28.
Pace e
progressi di quarantaquattr'anni [1748-1789]. - Seguirono, tra questa pace e la rivoluzione
francese, due altre guerre europee, anzi dell'intiero mondo. La prima, detta «de'
sette anni», s'incominciò dall'Austria insolitamente unita a Francia, per
abbattere la nuova potenza di Prussia in Germania; ma s'estese in breve a
guerra d'emulazione marittima nelle colonie, e nell'Indie principalmente, tra
Francia ed Inghilterra; e finí colla conferma della potenza prussiana in
Germania, della britannica nell'Indie, destinate amendue a molto maggiori
accrescimenti. La seconda fu la guerra d'indipendenza delle colonie
inglesi-americane contro a lor madre patria; e finí colla indipendenza
compiuta. Narrata dal Botta in una storia, la cui traduzione rimane in grande
stima appresso a quegli americani, è gran danno per noi che sia scritta con
modi antiquati, i quali vi fanno men popolare e meno utile lo studio di quel
grande esempio. Ad ogni modo, quelle due guerre apparecchiarono il mondo
cristiano qual è al presente, tanto e forse piú che non facessero poi quelle
stesse della repubblica e dell'imperio francese. Perciocché quella de'
sett'anni fece la grandezza, cresciuta poi e crescitura, della Prussia; e
quella d'America fu la prima delle grandi guerre d'indipendenza, le quali son
succedute e succederanno alle guerre di libertá. - L'Italia poi non prese parte
a nessuna delle due; non alla prima, dove unite Francia ed Austria non era facile,
forse non possibile, a casa Savoia il continuar ad accrescersi in Italia, non
almeno co' modi soliti. E la guerra americana poi era troppo lontana, non fu
continentale europea. - Seguí dunque all'Italia una pace di
quarantaquattr'anni, la piú lunga cosí di quante si trovan rammentate da'
primordi della storia di lei. E questa pace fu feconda a noi di riforme
governative e di progressi senza dubbio; ma anche d'indebolimenti. forse
politici, e certo militari. Perciocché, cosí va il mondo, cosí è la natura
umana pur troppo, che quando i tempi son facili e tranquilli oltre al corso
d'una generazione, la generazione che s'alleva in essi non impari le
difficoltá, e cosí non quegli atti di vigore, quegli sforzi d'animo e di corpo
che son necessari a vincerle; ondeché, quando poi ritornano, ché sempre
ritornano le difficoltá, gli uomini nuovi si trovano disapparecchiati, incapaci
ad esse. E quindi può essere fortuna che sorgano, od anche arte de' principi e
governanti lasciare o far che sorgano in mezzo alle paci prolungate, quelle
operositá, quegli esercizi od anche quelle difficoltá, le quali, senza porre
gli Stati a pericoli invincibili, tengano pure esercitate le generazioni
novelle ai casi futuri. E ciò sentirono forse, per vero dire, i governi
italiani di cent'anni fa; tantoché, anche senza aver chiara quell'idea, senza
pronunciare quella parola di «progresso», che sorsero solamente al fine di quel
secolo e si sono fatti ora universali, tutti operarono e progredirono piú o
meno, indubitabilmente. Ma non è dubbio nemmeno, e i fatti posteriori lo
dimostran pur troppo, che que' governi nostri non operarono, non progredirono
abbastanza; che la generazione della fine del secolo si trovò oziosa, languida,
insufficiente a' nuovi casi. Innegabile insegnamento, incancellabile,
irremovibile esempio a que' posteri dei settecentisti, che operano e
progrediscono ora non piú che come quelli, o men che quelli. La lentezza,
l'andar a poco a poco, sta bene; è prudenza, è virtú non contrastata. Ma qui
sta tutta la questione; vedere il punto giusto fino al quale è virtú, oltre al
quale è vizio, è paura. E come di noi giudicheranno i posteri dai fatti nostri,
cosí noi, giudicando degli avi dai fatti loro, non possiamo se non conchiudere:
che quelli non apparecchiarono questi bastantemente. - Napoli fu quella che
progredí piú nel secolo decimottavo; il passare da provincia straniera a Stato
