37.
Continua. - Ed ora, passando a'
prosatori, noteremo del Baretti [1716-1789], che egli pure meriterebbe lode
d'acerrimo morditore de' vizi patrii, se, dopo averli perseguitati in patria
molto bene, ei non si fosse lasciato trarre a coprirli e quasi giustificarli
fuori, per il solito mal inteso amor di patria, per una mal repressa ira contro
a uno, fosse pure impertinente, scrittore straniero. Noi porremo poi tutti
insieme gli scrittori di storia, di politica, di economia, di filosofia e di
critica; perché, avendo i piú scritto dell'una e dell'altra scienza, o di
generi intermediari, essi si potrebbero difficilmente distinguere. E qui pure
non sará ignobile la lista dei principali che fiorirono dalla fine del secolo
decimosettimo al 1814: Vico [1668-1744], Muratori [1672-1750], Scipione Maffei
[1675-1755] giá nominato fra' poeti, Giannone [1676-1748], Foscarini
[1695-1762], Mazzucchelli [1707-1768], Genovesi [1712-1769], Galiani
[1728-1787], Tiraboschi [1731- 1794], Denina [1731-1813], Lanzi [1732-1810],
Pietro Verri [1728-1797], Cesare Beccaria [1738-1794], Mario Pagano [1748-
1799], Napione [1748-1830], Filangieri [1752-1788], Gioia [1767- 1829],
Cicognara [1767-1834], Romagnosi [1771-1835]. Dei quali è notevole un fatto in
generale: che tutti seguirono i progressi fatti fuori contemporaneamente dalla scienza;
seguirono, dico, i veri e buoni, lasciando (non mi s'oppongano le eccezioni, le
proposizioni particolari) i falsi e cattivi. Né di ciò sia dato merito ai
governi, alle censure, quasi esse fossero che abbiano impedite le esagerazioni.
Perciocché non pochi degli scrittori qui nominati, e molti poi de' minori
vissero fuori d'Italia, ove essi avrebber potuto, al par degli stranieri,
passare ogni limite di moderazione e bontá; ondeché, se non li passarono, o li
passarono di rado, ei sembra doversi conchiudere, che la natura, o meglio forse
l'antichitá, della civiltá italiana, portino seco quasi uno schermo contro a
quelle esagerazioni, le quali sono proprie delle colture piú nuove, e piú
specialmente del secondo periodo di esse, del periodo vago di novitá. L'Italia,
che era fin d'allora al suo quinto secolo di coltura, amava ciò che amano i
vecchi, la ragione; e non essa nemmeno nelle pretensioni eccessive, ma nella
giusta moderazione di lei. E vegga quindi ognuno, se non sarebbe stato fin dal
secolo scorso piú utile ed alla italiana ed all'universale e cristiana coltura,
torre od allentare almeno que' freni, che non erano dunque necessari a moderare
gli scrittori nostri, e che, scemando poi lor libero andamento, scemarono senza
dubbio lor facoltá, lor potenza. E il fatto sta, che se noi rimoviamo le
pretensioni nazionali e massime le provinciali e municipali, due soli grandi
troveremo tra' nominati; Vico e Muratori. - Vico ebbe destino contrario al
consueto; negletto dai contemporanei ed esaltato dai posteri, ci rimane uno di
que' rari esempi che confortano le speranze, per lo piú stolte, dei cosí detti
«ingegni incompresi». Vico fu incontrastabilmente un grande ingegno: fu, tra'
moderni, terzo dopo Macchiavello e Bossuet a cercar quelle leggi secondo le quali
si rivolgono e s'avanzano le nazioni, a studiar quella, come che si chiami,
ragione o filosofia o semplicemente scienza della storia universale. Ma Vico
s'ingannò oltre ai due predecessori in fatto di storia antica, credendo trovar
in essa piú simboli, piú arcani, piú profonditá che non vi sono. I fatti
antichi furono piú semplici che non credette quel quasi seicentista della
storia, e che non credono molti peggio di lui. E poi, non istudiando abbastanza
la storia del mondo moderno e cristiano, ei non concepí l'essenzial differenza
che è tra il mondo antico e questo nostro; incamminato quello nella via
