39.
Le sette
etá di nostra storia. - La storia da noi
percorsa rapidamente, e quasi «con lena affannata», è la piú lunga e la piú
ricca di grandi e vari esempi, che sia di niuna nazione al mondo. Sono intorno
a tremila anni di fatti narrabili. Divisili in sette grandi etá, noi vedemmo
nella prima gli stanziamenti primari de' tirreni, degli iberici e degli umbri,
e la prima invasione de' pelasgi; e sollevarsi poi in una bella guerra
d'indipendenza que' popoli antichi, gl'itali ed etruschi principalmente; e
ricacciati al mare que' primi intrusi, sorgerne il nome patrio d'Italia, e
l'imperio degli etruschi, imperio potente, famoso a' suoi tempi, e oscurato per
noi solamente dall'estrema antichitá. E succedute primamente l'immigrazione
lenta, quasi pacifica, ed incivilitrice degli elleni nel mezzodí, poi quella
ultima tutto diversa de' galli a settentrione; con questa terminammo la lunga e
primitiva. - Quindi vedemmo incominciar la seconda col generoso accorrere alla
riscossa contro ai galli della picciolissima Roma; la quale in ciò appunto si
fece grande, ponendosi capo a quel sentimento di nazionalitá che è di tutti i
tempi, antichi come nuovi, rozzi come civili. E non prima, ma allora sí ci
parve attribuir a Roma il pensiero di cacciar lo straniero dalla penisola, o di
farvisi signora essa, che a que' tempi era lo stesso. Ed ella compiè tal
disegno in quattro secoli; e compiè intanto, insieme, quasi per aggiunta,
quello di farsi signora del mondo d'allora, di tutte le nazioni all'intorno del
Mediterraneo, e del Mediterraneo stesso, diventato lago italiano. Questa fu la
magnifica ricompensa del suo spirito di nazionalitá; questa, dico, se il nostro
pensiero ci trattiene in terra, si leva a poco volo. Che se noi sappiamo
abbandonarci a quelle considerazioni soprannaturali, le quali innalzano il
pensiero quasi tra terra e cielo, noi veggiamo aver avuto que' nostri padri una
maggior ricompensa, un magnifico destino: quello d'apparecchiare il primo campo
della cristianitá. Ma in ciò fare, Roma erasi fatta troppo grande per durar
repubblica; anche a' nostri dí, ed inventata la rappresentanza de' lontani ne'
grandi Consigli nazionali, sarebbe forse impossibile il governo repubblicano a
un cosí vasto imperio; ma impossibile era certamente a que' tempi, quando la
partecipazione ai governi, ai Consigli, la libertá politica, la libertá
compiuta non s'estese mai oltre alle mura o al territorio d'una cittá; impossibile
era che la cittá signora di tanto mondo non s'arricchisse sterminatamente e
cosí non si corrompesse, non s'arricchisse inegualissimamente e cosí non si
dividesse all'interno suo; ed impossibile poi che dividendosi, e
parteggiandone, e combattendone, non vincesse alla lunga la parte dei piú
contro ai pochi, e non sorgesse all'ultimo uno solo sopra a' piú, un principe
sul popolo, come quasi sempre succede. E allora si compiè la rivoluzione della
repubblica in imperio. - Viene dunque la etá terza, o di questo imperio; e con
poco diletto nella storia, poco utile negli insegnamenti, essendo essa d'una
cosí sfacciata tirannia, d'una cosí sfacciata servitú, che non può rinnovarsi
nella cristianitá; non pericoli, non accrescimenti all'infuori, non divisioni,
non parti, non vita addentro, non operositá fuori né dentro, salvo che di
lettere al principio, ma per poco; finché tutto fu ozio e vizi e corruzione,
finché il popolo romano, che aveva vinte nazioni su nazioni incivilite, prodi e
grandi, non fu piú pari a difendersi contro alle genti sparse e barbare che
l'assalirono, l'invasero, lo distrussero. Una consolazione, una bellezza sola
ma suprema sorge in tutta questa etá: il sorgere dapprima oscuro, poi a un
tratto splendidissimo della cristianitá; la cristianitá sollevantesi tra le
rovine dell'imperio, ed ivi aspettante i barbari. - S'empie quindi tutta di
questi barbari la quarta etá. E di nuovo, nulla quasi di bello; salvo forse
Teoderico gran re d'Italia e d'altre province all'intorno, che parea dover essere
gran fondatore d'una nuova nazione italiana, come furono le contemporanee
francese, spagnuola ed inglese; che non fu se non d'un regno di pochi anni,
grazie all'inquieto desiderio dell'imperio e del nome di Roma che s'apprese
agli italiani, che fece chiamare i greci, cadere i goti, e sottentrare in un