indipendente, fu progresso incomparabile per sé, e fonte poi di altri
innumerevoli. Acquistar principe proprio, ministri, tribunali, magistrati, milizie
nazionali addentro, ministri e consoli patrii a curar gl'interessi fuori;
riversar le imposizioni (sien poche o molte od anche troppe) tutte in casa, son
vantaggi superiori sempre a qualunque altro. Naturalmente poi, sorse la
necessitá di riordinar ad uso proprio quant'era stato ad uso di signori
stranieri; e i riordinamenti intrapresi in tempi civili fanno sempre sparire
molti residui di barbarie. Cosí fu operato nel Regno, ma timidamente; furono
migliorate ad una ad una le leggi civili, criminali, commerciali, ma non
ordinate in codici; undici legislazioni erano, undici rimasero. Furono scemati
i diritti, cioè le eccezioni, cioè le ingiustizie feodali, ma non tolte di
mezzo radicalmente, che era il solo rimedio buono a tal peste. E dalla depressione
de' nobili era giá nato e crebbe piú che mai un altro malanno, la oltrepotenza,
l'ingerenza in tutto de' curiali; e chi non creda a me, creda al Colletta, che
ciò deplora. E furono scemati i diritti del fòro ecclesiastico, gli asili; fin
dal 1741 fu fatto a ciò un concordato con Roma. Furono ordinate le finanze, ma
poco bene; furon lasciate a impresa le tasse indirette, fu introdotto il lotto.
Cacciati dal Regno gli ebrei; tentata introdurre l'inquisizione da un
arcivescovo zelante, e repulsa dall'opinion pubblica, e quindi dal re. Del
resto, grandi abbellimenti in Napoli: ampliato l'edifizio degli Studi;
edificate le ville regie di Portici, di Capodimonte, di Caserta, il teatro di
San Carlo [1737]; incominciati gli scavi di Ercolano [1738] e di Pompei [1750].
Strade magnifiche furono fatte, e dette «per le cacce» del re, intorno a
Napoli; ma poche per il pubblico, e meno per le province lontane. Tutto ciò
sotto a Carlo I e Tanucci ministro di lui. Morto poi [10 agosto 1759]
Ferdinando VI re di Spagna senza figliuoli, succedevagli Carlo di Napoli, e
prima di partire regolava la successione ai due regni disgiunti giá dai
trattati. E perché de' tre figliuoli suoi il primo era scemo di mente, egli
piangendo fece riconoscere tale sventura, e dichiarò successor suo a' regni di
Spagna Carlo Antonio che era il secondo; e re di Napoli e Sicilia il terzo,
Ferdinando fanciullo d'otto anni, con una reggenza finché non avesse i sedici
compiuti. E il medesimo dí [6 ottobre] salpò per Ispagna, dove regnò poi sotto
nome di re Carlo III, non senza gloria di riformatore piú ardito, eppure anche
lá insufficiente. Continuò quindi in pace e progressi la reggenza napoletana
dal 1759 al 1767; e cosí poi il regno effettivo di Ferdinando IV. Continuò a
governar Tanucci; e continuarono le riforme, massime nell'istruzione pubblica e
nelle cose ecclesiastiche. Eran secondate piú dall'opinione straniera che non
dall'italiana o napoletana; ma questa obbediva agli ordini di Spagna, ché, come
dice il Colletta, «una servitú vincea l'altra». Il re fu educato agli esercizi,
a forza corporale, ma a rozzezza, grossezza, volgaritá, e, come si vide a suo
tempo, barbarie e debolezza unite. Ad una carestia del 1764 fu mal proveduto
con troppi provedimenti e proibizioni: alla calamitá del gran terremoto di
Messina [1783], molto meglio. Un patto di famiglia [1761] strinse le quattro
case borboniche. Nel 1776, cessò l'omaggio della chinea al papa, che protestò
poi ogni anno. De' gesuiti siam per dire. Nel 1777, il Tanucci, dopo
quarantatré anni di potenza, fu cacciato dalla regina Carolina Austriaca; e
furono d'allora in poi potenti e prepotenti essa ed Acton, un inglese venuto
per ammiraglio nel 1779 e salito poi a ministro. E quasi ogni cosa si fermò,
peggiorò d'allora in poi. La milizia e la marineria sí furono promosse,
ampliate, ma piú a pompa che a forza vera, e si vide pur troppo quando venner
alle prove.
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