29.
Continua. - Ed ora, risalendo la
penisola, veniamo a Roma. Pontificò fino all'anno 1758 Benedetto XIV [Lambertini];
papa letterato, protettor di lettere ed arti, restauratore ed edificator di
monumenti, non nepotista, pio, intenditor de' tempi suoi, tollerante di essi; e
cosí tanto miglior capo di quella Chiesa, la quale appunto, per esser immortale
ed immutabile, debb'essere ed è adattabile a tutti i tempi. - Morí nel 1758;
successegli Clemente XIII [Rezzonico, 6 luglio], meno arrendevole, piú severo,
piú acre difensore dei diritti acquistati lungo i secoli dalla curia romana.
Guastossi con Genova, con Venezia, con Parma, colle quattro corti borboniche.
Ma non era tutta colpa sua. È vero che non erano piú tempi che tutte le
libertá, tutte le colture, tutte le liberalitá fossero degli ecclesiastici,
venisser da essi; cosí venendo, fossero aiutate dall'opinione pubblica; è vero
che la liberalitá giá s'era fatta secolare, che l'opinione favoriva i principi
alla ricuperazione di molti poteri tolti loro nel medio evo; ed è vero che
rilasciarne molti poteva esser bello e liberale ne' papi moderni. Ma era forse
poco merito, ed era certo poca liberalitá ne' principi l'acquistarli: la
liberalitá (non si può dire e ripeter troppo) sta nel dare, e non nel prendere
o nel far dar da altrui; e la vantata liberalitá dei principi del secolo
decimottavo fu tutta nel prendere o far dare, prendere o far dare diritti
feodali dai nobili, prendere o far dare diritti ecclesiastici dalla Chiesa. Né
dico che questo non fosse in tutto un progresso: ma dico che non era liberalitá
di principi; e che essi non diedero mai nulla del proprio, nulla dei diritti o
degli acquisti o delle usurpazioni della sovranitá, nulla di ciò che sarebbe
stato ad essi liberalitá e forse utilitá il concedere. E dico che dei diritti
feodali essi non fecero, non poterono far rilasciar troppi, ché troppo era
quanto ne rimanesse. Ma dico (contro all'opinione di molti, lo so), che nella
ricuperazione de' diritti di sovranitá contro alla Chiesa, molti, quasi tutti i
governi del secolo decimottavo, principi o repubbliche, passarono il segno;
come Genova, quando non volle lasciar mandare dal papa un visitatore o
riordinator ecclesiastico nella Corsica sollevata; come Venezia, quando volle
regolar le relazioni tra ecclesiastici regolari ed ordinari; come le corti
borboniche, quando, sequestrando Avignone, rifecero esse ciò che fu tanto e
giustamente rimproverato ai papi, il mescolar le ostilitá spirituali e
temporali. Col re Carlo di Sardegna, solo forse moderato e rispettoso in tutto
ciò, papa Rezzonico non si guastò. - Del resto, tutte queste dispute
ecclesiastiche erano inasprite, ingrossate da un'altra, non so s'io dica
maggiore, o se anzi non ne sorrideranno i posteri un dí, da una disputa, una
sollevazione quasi universale contro a un ordine di frati, o monaci, o
conventuali, o religiosi regolari che voglian essere, ed importa poco, contro
ai gesuiti. Se mi fosse possibile schivar questo assunto, io lo schiverei, per
non iscostarmi qui da molti miei consenzienti ed amici, e non parer accostarmi
a coloro dai quali io dissento quasi generalmente. Ma io sacrificai testé
affetti e riconoscenze molto piú strette; e sacrificherò queste, se mai, al
dovere storico, di non omettere nella narrazione assunta ciò che, bene o male,
degno o risibile, fu pure l'affare che piú occupò l'Italia, la cristianitá in
questi anni; ed al dovere conseguente di dirne ciò che credo veritá, ciò che,
cessati gli interessi, le parti, le passioni presenti, non parrá forse indegno
del nome di «liberalitá», ciò che sará forse liberalitá de' nostri posteri. Io
dissi giá la bella idea di sant'Ignazio, la bella istituzione de' gesuiti,
fatta per servire alla propagazione della cristianitá tra gli infedeli, alla
difesa della cattolicitá contro a' nuovi dissenzienti. E fecero i gesuiti
l'opera prima magnificamente sempre intorno al globo, la seconda con grande
operositá ed utilitá da principio. Ma in questa io crederei che si guastassero
prontamente: che portati dal loro zelo ne' paesi tiranneggiati dai
dissenzienti, v'imparasser troppe arti di nascondersi, di dissimulare o
simulare; troppo ardore, troppa fiducia in sé, troppa ostinazione nella lor
parte, indubitalmente buona nel suo scopo cattolico, ma soggetta a errori, come
ogni umana cosa, ne' mezzi, nelle applicazioni. Un cinquanta anni e non piú,
giá il notammo, durò il trionfo, l'ampliarsi della Riforma; ed un cinquant'anni
cosí la bella guerra difensiva dei gesuiti in Europa. Ma col fermarsi i
progressi della Riforma, collo scemare i pericoli che ci venivan da lei, scemò
l'utilitá europea de' gesuiti; e scemò la puritá della loro operositá. Certo, o
mi pare, tra le vicende della lega in Francia essi non furono giá incolpevoli.