dieci anni i longobardi. Seguono dugent'anni di questi, incapaci di conquistare
tutta Italia, incominciatori del dividersi di essa fino a noi, fino ad ogni
avvenire prevedibile; incapaci di governar le province occupate, di serbarle,
contro ai papi capipopolo di Roma, ed ai loro patrizi ed amici, i Carolingi di
Francia. Poco rincrescimento rimane della caduta di que' longobardi, che,
mischiati poscia con noi nella sventura comune, lasciaron il sangue piú abbondante
che sia forse in nostre schiatte. - Segue la quinta etá, di Carlomagno e dei
suoi discendenti e successori, imperatori e re stranieri; imperatori, per lo
stolto piacer presoci di gridare un imperator romano; re, per quelle invidie
che ci fecero sempre parlare, piangere, adirarci contro agli stranieri, ma in
fatto anteporli a' nazionali; quelle invidie di sotto in su, e di sopra in giú
che diedero l'Italia a quell'Ottone pur troppo grande, dal quale in poi, salvo
le due brevi eccezioni d'Arduino e di Napoleone, sempre rimase tedesca la
corona veramente ferrea d'Italia o di Lombardia. E naturalmente, questa fu la
peggiore, l'infima, la piú corrotta delle nostre etá; corrotti principi e
signori, uomini e donne, sacerdoti e vescovi e papi, tutto l'ordine feodale
secolare, e quasi tutto l'ecclesiastico sottopostosi simoniacamente a quella
feodalitá; sorgente sí il popolo, che deve quindi credersi men corrotto;
sorgenti qua e lá alcuni monaci studiosi, zelanti, riformatori, riformati, e
fra e sopra essi Ildebrando, Gregorio VII. - E quindi, da questo pontefice, non
incolpevol forse, ma gran riformatore, gran santo, grand'uomo politico, gran
rivendicator d'indipendenza ecclesiastica, grande aiutator d'indipendenza
politica, e, senza saperlo, forse di libertá, noi incominciammo l'etá sesta, la
maggiore delle nostre moderne, l'etá de' nostri comuni, di quel nostro secondo
primato che fu piú veramente di colture che di civiltá; e cosí facemmo
deliberatamente, risolutamente, a malgrado gli odii giá vivissimi, or morenti
contro a quel grande; vivissimi al tempo che non si perdonava nemmeno a un papa
d'aver mancato di rispetto alle potenze temporali, e massime all'imperiale;
morenti, dacché s'apprezzano tutti i rivendicatori di tutte le libertá. E
continua quindi questa etá nostra, forte, crescente, splendida, magnifica in
tutto, in difesa d'indipendenza, in progressi di libertá, in progressi di tutte
le colture, tutti i commerci, tutte le operositá, tutte forse le virtú
pubbliche, salvo una; salvo quella vera, somma ed ultima liberalitá che
consiste in vincer le invidie, dico anche l'invidie derivanti dalle condizioni
speciali di ciascuna etá. Nell'etá precedente, de' grandi, i grandi italiani
s'eran invidiati tra sé, ed avean data la patria ai grandi stranieri; in questa,
nell'etá dei comuni, delle cittá, del popolo, s'invidiarono cittá contro a
cittá, cittadini contro a cittadini, piccoli contro a grandi, grandi contro a
piccoli, piccoli rimasti soli tra sé; e cosí distratti da quella che è la piú
inquieta e la piú perseverante, la piú meschina e la piú tiranna, la piú
operosa e la meno operante delle passioni, non rimase tempo a que' miseri, non
mente libera al pensiero, non cuore al sentimento dell'indipendenza; non si
compiè l'acquisto di questa quando s'ebber l'armi in mano a propugnarla, non si
mirò ad essa nelle paci, non si riprese quella rivendicazione mai piú; s'attese
a tutto, fuorché al piú necessario, fuorché a ciò che fa una nazione; e cosí
poi, meritatamente, sí riperdette quella libertá interna a cui s'era
sacrificata l'esterna: si riperdettero quelle tirannie aristocratiche,
democratiche, a cui s'era sacrificata la vera, equilibrata e non invida
libertá, si riperdette ogni buona operositá militare o politica; e
s'apparecchiò la nazione a qualunque signoria o preponderanza straniera fosse
per venire. - Venne Carlo VIII, da cui dunque incominciammo l'etá settima ed
ultima, e che dura, delle preponderanze straniere; ma non istette. Venne Luigi
XII, e non istette nemmeno. Ma venne insieme Ferdinando il cattolico, e stette
in Napoli e Sicilia, e tramandolle a Carlo V imperatore; il quale, come tale,
diede a se stesso il ducato di Milano, e cosí tenne Italia dal collo e dal piè,
e tramandolla a' suoi discendenti di Spagna, coi Paesi bassi, con America,