dell'errore e destinato quindi a progredire in essa, cioè, in somma, a
peggiorare, a corrompersi anche in mezzo alla civiltá ed alle colture; partito
il nostro dalla veritá ed incamminato quindi in una via di virtú e di progressi
indefiniti. E quindi Vico inventò, o piuttosto prese dagli antichi quella
supposta idea de' periodi d'accrescimento, colmo e decadenza delle nazioni,
legge che non esiste in fatto né in ragione nel mondo cristiano. Né ebbe Vico
quella bella, ma essa pure non giusta idea del progresso incominciato col mondo
e continuato d'allora in poi, la quale non sorse se non dopo la morte di lui,
ed al cader del secolo decimottavo. E tanto meno ebbe quella sola giusta, non
inventata ma solamente risuscitata dal secolo nostro, antica quanto i santi
padri e gli apostoli e il Salvatore, anzi quanto i profeti che l'annunziarono;
l'idea del mondo rinnovato, ravviato, fatto progressivo veramente e solamente
da lui. Il tornare dall'ultima, anzi dalla penultima di queste idee, al divagar
di Vico o degli antichi, è un tornar addietro nella scienza nostra
indubitabilmente. Sappiamo venerare i grandi de' secoli passati; ma imitiamoli
nel non rinnegare i progressi veri del nostro. - Del Muratori poi crediamo che
non si possa mai abbastanza né onorar la memoria, né proporre ai posteri
l'esempio. Buono ed operoso ecclesiastico, e paroco, e bibliotecario, fece
numerosi lavori di teologia, di morale e di critica: ma furono un nulla
rimpetto a quelli di storia d'Italia. Egli solo fece piú per questa, che non
per l'altre qualunque societá letteraria, qualunque congregazione di monaci
studiosi. Adempiè a tutti e tre gli uffici che avanzano la storia d'una
nazione; fu gran raccoglitore di monumenti nell'opera Rerum italicarum;
fu gran rischiaratore dei punti storici difficili nelle Dissertazioni,
distese in latino ad uso dei piú studiosi, abbreviate in italiano ad uso de'
piú volgari; e negli Annali fu scrittore del piú gran corpo che abbiamo
di nostra storia, scrittore sempre coscienzioso, non mai esagerato in niuna
opinione, non mai servile, sovente ardito e forte, e talora elegante ed anche
grande. Quindi i lavori di lui diedero spinta, agio, possibilitá ed a pubblicazioni
ulteriori di documenti, ed a storie speciali delle lettere, delle arti, de'
commerci, e ad altre particolari di province e cittá; e cosí ai lavori del
Tiraboschi e del Lanzi giá detti, ed a quelli di Lupi, Fantuzzi, Marini, Affò,
Giulini, Rovelli, Carli, Savioli, Pignotti, Marin, Diedo, Filiasi, e non pochi
altri. Ma tutti questi non arrivarono di gran lunga al Muratori; a pochi grandi
toccò come a lui la infelice gloria d'aver seguaci numerosissimi, ma tutti
minori. Fra i tanti vanti di che siam larghi a noi stessi, noi ci diam
veramente pur questo d'aver una letteratura storica superiore a tutte l'altre
moderne; ma lasciati i cinquecentisti, che sono grandi per cinquecentisti, la
veritá è, che dal Muratori in poi, che nel secolo in cui ciascuna delle altre
nazioni si procacciò non una, ma parecchie grandi storie patrie nazionali,
niuna tale fu fatta d'Italia, da niuno scrittore italiano. Eppure questa opera
d'una storia nazionale è forse, è certamente l'opera letteraria piú necessaria
di tutte a qualunque nazione; quella, la cui mancanza si fa sentir piú ed in
tutte le colture, e nella politica pratica di qualunque nazione; quella, che
sola può dar color nazionale, aiuti, soggetti innumerevoli ed opportuni a tutte
le composizioni letterarie ed artistiche; quella, che sola può dar esempi,
consigli, opportunitá e forza agli uomini politici. Come si fa che ad essa non
siasi rivolto ancora efficacemente l'ingegno pur cosí vario degli italiani?