Né il furono quando, cessate le guerre religiose, essi portarono le medesime
arti, i medesimi fervori alle corti di Luigi XIV, di Giacomo II, e in altre. I
conventuali d'ogni sorta furono chiamati per necessitá nei pubblici affari, ai
tempi che essi erano soli colti, che soli quasi sapean leggere e scrivere. Ma
subito che altri furono a saper leggere e scrivere, e i religiosi ebber cosí
perduto questo vantaggio, essi furono naturalmente gli uomini meno atti al
mondo, meno educati e conformati a' pubblici affari; le loro solitudini, le
loro educazioni, le loro occupazioni ne li rendono incapacissimi. Molti
ammirarono, or lodando, or esecrando, le destrezze, l'abilitá, la politica de'
gesuiti: ma essi furono forse i piú impolitici, i piú mal abili degli uomini;
mal abili in generale agli interessi secolari che non poterono imparar ne' loro
collegi; mal abili in particolare agli interessi politici che sono i piú
difficili della vita secolare; abili soltanto, o poco piú, che ai loro
interessi propri famigliari, cioè a quegli accrescimenti di sostanze, di
fortuna, od anche di credito e di fama, che sono, come si vede nel mondo, la
infima delle abilitá. Se fossero stati abili, essi avrebbon fuggita non che la
politica, ma fin le apparenze della politica, che non era, che non doveva
essere loro ufficio, che doveva essere, che fu lor perdizione. La loro
inabilitá politica li fece cadere in parecchi men colpe che errori: la
inabilitá loro li fece parere caduti in piú errori che non caddero; li fece
parer colpevoli delle male intenzioni che non ebber né poterono aver mai; li
fece accattarsi gli odii, le invidie degli altri ordini religiosi, di molti
ecclesiastici secolari, degli uomini di mondo e di lettere e d'affari, de'
magistrati, de' ministri, e de' principi. Ne' tempi poi di che trattiamo,
s'aggiunse contra essi un odio onorevole ad essi, quello de' nemici della
cristianitá, i quali, comunque si chiamino, certo furono allora molti e
potenti. Questi si valsero dell'invidie, delle divisioni interne nostre,
esultarono di rivolger cattolici contra cattolici; i ministri de' principi
esultarono di tal aiuto contro a que' religiosi faccendieri incontrati ad ogni
tratto; una regia meretrice, la Pompadour, esultò di punirli d'una loro
severitá, che, rara o no, essi rivolser certo una volta contra essa; i
principi, piú o meno abbindolati, esultarono di far questo passo di piú nelle
riforme ecclesiastiche tanto allora applaudite, esultarono di parer liberali,
progressisti, o, come si diceva allora, «filosofi», senza costo proprio, ed
anzi incamerando collegi, chiese, palazzi, masserie e masserizie, milioni.
Insomma, i gesuiti furono cacciati di Portogallo [1758, anno primo del
pontificato di Clemente XIII] da un Pombal, ministro assolutissimo anzi
tirannico d'un re tiranno e dissoluto, sotto accusa di aver partecipato a una
congiura contro alla vita di quel re, ove furono implicati e suppliziati i
nemici particolari di Pombal. Furono cacciati di Francia nel 1764, al tempo
aureo di Luigi XV e sue cortigiane maggiori e minori, di Choiseul cortigiano di
esse, e del parlamento allor cortigiano di Choiseul; cacciati in séguito al
fallimento d'uno di que' padri in America ed al risarcimento negato dalla
Compagnia, a molti errori insomma di questa. Furon cacciati di Spagna nel 1767
da Carlo III ed Aranda ministro di lui, sotto accusa di partecipazione ad una
sollevazione popolana fatta per serbare i cappelli ed i mantelli aviti. E
furono quindi cacciati nel medesimo anno, per impulso delle due corti
borboniche maggiori, dalle due minori ed italiche, Napoli e Parma. E perché in
Portogallo s'arrivò al sangue ed ai supplizi, e in tutti gli altri paesi la
cacciata si effettuò con modi subitani, arbitrari, crudeli, avidi, segreti, e
senza render conto pubblico di nulla, ei mi par poco dubbio che i nostri
posteri liberali compareranno tutta questa cacciata a quella dei templari del
medio evo, e si sdegneranno che tanti loro predecessori abbiano accettate come
liberalitá o progressi cosí fatte nefanditá. Se non che, essi si sdegneranno
forse anche piú che dopo tanti progressi veri fatti dalla opinione liberale
d'allora in poi per tre quarti di secolo, e (che è piú o peggio) negli anni