colle Flippine, colonia anch'essa da farne pro per la madre patria. Ma, immenso
esempio, non fece pro di noi, piú che di quell'altre superfetazioni, la madre
patria; languí anzi e decadde tra esse. Non fecene pro nemmen quella casa
regia, che degenerò e cadde; non ne fu fatto pro se non da pochi viceré,
governatori ed impiegati minori. E cosí tra tutto quel languire, languimmo noi
pure, Italia quasi tutta, salvo talora Piemonte, per li centoquarant'anni del
Seicento, in nullitá politiche, in corruzione di costumi, in cattivi gusti di
lettere e d'arti, in ogni cosa, salvo che in filosofia materiale sollevata da
Galileo, martire di essa. Finí poi quel marciume colla fine della marcia
schiatta regia austro-spagnuola all'anno limitrofo tra i due secoli
decimosettimo e decimottavo; e si sollevò questo per le guerre, che si fecero
forti e grosse ne' dodici anni della contesa della successione di Spagna; per
li trattati di Utrecht, che fondarono un secondo regno italiano a casa Savoia
ingrandita; e piú per quella guerra della successione di Polonia e quel
trattato di Vienna, che liberaron da Austria e rifecero indipendente l'antico
regno di Napoli e Sicilia, non lasciando allo straniero che Milano e poca
Lombardia all'intorno. Ed allor tentò, allora incominciò a risorgere Italia; e
si riformò, migliorò, progredí incontrastabilmente, benché non abbastanza pur
troppo; non nell'essenza dei principati italiani, che rinnovaron tutto salvo se
stessi; non nell'indipendenza, che rimase incompiuta. E cosí, mal apparecchiata
all'impreveduta occasione dell'invasione francese (come giá a quella di Carlo
VIII, di Carlo d'Angiò, di Federigo I e tante altre), si trovò la lenta Italia
del 1792. E come disapparecchiata, lasciò i piemontesi combattere e succombere
soli nel 1796, e si divise in parti di regii e repubblicani, di francesi ed
austriaci per diciott'anni; lungo i quali caddero le ultime repubbliche del
medio evo, caddero, si restaurarono, ricaddero e si restauraron di nuovo i
principati; e si finí collo stabilimento raddoppiato, contiguo, piú sodo, piú
forte che mai, almeno in apparenza, del regno lombardo-veneto, dal Ticino
all'Adriatico. Né sia per nulla, poi, che abbiamo cosí ristretto a poche pagine
questo giá tanto, e forse troppo, breve sommario de' fatti nostri. Sappiamo
restringerli anche piú nella mente nostra, sappiamo veder d'uno sguardo le
nostre sette etá, e discernere fra esse tre belle, grandi, gloriose e virtuose,
quelle dei tirreni ed altri popoli primitivi, della repubblica romana e dei
comuni; ed all'incontro, quattro brutte, dappoco, corrotte e miserande d'ogni
maniera, quelle dell'imperio romano, de' barbari, degli imperatori e re
stranieri, e, quantunque meno, essa pure quella delle preponderanze straniere.
È ella caso tal differenza? ovvero, ha ella cause moltiplici nelle diverse etá?
ovvero, forse una sola costante e comune? - Io vorrei non dirlo; i leggitori
saranno stanchi oramai di udirmi pronunciare in poche parole delle maggiori
questioni nazionali; e piú stanchi forse di udirmele risolvere poco men che
tutte in una sola conchiusione. Ma non è colpa di mia volontá; sará forse del
mio intelletto, se, quanto piú vario o combino aspetti de' fatti nostri, piú mi
si riaffaccia quella conchiusione stessa. E riaccolte qui in un pensiero le
diverse etá di nostra storia, io non so non vedere nelle tre grandi un medesimo
fatto, nelle quattro dappoco un medesimo difetto: il fatto o il difetto della
indipendenza rivendicata. E lascio trarre le conseguenze storiche od anche
pratiche a ciascuno. - E trentadue anni noi vivemmo d'allora in poi, il tempo
appunto che nelle storie si suol chiamar d'una generazione. E questo è
indubitabilmente principio d'un quarto periodo di quella lunga etá delle
preponderanze straniere. Ma appunto, una generazione non basta a nominare, a
qualificare un secolo, un periodo di storia; nome e qualitá dipenderanno dalle
due o tre generazioni che seguiranno, forse da una, forse da questa che vien su
dopo noi. Ad ogni modo, una distinzione parmi potersi far giá in questi pochi
anni, una quasi suddivisione di capitoli della storia futura: noi avemmo un
tempo di errori universali, incontrastabili; ma mi par sorgere un tempo di
ricominciati progressi. Da principio, i principi italiani restaurati, chi piú
