19.
Colture di
questo secondo periodo [1559-1700]. - Chi voglia vedere a
un tratto che fossero i principi protettori, le corti ospitali e i letterati
protetti ed ospitati di questo periodo, può vederlo nella vita di Torquato
Tasso. Altro che la corte di Can grande e Dante! Piú giú in protezioni non
s'andò mai, né da una parte né dall'altra. Eppure niuna natura forse mai nacque
poetica e generosa come quella; e perciò piegando si ruppe. Nacque [11 marzo
1544] in Sorrento di Bernardo Tasso da Bergamo, poeta di conto e giá
cortigiano; avea dunque esempi domestici, e quindici anni d'etá nel 1559,
all'epoca della servitú d'Italia. Studiò leggi; lasciolle, e intanto fece il Rinaldo,
e incominciò la Gerusalemme. E dedicato il primo al cardinale Luigi
d'Este, entrò in quella corte adolescente. S'innamorò (che par chiaro da molte
testimonianze) di Leonora, sorella di quel cardinale e del duca Alfonso
secondo; ed a coprir quell'amore, o poterne pur poetare, amò o finse amare una
seconda e forse una terza Leonora. Questi amori principeschi e queste finte, o,
come si dicevano, schermi, eran di moda fin da' tempi di Dante e di Boccaccio.
Ma eran fuor di tempo in questi secoli, d'amoreggiamenti bensí, ma di gradi
regolatissimi, di corti ordinate a ciò che chiamavasi «etichetta» o «sussiego»
spagnuolo. Né par che fosse mai a Torquato niun amore felice. Povero poeta! Niuno
forse visse mai tanto d'imaginativa come lui; niuno conobbe meno le gravi
felicitá della famiglia. Cosí passò sua mesta gioventú in Ferrara, e viaggiando
or in Italia, ed una volta a Parigi col protettore; e facendo l'Aminta
ed avanzando nella Gerusalemme. Crescean sue glorie, ma con esse le
invidie, le amicizie traditrici, le protezioni fatte sentire, e il suo
irritarsi, esaltarsi e divagare; ondeché, per istudio che se ne sia fatto (e
niuno forse fu fatto tanto), mal si discernono le colpe de' protettori e del
protetto; e si conchiude con certezza, che mal potean durare l'un con gli
altri. L'opinione piú volgare è che scoppiasse, forse concitato dalla gloria,
il suo amore; e il duca, offesone, trattasse da pazzo (per clemenza!) il poeta
cortigiano; e cosí trattandolo, il facesse impazzir davvero. Un'altra parmi
possibile a sostenersi: che il povero Torquato, inquieto per natura e
malcontento come Dante, come è inevitabile a un generoso caduto in tal
purgatorio, pensasse mutar sito almeno, e passare alla corte o d'Urbino, o di
Mantova, o di Firenze, o di Torino; e che di ciò s'indispettisse il padrone
(cosí chiamavasi ed era); e questi dispetti reciproci fosser la sola o prima o
seconda causa del mezzo impazzir del poeta, seguito da persecuzioni, seguite dall'impazzir
ulteriore. Scoppiò tutto ciò, ad ogni modo, un dí che Torquato trasse il
pugnale contro a un altro cortigiano in camera della duchessa. Fu imprigionato
brevemente, poi rilasciato a condizione di curarsi della pazzia. Ma
l'ingiunzione o la cura esacerbarono il male; entrò, volontariamente o no, in
un convento di frati (una delle sue malinconie eran gli scrupoli); peggiorò,
fuggí nel 1577, capitò a Sorrento dalla sorella, poi a Roma; fu perdonato,
tornò in corte a Ferrara. Poi ne fuggí una seconda volta; fu a Mantova, a
Venezia, ad Urbino, a Torino; e tornò a Ferrara una terza volta [1579],
trattovi dall'abito o dall'amore. Ed ivi, fosse nuovo scoppio di questo o
dell'ira sua o del duca, o dell'incompatibilitá reciproca, ivi in breve fu di
nuovo preso e chiuso in Sant'Anna, l'ospedale de' pazzi. Mentre era lí, fu
pubblicato in parte, e per tradimento, il suo poema in Venezia [1580], poi
tutto con suo consenso [1581]; mentre era lí, l'accademia della Crusca gli si
avventò contro bruttamente; e lí egli impazzí davvero, o poco meno; e lí fu
tenuto sette anni. Liberato finalmente per intervenzione di altre corti, di
quasi tutta Italia [5 luglio 1586], errò nuovamente a Genova, a Mantova, a
Bologna, Loreto, Roma, Napoli, di nuovo Roma, Firenze, Mantova, Roma, Napoli, e
