17.Una digressione . - Io non so lasciare
il tristo Seicento, senza spender alcune righe a combattere qui uno storico
sempre eloquente e ben intenzionato, per vero dire, ma troppo sovente cattivo
politico, a parer mio, cattivo intenditor de' tempi che descrive, e di quelli a
cui scrive. Il quale dice dunque di questi del Seicento: «Gran differenza si
osservava allora in Italia fra i paesi soggetti alla signoria spagnuola ed a
quella di Savoia d'un lato, e le due repubbliche di Venezia e di Genova, lo
Stato ecclesiastico e la Toscana dall'altro: quelli erano infelicissimi; questi
se non appieno felici, almeno in minor grado di infelicitá costituiti. Della
quale diversitá assai manifesta è la cagione: i primi obbedivano a signori che
si dilettavan di guerra; i secondi, a chi era amatore di pace». Ora io qui
veggo tre errori importanti a notare, siccome quelli d'uno scrittore il quale è
forse piú di nessun altro nelle mani de' nostri compatrioti; tre errori dico,
uno storico, uno politico, ed uno filosofico o morale. - Errore storico o di
fatto parmi il dire, che fossero egualmente o similmente infelici i popoli
della monarchia di Savoia e quelli delle province spagnuole. Certo le
sollevazioni popolari cosí frequenti, cosí grosse, cosí centrali de' due regni
spagnuoli, non furono nella monarchia di Savoia. Qui non s'ebbero, se non
quelle molto minori, parziali, e per cause speciali, de' valdesi e di Mondoví.
E qui, all'incontro, fu fatta una sollevazione, tutta lealtá ed amore, da'
torinesi contra a' francesi, un dí del 1611, che si sparse la voce, aver questi
morto il duca Carlo Emmanuele I; il quale fu pure il principe di Savoia che
abbia mai stancato di piú guerre e piú tasse i popoli suoi. Ancora, quell'altro
Carlo Emmanuele II che morí in mezzo al popolo suo introdotto in palazzo (di
che non so forse una piú bella scena in nessuna monarchia), quel Carlo
Emmanuele II, egli pure avea stanco di guerra nella prima metá del regno suo e
stanco di edificazioni nella seconda metá i popoli suoi. Come tuttociò? Come
tant'amore reciproco? Certo, o bisogna dire che i piemontesi d'allora fossero
il piú vil popolo del mondo ad amar cosí i loro oppressori (il che è dimostrato
falso dalla loro perseveranza ed alacritá militari, che son qualitá
incompatibili coll'avvilimento de' popoli); o bisogna dire che fosse pure alcun
che, che unisse que' principi e que' popoli piemontesi sinceramente,
strettamente, appassionatamente tra sé, a malgrado le gravezze. Né è poi
difficile a scoprire quell'alcun che. Appunto, perché non vili originariamente,
e non corrotti dalla invecchiata civiltá e dalle scellerate politiche del resto
d'Italia, ma anzi nuovi, ma virtuosamente rozzi e quasi antichi erano que'
piemontesi, perciò virtuosamente, alacremente soffrivano le inevitabili
gravezze recate dagli stranieri, e pesanti sui principi loro non meno che su
essi; e soffrendole insieme, si compativano, si stringevano, si amavano; ed
insieme con amore operando, erano meno infelici nelle sventure, felicissimi ne'
ritorni di fortuna. E poi, qual paragone fare tra le gravezze, tra le tasse
piemontesi, fossero pure eccessive ma rimanenti in paese, e quel miliardo che
lo stesso Botta accenna portato via in tredici anni dal solo Regno di qua del
Faro? Qual paragone tra le vite spente sui campi, od anche tra gli stenti di
guerra, e quelle spegnentisi a poco a poco sotto alle spoliazioni fatte dai
viceré stranieri, e lor cortigiani spagnuoli o regnicoli, e lor donne, e lor
servi, ed i servi de' loro servi? Quale sopratutto (se agli effetti umani si
miri solamente) tra la stessa immoralitá, libera almeno, della corte piemontese,
e quelle infami parole, «vendan le mogli e le figliuole»? No, no, non son sogni
poetici o filosofici, sono realitá della natura umana (non cosí corrotta,
grazie al cielo, come la dicono troppo sovente quello ed altri storici
