36.
Le colture di quest'ultimo periodo (1700-1814]. - Ora, passando da tante e tali
rivoluzioni di popoli e d'imperii alle vicende delle lettere, delle scienze e
delle arti, scema un'ultima volta il nostro discorso. Perciocché vano è
l'illuderci di noi scrittori, che ci vantiamo troppo sovente di diriger noi i
secoli e loro eventi, che siamo in realtá molto piú sovente diretti da essi.
Certo che ne' tempi tranquilli, cioè quando posan le guerre e la politica,
importanti possono essere gli eventi letterari, possono allora servire ad
apparecchiare i politici e militari. Ma questo, per veritá, è quanto dire che
importano gli eventi letterari, quando non ne sono altri piú importanti; è dire
che dobbiamo servire a quelli con modestia personale, colla coscienza di non
essere se non apparecchiatori, coll'intento fermo di servire all'apparecchio. E
qui poi di nuovo abbiamo a dir insufficiente l'opera degli scrittori
settecentisti, posciaché non apparecchiarono se non ciò che vedemmo di politica
e guerra italiane. Ma qui pure abbiamo ad ogni modo a lodare e forse a
invidiare l'opera di quegli ultimi avi e padri nostri. - Risorsero nel secolo
decimottavo tutte le colture italiane indubitabilmente. E due cause, due motori
ne appariscono: l'indipendenza accresciuta addentro, e l'impulso venutoci dal
resto d'Europa, della cristianitá; o piuttosto le due cause si congiunsero in
ciò, che la caduta della signoria spagnuola fin da' primi anni del secolo ci
diede occasioni di ricever gli impulsi della politica e della coltura
universali. Tale è, per dono di Dio, la costituzione della cristianitá, che
avendo essa (anche la parte errante di lei) un solo Dio, un solo vangelo, una
sola virtú, ella non può avere se non una sola coltura, o, se si voglia,
parecchie colture somigliantissime; e che, chi si sforza di tenerle disgiunte,
o, peggio, nemiche, farebbe opera empia se non la facesse vanissima; e che, a
malgrado di costoro, le colture nazionali diventano di secolo in secolo men
diverse, piú simili, piú identiche, piú una. Cosí fu fin da' primi secoli della
cristianitá: meravigliosa è l'unitá della coltura de' padri greci e latini;
meravigliosa quella degli stessi secoli barbari e scolastici. La coltura
italiana, innalzandosi di gran lunga sopra l'altre, rimase in ciò per quattro
secoli diversa dall'altre senza dubbio; ma questa quasi esclusivitá fu propria
dell'etá del risorgimento e non si può riprodurre. Giá vedemmo che nel secolo
decimosesto e nel decimosettimo la coltura italiana si comunicò, si diffuse
nelle tre colture, spagnuola, francese, inglese: e fin dal principio del secolo
decimottavo incominciarono tutte queste a rifluire sull'Italia. Ed influí poi,
benché piú tardi e meno, la coltura tedesca, non sorta essa se non molto
indirettamente e parzialmente dall'italiana, non sorta se non alla metá di
questo secolo decimottavo, con Lessing, Moeser, Winckelman, Eulero, Kant,
Wieland, Goethe, Schiller. L'unitá della coltura cristiana si mantenne dunque,
si manterrebbe anche senza la stampa; ma, sorto, come pur volle Iddio, questo
potentissimo, questo umanamente invincibile mezzo di unitá, ella s'unificò e
s'unifica sempre piú, quanto piú venne e viene allargandosi e moltiplicandosi
questo mezzo. Ancora, venne e viene aggiungendosene un altro: la facilitá, la
moltiplicitá de' viaggi tra l'una e l'altra nazione cristiana, dell'orbe
intiero. Stampa e viaggi crebbero notevolissimamente nel secolo scorso; stampa
e viaggi crescono incomparabilmente a' nostri dí. Quanto poi all'Italia del
secolo decimottavo, si vede da tutte le memorie, che dal principio di esso e
lungo esso s'accrebbe via via l'andare e venire di stranieri colti in Italia, e
massime di colti italiani al di fuori; e che lo splendore delle colture nostre
crebbe via via nella medesima proporzione. E quindi non ci sará giá possibile
notare separatamente tutti i nostri uomini di lettere o di scienze che vissero
piú o meno fuor d'Italia; perciocché sarebbe poco men che notare tutti quelli
che avremo a nominare. - E prima, della poesia fu detto da alcuni storici
letterari che ella risorse fin dal cader del secolo decimosettimo, per opera
dell'accademia degli Arcadi allora istituita [1690]. Ma, come a molti, cosí a
me paiono gli Arcadi aver fatto poco piú che mutare una vanitá, un'affettazione
in un'altra, il seicentismo in un settecentismo poco migliore, i concetti in
quelle sdolcinature pastorali che empierono tutto quanto questo secolo. Ma fu
gloria di questo, che tra quel pessimo gusto e quella calca sorsero pur molti
poeti diversissimi, occupatisi in quasi tutti i grandi generi della poesia, e
molto opportunamente in quelli sopra tutti che mancavano per anche alla nostra.