finalmente a Roma per la quarta ed ultima volta. Volea tornare a Ferrara! Il
duca non volle, e fu piú savio. Ritirato al convento di Sant'Onofrio, ivi morí
[25 aprile 1595] piú tranquillo che non era vissuto; indi salí ad un'altra
realitá, egli che non avea capita mai questa della presente vita. Predecessor
di quegli illustri infelici di Rousseau, di Chatterton e di Byron, forse piú
grande, certo migliore e piú realmente infelice che tutti questi, lasciò un
poema (sia detto a malgrado una moda presente contraria) mirabile di poesia, ma
giá macchiato di que' concetti che pervertirono poi letterariamente le lettere
italiane, piú macchiato di quella mollezza allettante e penetrante che pervertí
moralmente ed effeminò quelle lettere. - S'accrebbero poi i due pervertimenti,
e talor anche per eccezione si fermarono e indietreggiarono ne' seguenti e ad
ogni modo minori poeti: Guarini [1537-1612], Chiabrera [1552-1637], Tassoni
[1565-1635], Bracciolini [1566- 1645], Marini [1569-1625], Fulvio Testi [1593-1646],
Lippi [1606-1664], Salvator Rosa [1615-1673], Filicaia [1642-1707], Menzini
[1646-1704], Guidi [1650-1712], Zappi [1667-1719]; oltre poi gl'infimi e piú
pervertiti. - Nella prosa, Paolo Segneri [1624-1694] ha nome di primo oratore
sacro tra gl'italiani; ma lontano da' grandi francesi, è concettista pur egli;
e tali sono poi parecchi altri predicatori contemporanei e seguaci di lui, con
tanto piú scandalo, quanto piú grave è l'ufficio loro che non quello di poeta.
In istoria, sono forse men parolai, meno retori che i loro predecessori, ma
meno eleganti e men profondi, fra Paolo Sarpi [1552-1623], Davila [1576-1631],
Bentivoglio [1579-1644], Pallavicini [1607-1667]; ed all'incontro, parolaio e
fiorito oltre alle convenienze storiche, seicentista insomma, mi sembra il
Bartoli [1608-1685]. Il Boccalini [1556-1613], scrittor politico, è da onorar
senza dubbio, per essersi rivolto contro agli spagnuoli, tiranni d'Italia; ma
vi si rivolse con leggerezza forse soverchia per argomento cosí grave ed
affliggente. Meglio il Paruta [1540-1598] e il Botero [1540-1617]; scrittori
seri e per il tempo virtuosi, ma non abbastanza grandi per farsi leggere,
passati i tempi per cui scrissero, non abbastanza efficaci per aver lasciato
effetto nella patria. E quindi resta forse superiore ad essi il Gravina
[1664-1718], gran giureconsulto. - Lo Scamozzi [1552-1616], il Dati
[1619-1676], il Baldinucci [1624-1696], scrittori d'arti, non arrivano
all'autoritá ed all'efficacia de' primi cinquecentisti, e massime non a quelle
di Leonardo e Vasari; ma occupati nelle cose loro piú che nelle parole, si
tenner puri almeno dalle affettazioni. E cosí Montecuccoli, gran capitano ed
ottimo scrittore dell'arte e delle azioni proprie [1608-1681]. - Del resto, non
lasceremo quelle lettere del Seicento, e quel vizio d'affettazione che appunto
si chiama da noi «seicentismo», senza notare: che esso fu, per vero dire, delle
lettere italiane piú che delle straniere contemporanee, in generale; ma che
nemmeno queste non ne andarono scevre, sia che il prendessero da noi, imitando
insieme colle vecchie virtú nostre anche i nostri vizi nuovi, sia che
all'incontro noi maestri prendessimo questo brutto vizio da' nostri primi
scolari, gli spagnuoli. Certo, che il seicentismo pare aver colá preceduto il Seicento
come e piú che da noi; e certo è che vi giunse a' medesimi o maggiori eccessi,
e v'infettò piú grandi, Lope e Calderon istessi: ed io direi lo stesso
Cervantes; se non che mal si distingue in lui, ciò che ei n'abbia da senno o
per celia. Ad ogni modo, non è dubbio, il seicentismo ebbe allora suo regno piú
o men lungo e piú o meno assoluto, e suoi nomi particolari in ogni paese;
«gongorismo» in Ispagna, «eupheismo» alla corte d'Inghilterra, e stile, modi,
donne ed uomini «preziosi» a quella di Francia ed al palazzo Rambouillet.
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