piangitori), sono realitá le consolazioni della nazionalitá, dell'unione, del
sacrifizio, dell'amor reciproco di principi e popoli, concordemente soffrenti o
trionfanti. - Piú grave ancora parmi l'error teorico o politico del dividere
l'Italia del Seicento troppo innaturalmente: Savoia indipendente e province
spagnuole da un lato, e tutti gli altri Stati piú o meno dipendenti dall'altro
lato. Qui è tutto perduto di vista quel sentimento d'indipendenza, che è giá
altrove troppo sovente negletto da quello ed altri scrittori di nostre storie;
e che, ripetiamolo, è quello pure che ispira e guida senza eccezione tutte le
storie dell'altre nazioni antiche e moderne. Quando cosí veramente, come non
furono, fossero stati del paro infelici Piemonte indipendente e province
spagnuole, quando del paro piú felici gli altri Stati italiani, la divisione
non dovrebbe farsi a questa norma della felicitá, ma a quella sempre, a quella
sola della indipendenza. O siamo italiani, o non siamo. Ma se, come certo il
voleva ed era Botta, noi siamo; non sono i gradi di felicitá, ma quelli della
nazionalitá, a cui dovremmo badare per istabilir le differenze, le divisioni
degli Stati italiani. Dal dí, che, sceso Carlo VIII, incominciarono ad essere
in Italia Stati stranieri e Stati nazionali, questa differenza fu, è, e sará
sempre la essenziale da osservare; quella, rimpetto a cui non sarebbe da badare
a felicitá, se non che appunto la felicitá materiale per lo piú (si ritenga a
mente il miliardo), e sempre poi la morale (si ritenga il consiglio di vender moglie
e figliuole), furono, sono e saranno dalla parte della nazionalitá o
indipendenza. - Finalmente, error morale o filosofico mi par che sia il dire
cosí assolutamente causa d'infelicitá la guerra, causa di felicitá la pace. Noi
viviamo in tempi di pace, e, dirollo francamente contro a molti di qua e di lá,
virtuosa perché operosa pace, in generale. Ma se, ma quando o dove la pace
nostra non fosse operosa, quando e dove somigliasse a quella oziosissima in che
marciva tanta parte d'Italia nel Seicento, io m'affido che nessuno un po'
altamente senziente direbbe piú siffatta pace felice. Certo che le vite degli
uomini sono un gran che; certo che lo spegner vite in pace a vendetta, a
profitto privato od anche pubblico, senza missione, od anche con missione, ma
senza necessitá, è un gran delitto; e ciò fu mostrato, ciò svolto mirabilmente
da un altro illustre scrittor nostro, il Gioberti, nelle piú belle pagine di
lui. Ma in guerra, ma lá dove il sacrifizio delle vite è volontario, legittimo,
bello e santo, egli è pure talor felice a chi il fa, e sempre alla patria per
cui si fa; ed è, perdonamelo tu, o figliuol mio, meno crudele agli stessi
sopravviventi. Senza sacrifizio della vita non si fa nulla di grande, nulla
anzi di normale in questo mondo. Il mondo va innanzi a forza di vite
sacrificate. Una vita divina ed umana sacrificata è il piú gran fatto della
storia umana. Una intiera metá del genere umano, quella che chiamiamo la debol
metá, fa il sacrifizio della vita continuamente per noi. Senza un sacrifizio uguale,
senza il compenso della guerra principalmente, la viril metá rimarrebbe
inferiore a quella chiamata debole; non compenserebbe sacrifici con sacrifici,
non darebbe vita per vita a quelle dolci creature che gliela offrono ogni dí. E
in Italia, dove pur troppo colla scemata operositá sono scemate le occasioni
de' pericoli virili, non è opportuno, né virtuoso, scemar con parole la dignitá
della guerra; dico, della legittima guerra in difesa o ricuperazione de'
diritti della patria o della cristianitá. - E mi si perdoni essermi fermato a
segnalar siffatti errori. Gli errori de' grandi sono i soli che ne vaglian la
pena; e chi ciò fa, fa atto di rispetto a lor grandezza.
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