chi meno, restaurarono i governi antichi, quali ei li avean lasciati un
quindici o sedici anni addietro: non tenner conto né de' fatti intermedi, né
degli uomini, né degli interessi, né delle opinioni nuove; e fu errore
incommensurabile, riconosciuto ora da tutti, salvo forse pochi sopraviventi a
difendere ciò che fecero. E allora si sollevarono l'opinione, gl'interessi
popolari nazionali, contro a' principi. E fu naturale, fu giusto senza dubbio,
ma fu infelicissimo, fu fatale questo alienarsi di principi e popoli italiani
tra sé; e fu piú fatale quando scoppiò in congiure, che son sempre fatti
immorali e pervertitori; fatalissimo quando in sollevazioni, che son fatti
impotenti contro a governi forti, imprudenti contro a' titubanti che fanno
titubar tanto piú; impotentissimi e imprudentissimi in faccia a uno straniero
piú interessato di gran lunga a comprimerle, che non gli stessi principi
nazionali; posciaché questi, in somma, resterebber principi, e forse piú forti
principi colle libertá cosí domandate, mentre i dominatori stranieri san bene
di non poter rimanere dominatori nostri cosí. Questo, dico, fu un primo tempo
d'errori vicendevoli di principi contro a popoli, di popoli contro a principi;
tempo fatalissimo di divisioni, piú o meno simili alle consuete, vecchie,
antiche ed antichissime. - Ma da alcuni anni (e s'io m'ingannassi ei sarebbe
non solamente con sinceritá, ma a malgrado lo studio piú grave ond'io sia
capace), da alcuni anni sembrano indubitabili due progressi: quello dei
principi e governanti che vanno lentamente migliorando, secondo le opinioni de'
popoli, i loro governi; quello de' governati che vanno lentamente smettendo le
congiure e le sollevazioni contro ai principi. Noi progrediamo da una parte e
dall'altra, non parmi dubbio; ma noi progrediamo da una parte e dall'altra
molto, troppo lenti, non parmi dubbio nemmeno. Ciascuna delle due parti vede,
dice questa lentezza dell'altra: io la dico di tutte e due; questa diversitá è
tra me e l'una o l'altra parte. Ognuna vuole che incominci l'altra ad
accelerare il buon moto. Ché non incomincia, come certo il può, ciascuna da sé?
Sembra agli uni aver tempo libero a' miglioramenti, agli allargamenti
governativi, ad acquistarsi l'opinione universale; sembra agli altri aver tempo
libero a fare e finire congiure e rivoluzioni. Ma rimarrá egli libero tal tempo?
Questa è la questione, e tutta la questione d'oggidí. Non pochi eventi
sopravvenner giá nei trentadue anni corsi, che avrebbon potuto esser utili, che
furono inutili a noi disgiunti e disapparecchiati. Altri ne sorgeranno
indubitatamente prima che si compia questo operosissimo fra' secoli cristiani.
L'Europa è ordinata, è vero, ad occidente; ma è ella ad oriente? Non s'ordinerá
ella pure lá in qualche modo? cadendo turchi, o sorgendo slavi, o sfasciandosi
questo o quell'imperio? ché poco importa, insomma, se sappiamo apparecchiarci,
cioè se sappiamo unirci. - E finalmente, se qui pure ci rivolgiamo dai fatti
agli scritti, alle colture, di queste pure noi osserveremo due tempi molto
diversi negli ultimi trentadue anni. Un primo di compressione, maggiore forse
che non sia stata mai, per parte de' governi; e quindi un tempo di nullitá
quasi universale negli scrittori, salvo pochi che scrissero allora con
incomparabile, due con immortal mestizia. Ed un periodo secondo, in che dai
nostri compatrioti fuor d'Italia ci vennero dapprima parole esagerate e
furenti, ma a poco a poco parole forti di moderazione e sapienza; e in che poi
i nostri principi incominciarono a tollerar piú o meno che cosí pur si tentasse
scrivere dentro Italia. - Sappiamo riconoscere il bene anche troppo lento, se
vogliamo accelerarlo; sappiamo benedirne chi ce ne dá, se vogliamo averne piú;
sappiamo ringraziarne Dio, di cui non parmi invocar invano il nome qui;
sappiamo, come italiani e come cristiani, pregar Lui che ha in mano gli animi italiani
di unirli ad acquistare i destini ch'Ei ci apparecchia; e sappiamo, come giá i
maggiori nostri di Legnano, risollevarci dopo la preghiera, ad operar per la
patria fino alla morte, ciascuno secondo tutte le proprie facoltá. Che se fu in
niun secolo mai, certo è evidente nel nostro, Dio suol proteggere coloro che
operano cosí.
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