militare fosse nuovo in lei! Anche qui era troppo tardi. Fu causa che non
avesse capitano di nome, che non conoscesse uno de' propri cittadini, il
Ferrucci, di ciò forse capace. Cosí fu ridotta a cercarsi, ad assoldare un
capitano forestiero, Malatesta Baglioni. Il quale poi, fosse traditor
veramente, o forse ingiustamente venutone in sospetto, ad ogni modo, fu
perdizione ultima di quella cittá, troppo a lungo rimasta imbelle. Venne contro
per il papa l'Oranges, a capo di quelle stesse bande che aveano testé saccheggiata
Roma. Ai 14 ottobre 1529, pose campo dinanzi a Firenze, ai 10 novembre die' un
primo assalto, e fu respinto. Ai 15 dicembre morí nel campo imperiale quel
Gerolamo Morone, il congiuratore per l'indipendenza d'Italia contro
all'imperatore! Addí 23 dicembre, per quella pace di Venezia che dicemmo, la
misera Firenze si trovò abbandonata dalla secolare alleata. Voltosi l'assedio
in blocco, i fiorentini fan due belle sortite addí 21 marzo e 5 maggio 1530.
Addí 27 aprile, il Ferrucci, che teneva fuori la campagna, prende Volterra; e
la difende poi contro agli imperiali, e aduna e muove un esercito di soccorso;
e ai 2 agosto, a Gavinana, s'incontra coll'Oranges, e questi v'è morto; ma
Ferrucci ferito, preso e finito da Maramaldo, un indegno soldato. Addí 8, il gonfaloniero
vuol deporre il Baglioni, ma non è secondato dal popolo giá stanco; si divide,
s'indebolisce la difesa; e addí 12 agosto, capitola la cittá. Cosí, dopo una
difesa di dieci mesi, che sarebbe bella in qualunque tempo, che fu bellissima,
unica in questi, cadde non indegnamente quella cittá, quella repubblica di
Firenze, che vedemmo, a malgrado gli errori, la piú nobile, la piú gentile, la
piú alta, la piú guelfa, la piú nazionale di tutte, all'etá de' comuni. Ella
aveva, nella sua politica tutto nazionale, imitata bene quella Roma antica che
le fu proposta sovente a modello da' propri scrittori, dal Villani fino a
Machiavello. Ma che serve? ella non seppe imitare la virtú militare romana.
Ella mostrò in quest'ultimo assedio, ella aveva mostrato, dugento anni prima,
in quello d'Arrigo di Lucemburgo, ch'ella non mancava di tal virtú
naturalmente. Ma in que' dugent'anni tramezzo, scacciata sua aristocrazia
militare, e postasi sotto a una aristocrazia tutta commerciante, sotto i Medici
commerciantissimi, ella aveva neglette, sprezzate, pagate l'armi; e l'armi
pagate le fecer fallo al dí dell'ultimo bisogno. Né d'allora in poi, né
trecento e piú anni corsi fino ai nostri dí, si combatté mai piú per lei, né
intorno a lei. Ella non esercitò, non vide nemmeno piú mai il viril gioco
dell'armi; ed ella ne rimane piú disavvezza che niuna forse delle cittá
cristiane, abitate dall'audace schiatta di Giapeto. - Un Valori ed altri
palleschi la governaron presso ad un anno tra gli esigli e i supplizi. Addí 5
luglio 1531, venne Alessandro de' Medici, bastardo di quel Lorenzo che era
stato duca d'Urbino; e tiranneggiò con nome di principe e duca, fatto
ereditario per decreto da Carlo V, e marito ad una figliuola sua bastarda.
Intanto, papa Clemente dava Caterina, figliuola legittima di quel medesimo
Lorenzo, a un figliuolo di Francesco I, che fu poi re Enrico II di Francia [27
ottobre 1533]; e perciò venne egli stesso a Nizza e Marsiglia. E cosí
barcheggiando, ed aiutandosi di Francia ed Austria, Clemente VII avanzava sua famiglia,
e doveva esserne satisfatto oramai. Morí addí 25 settembre 1534. Da cardinale e
ministro di suo zio aveva avuta voce di abilitá. E se questa sta in avanzar i
suoi, conservolla ed accrebbela. Parve, del resto, principe e pontefice
mediocre anche a' contemporanei, salvo che ad alcuni letterati ed artisti.
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