Perciocché ei bisogna pur dirlo; quell'«indulgere genio»,
quell'abbandonarsi alle volgari ispirazioni, quel venir facendo e rifacendo
letteratura facile, che è vantato da taluni, seguito da tanti, massime in
poesia, non riesce oramai né utile alla patria, né glorioso allo scrittore,
nemmeno in poesia; e noi veggiamo all'incontro tutti i buoni e gloriosi del
secolo scorso e del presente aver piú o meno fatto come Alfieri; cioè essersi
messi di proposito, con fatica ed insistenza, a supplire a una mancanza, a
riempire un vuoto delle lettere patrie. Ad ogni modo, fiorirono dalla fine del
Seicento al 1814 Apostolo Zeno [1669-1750], Niccolò Forteguerri [1674-1738],
Scipione Maffei [1675-1755], Metastasio [1698-1782], Alfonso da Varano
[1705-1788], Goldoni[1707-1793], Gaspare Gozzi [1713-1786], Parini [1729-1799],
Cesarotti [1730-1808], Alfieri [1749-1803], Ippolito Pindemonte [1753-1828],
Monti [1754-1828], Foscolo [1778-1827]; una serie magnifica per qualunque
secolo, e poco minore, se è, a quella dei poeti del Cinquecento; una serie che ci
mostra emulata allora l'eleganza de' poemi cavallereschi e didascalici del
Cinquecento, quasi inventati e insieme portati al sommo i generi dell'opera in
musica, della commedia, della tragedia e del poema satirico, e tentato il
romanzo, e rinnovate le varietá, la forza, la virilitá, la grandezza de'
soggetti e dello stile in tutta la poesia italiana. Del resto, fra tutti
questi, due principalmente mi sembrano doversi tener cari nelle memorie
italiane, Parini ed Alfieri; siccome quelli, il cui merito non fu solamente
poetico o letterario, ma morale e politico, e che rimangono del piccol numero
de' nostri poeti morali e virili. - Non solamente il Parini si tenne discosto
dalle scurrilitá e dalle trivialitá che deturparono tanti celiatori italiani
(fra gli altri il Casti e il Passeroni contemporanei di lui), discosto da que'
soggetti filosofici e peggio sacri, dove le celie anche decenti sono
inconvenevoli; ma ei seppe opportunamente rivolgere le sue ad utilitá, anzi ad
uno de' soggetti ov'elle convengono piú, a corregger i vizi aristocratici, i
vizi di quelle classi, le quali, ribellandosi all'altre correzioni, sono piú
tenere a questa. Il Parini non fu certamente solo correttore di quel vizio,
ridicolo al nome stesso, di cicisbeismo, che regnò ne' due secoli decimosettimo
e decimottavo; ma ei fu certo uno de' primi e de' piú efficaci; aiutò l'opera
de' fatti e del secolo, che è quanto può sperare qualunque scrittore; e
l'aiutò, perché non volle essere né degli adulatori né dei copritori, non
temette essere degli svelatori ed assalitori de' vizi patrii. Sono di quelli,
anch'oggi, che si scandalizzano a queste rivelazioni, e si fanno autoritá di
quel detto di Napoleone, che «bisogna far il bucato in famiglia». Ma Napoleone
disse questo del dividersi, nel pericolo, dinanzi agli stranieri; ed io sono, e
fui, d'accordo con lui. Né egli, o nessuno de' suoi francesi, ebbe mai di
questi scrupoli, di questi riguardi ai vizi nazionali. Anzi, non è gente che li