Certo per due difficoltá, una intrinseca, ed una estrinseca: prima la
difficoltá intrinseca di questa storia cosí varia, cosí moltiplice, cosí piena
di fatti diversi di luogo, e concorrenti nel tempo, che sará forse sempre
impossibile renderne facile epperciò piacevole la lettura. Ma insomma, se non è
superabile del tutto questa difficoltá intrinseca, ella è fino a tal punto
certamente che si possa fare una storia se non piacevole, almeno utile; e il
fatto sta che tra il secolo scorso e il presente, fino al 1814 (senza venir piú
giú), due stranieri intrapresero di darci di que' corpi di storia che non
imprendemmo noi, il Lebret e il Sismondi; e l'intrapresero, perché non avevano
quella difficoltá estrinseca, che fu per noi la maggiore senza paragone. Le
censure comprimono tutte le parti della letteratura, ma nessuna come la storia
di gran lunga; perché le altre parti si possono adattare a trattar dell'una
invece dell'altra veritá, della veritá non compiuta; ma la storia senza veritá
compiuta non è solamente incompiuta ma falsa, non è piú storia; e quando è
ridotta a tale, non si tratta piú da niun amator vero della veritá, da niun
ingegno virtuoso e grande; e si tratta allora o dai nazionali mediocri per
natura, o dagli stranieri quasi sempre mediocri per difetto o d'informazioni o
d'intelligenza delle cose nostre. E qual danno sia stato questo poi per li
popoli, e piú specialmente per li principi (forse piú particolarmente per
quello che è principe politico insieme ed ecclesiastico), per tutti i
governanti che hanno piú interesse che le cose patrie sien trattate dagli ingegni
alti e per conseguenza moderati, io non ho luogo a discorrerne qui, e diventa,
del resto, men necessario, ora che è cessato tal danno intieramente, in una
parte almeno d'Italia. Troppo forse ho giá indugiato qui, ma spero non esser
paruto scostarmi dall'assunto mio, né lodando nell'infimo dei lavori sulla
storia d'Italia il piú gran cultore di essa, né chiamando sulle deficienze di
essa l'attenzione de' miei leggitori. - Del resto, molto sarebbe ad aggiungere,
e su quel grande ma per gioventú ancora incompiuto ingegno del Filangieri; e
sulla pochezza degli altri nostri scrittori politici di questo secolo, che fu
pure altrove cosí ricco di essi; e sui nostri economisti numerosi, buoni in
generale, e applicatori della scienza alle cose patrie; cosí i governi avessero
seguiti alla pratica piú abbondantemente i loro cenni! E sarebbero a notar pure
i nostri filologi, ellenisti ed orientalisti, e i nostri teologi: ma ci stringe
il termine del nostro scritto. - E cosí stringeremo in poche parole ciò che ci
resta a dire delle scienze naturali o materiali. Queste furono la gloria
massima del secolo decimottavo, furon quelle che progredirono piú
incontrastabilmente allora. E giá parecchie volte osservammo che elle son
quelle che dipendon meno dalle buone condizioni politiche; tantoché nel
Seicento stesso furono possibili in Italia un Galileo e i suoi seguaci. I quali
si moltiplicarono e progredirono poi nel Settecento fino al 1814. Furonvi
principali: Eustachio Manfredi nomato sopra fra i poeti [1674-1738], Morgagni [1682-1771],
Francesco Maria Zanotti [1692-1777], Giovan Battista Beccaria [1716-1781],
Spallanzani [1729-1799], Lagrangia [1736-1813], Galvani [1737-1798], Volta
[1745-1826], Mascheroni [1750-1808], Mascagni [1752-1815], oltre una turba di
minori. Fra' quali tutti torreggiano, come ognun sa, Lagrangia e Volta. Il
primo, compaesano e contemporaneo d'Alfieri, introdusse il Piemonte alle glorie
scientifiche italiane, non meno che Alfieri alle letterarie. Ma è da notare che
l'uno e l'altro lasciarono la terra paterna, e la rinnegarono poi in tutto il
resto di lor vita. E cosí piú o meno Denina, Baretti, Bodoni ed altri; tantoché
niuna provincia italiana diede tanti migrati come questa; tanto che ei convien
dire che, ferace d'ingegni, ella non fosse apparecchiata per anco al loro
svolgimento. Ed era, del resto, naturale; quando si dirozza alle colture una
terra nuova, vi abbondano quelle invidiuzze, que' timorucci, quelle ostilitá di
piccoli contro grandi che si trovano ritratte al vivo da Alfieri nella sua Vita.
All'incontro di Lagrangia, Volta dimorò quasi costantemente in Lombardia sua
patria, e visse onorato nell'universitá di Pavia. La quale e quella di Torino,
ed altre dell'antiche italiane, fiorirono piú che mai nel secolo decimottavo,
fino al 1814, e furono i migliori centri di tutte le colture italiane. E cosí è
naturale, per vero dire: dove non sono centri di operositá politica, le colture
non possono rifuggir meglio che a questi che son centri almeno dell'operositá
d'insegnamento. Qualche viva operositá si vuole a tener vive le colture.
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