appunto che l'Italia avea per le mani la somma opera della sua indipendenza,
ella quasi tutta, e non esclusi molti degli uomini maggiori suoi, si distraesse
a simili odii, simili faccende da frati e sacrestie. Né rimarrá nome di
«liberalitá» o «progressi», nemmeno a quelle paure, che fanno anch'oggi escludere
i gesuiti soli dal diritto comune di tolleranza e di libertá. Ad ogni modo, le
cacciate dei gesuiti occuparono tutto il pontificato di Clemente XIII; ondeché
io non mi so meravigliare, se mai in alcuni particolari, che non abbiam luogo a
cercar qui, egli oltrepassò i termini di una giusta resistenza. - Morto esso
quindi nel 1769, gli succedé Clemente XIV [Ganganelli, 18 maggio]. Il quale,
pressato dalle quattro corti borboniche, come giá era stato il predecessore, di
abolire del tutto, dappertutto, l'abborrita societá, resistette, indugiò d'anno
in anno. Ma non fu aiutato in tal resistenza dalla societá stessa, nella quale
si pronunziò, si pose allora quella massima fatale «Sint ut sunt aut non
sint», quella massima forse irreligiosamente superba e non ignaziana, e
certo impolitica; irreligiosamente superba, perché la societá sola della Chiesa
divinamente istituita è immutabile quaggiú, e mutabili, riformabili sono le
societá istituite nella Chiesa, e cosí gli ordini religiosi che tutti si
riformarono, salvo questo; massima poi non ignaziana, perché sant'Ignazio
coordinò appunto meravigliosamente la societá al secolo suo, ond'è a credere la
coordinerebbe ora e si sdegnerebbe di non vederla coordinata ai secoli nostri;
massima impolitica finalmente, perché i tempi son sempre potentissimi a
respingere tutto ciò che non si coordina ad essi. Ad ogni modo, dopo
quattr'anni di peritanze, Clemente XIV diede il breve di abolizione [21 luglio
1773]. Tale poi era l'andazzo assoluto, tirannico di quel secolo, di quel
fatto, che Clemente XIV, il quale lo compiè dubitando ed invito, lo compiè pure
tirannicamente e incarcerando il generale ed altri de' padri. Ma se ne
addolorò, ma languí, e in breve morí [1774], e fu detto di veleno. Portato a
cielo dagli uni, esecrato oltre a ciò che par conceduto dalla caritá e dal
rispetto cristiano dagli altri, fu in effetto dottissimo, pio, virtuoso,
sincero pontefice. - Succedette Pio VI [Braschi, 1774], e libero esso della
preoccupazione de' gesuiti, attese al miglioramento dello Stato. Ma, e per
quell'indugio, e per la duplice natura di quel governo spirituale, ed in ciò
immutevole, e temporale, e per quella compagnia poco mutevole, ed anche poi per
natura personale di Pio VI, che fu ne' suoi principi papa nepotista, protettor
di lettere ed arti, splendido, elegante, pomposo e quasi imitator de' papi del
Cinquecento; per tutto ciò le riforme dello Stato romano furono molto minori,
che non quelle degli altri d'Italia. Fece musei, intraprese il risanamento
delle paludi Pontine, fece un viaggio a Vienna, per iscemar l'ardore delle
riforme, eccedente lá quanto facevasi da' principi italiani. Ed interrotto poi
dalle preoccupazioni delle rivoluzioni di Francia e Italia (nelle quali il
vedrem finire non senza grandezza), tramandò cresciute poi a' successori, anche
presenti, le difficoltá e necessitá delle riforme di quello Stato. Noi lasciam
altri (dicevam noi al principio del 1846) invocare un Gregorio VII, che non ci
par né possibile né desiderabile a' nostri dí, né a niuno futuro e prevedibile,
sulla Sedia romana; ma con tutto l'ardore d'un figliuolo rispettoso e devoto,
d'un italiano che desidera la conservazione di tutti i principati italiani, noi
invochiamo, noi preghiamo da Dio la grazia d'un Sisto V o d'un Gregorio XIII,
od anche meglio; d'un riordinatore conforme ai tempi, di quello che è il piú
antico, che fu giá il piú glorioso, che fu e può esser ancora il piú benemerito
della civiltá cristiana fra gli Stati italiani. - E corsi pochi mesi, Dio
esaudí la preghiera italiana e cristiana; e l'Italia e la cristianitá alzarono
un grido unanime di gratitudine e di amore. Poi, corsi pochi anni, il gran dono
di Dio fu sciupato dai soliti eccessi italiani: eccessi d'ingratitudine e
scelleratezza da una parte, eccessi di rigore vendicativo dall'altra: vittime
in mezzo, Pio IX, l'Italia, la cristianitá.
|