conceda, che li cerchi, che li sveli piú arditamente. Epperciò, dopo tante
cadute, da sessant'anni in qua, quella nazione ebbe altrettanti risorgimenti;
non cadde per lo meno mai in niuno di que' due avvilimenti ultimi e
indivisibili, dell'incapacitá militare e della dipendenza esterna. Certo che
l'Italia non avrá mai Danti, Parini od Alfieri a centinaia e migliaia; ma
quando le centinaia e migliaia de' suoi scrittori seguiranno questi uomini suoi
quasi soli severi, invece di tener dietro alla turba dei nostri grandi
adulatori, scusatori o copritori, allora solamente e finalmente l'Italia avrá
una opinione sana e virile che la conduca a virili fatti. Quanto all'Alfieri,
io so che ad una adorazione di lui, forse soverchia, succede ora in alcuni una
soverchia disistima; che dopo averlo posto sopra tutti i tragici antichi o
stranieri, si pone ora sotto ai greci, francesi, spagnuoli, inglesi e tedeschi.
Ad ogni modo, ei fu diverso da tutti questi in molte parti; e fu grande
abbastanza per fare alla poesia, a tutte le lettere italiane il solenne
benefizio di ricondurle (sia pur colla durezza od anche secchezza) a qualche
severitá. Ed egli poi fece a noi piemontesi il beneficio particolare di farci
entrar nelle grandezze delle lettere nazionali, d'incamminar il secolo aureo di
queste nostre provinciali, le quali comprendono giá, fra non pochi altri, i
nomi di Botta, di Pellico, di Gioberti e d'Azeglio. - Del resto, noi avremmo
potuto allungar la lista qui sopra coi nomi di parecchi poeti minori, lirici e
didascalici, Manfredi, Spolverini, Bondi, Pignotti, Frugoni, Savioli, Fantoni,
Mazza, e del tuo, o ottima e veramente nobile Deodata. Ma le poesie liriche,
anche buone, sono forse com'acqua al mare, in Italia; e se taluno s'offendesse
di tale opinione, io addurrei l'esempio d'uno de' maggiori lirici che noi
abbiamo avuto mai, il quale si contentò pure di far cinque canzoni. Se la
lirica può esser utile, certo sarebbe esercitandola, come il Fantoni ed alcuni
altri de' nomati, su soggetti attuali e patrii; e ciò pure fu un progresso. E
fu un altro, a parer mio, che cosí pur si scrivesse in vari dialetti nostri;
dal Galiani in napoletano, dal Calvi in piemontese, dal Porta e dal Grossi in
milanese, dal Meli in siciliano. Voglion altri, lo so, che sia male scrivere
ne' dialetti, quasi se ne scemino i cultori e i leggitori della lingua comune;
ma io crederei che l'una cosa non guasti l'altra, che tutte le colture, tutte
le glorie d'italiani, s'abbiano a dir buone ed italiane. Che piú? porrò fra
queste, l'avere il Goldoni scritto una bella commedia, e il Galiani un bel
trattato economico, in lingua francese. Siamo compiutamente liberali una volta;
non solo verso noi o chi fa come noi, ma verso chi fa diversamente e bene, in
qualunque modo. Non istimiamo da noi alieno nessuno, nulla d'italiano. Certo,
che questo scrivere bene in una lingua straniera è facilitá, è lode non
ottenuta da niuna nazione come dagli italiani; ed è gloria che incominciando
prima di Dante e Petrarca, dura e forse s'accresce a' nostri dí.
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