41.
Continua [1833-1843]. - E la maggior prova
di ciò risulta appunto da quanto seguí. Il paese d'Italia piú importante senza
contrasto in Italia fu fin dal 1814 il Piemonte. L'Italia non è da rimproverare
di non aver ciò veduto; è piuttosto d'averlo veduto troppo, di aver fidato nel
Piemonte solo, non ciascuno pure in sé; non solamente tutti i forti sperarono
in lui, ma tutti i fiacchi si riposarono in lui, e quasi tutte le mene de'
cattivi si volsero a lui. L'uomo poi, fin dalla medesima epoca, piú importante
in Piemonte e in Italia, fu senza contrasto Carlo Alberto. E quindi a lui piú
che a nessuno mirarono, lui cercarono, circondarono, travagliarono e
tormentarono variamente buoni, forti, fiacchi, cattivi, d'ogni sorta; ed
aggiugnendosi alla varietá degli uomini la varietá della fortuna, n'uscí quella
varia natura, che tutti seppero, molti calunniarono, pochi conobbero, e piú
pochi sanno apprezzare. Il piú degli uomini perdono ad essere studiati; questi
ha bisogno d'essere studiato, per essere, cosa rara, compatito insieme ed
ammirato. E perciò, perché questo non può che guadagnare a ciò che se ne parli,
e come centro che fu d'Italia per trentacinque anni, val la pena che se ne
parli con qualche particolare, perciò mi scosto dal mio proposito, e mi vi
fermo. Nato nel 1798 d'un ramo staccato da presso a duecento anni, e cosí
discosto dal trono di casa Savoia, era di pochi mesi quando cadde questo trono
in Piemonte; e cacciata la famiglia regia per Sardegna, suo padre e sua madre
rimasero in Piemonte, privati fra que' repubblicani. E mortogli poco appresso
il padre, e passata alcuni anni appresso la madre a seconde private e feconde
nozze, egli s'allevò in quella nuova famiglia, ed in parecchi convitti di
giovani in Parigi, in Ginevra, tra cattolici, protestanti, repubblicani, imperialisti;
ed in quella condizione tra principe e privato, che è giá ambigua e difficile
per sé, che gli si faceva piú ambigua d'anno in anno, non essendo nato e vivuto
niun erede maschio a casa Savoia in Sardegna, e rimanendo egli cosí erede a
quel regno, e pretendente agli Stati di terraferma. È noto come questa
condizione di pretendente sia la piú ambigua, la piú infelice in che si possa
educar un principe. Stava per uscirne ed entrar nell'esercito di Napoleone,
quando questi cadde. E chiamato allora a un tratto alla reggia retrograda ed
assoluta di Torino, e circondatovi insieme di vecchi assolutisti e di giovani
liberali, pendé facilmente, naturalmente a questi, e per le memorie di sua
educazione, e per la sua gioventú, e per il suo sangue stesso, avverso ad
Austria, ed avido d'imprese, ed anche venture militari, di generazione in
generazione. Nel 1820 e 1821, fu tra quelli che avrebbero aiutata la
rivoluzione liberale, se si fosse fatta co' mezzi legali, con riguardi agli
obblighi suoi verso il suo re. Ebbe egli e ruppe bene o male impegni presi? non
è qui il luogo di chiarirlo; né io scrivo un panegirico o una difesa. E
sarebbero forse mal difendibili tutti gli atti durante o dopo la sua breve
reggenza, e il suo mutar poi, o sembrar mutar opinioni e modi durante il regno
di Carlo Felice. Questo dico e so, che le opinioni sue nel 1821 erano
sinceramente liberali; per la libertá, senza gran cognizione e discernimento di
essa; per la indipendenza, con quell'ardore, quel cuore, quella devozione di sé
e de' suoi, fin d'allora, che gli vedemmo ventisette o ventott'anni in poi. E
quindi non rimane a me il menomo dubbio, che se si fosse lasciato svolgersi ed
afforzarsi da sé quell'ardore, quello spirito, quell'animo primitivamente
liberale, e che niuno oramai può non dire naturalmente generoso; se non si
fosse alienato con disegni, che a ragione o a torto non gli parvero generosi;
se fosse rimasto duranti i due regni intermediari circondato da quegli uomini
liberali e generosi, che furono essi pure perduti in tutto quell'intervallo per
la patria; non è dubbio, dico per me, che il suo accedere al trono nel 1831,
subito dopo alle grandi rivoluzioni europee, sarebbe stato principio di un
regno fermamente, uniformemente liberale nel principe, e liberalmente aiutato da'
compagni ed amici di sua gioventú. Fu invece un regno di titubanze continuate
fin presso al fine. - Incominciò con alcuni atti liberali, ma piccolissimi, i
quali dimostrano insieme, e che il suo animo vero, i suoi disegni erano
liberali, ma ch'ei dubitava, voleva tentar quella ch'ei prendeva per opinion
pubblica, ed era solamente della corte, dei servitori, degli impiegati del suo
predecessore. I quali naturalmente si scandalezzarono di que' principi, vi si
opposero, lo fermarono, lo determinarono ad atti opposti e via via cresciuti,
fino a quelli deplorabili che accennammo della repressione, giusta in sé,
ingiusta nelle forme e negli eccessi, della congiura del 1833. Si fece poi, e
si fa un gran chiasso della aristocrazia piemontese, quasi che ella fosse che
producesse, nutrisse e mantenesse questo pervertimento delle buone intenzioni
di Carlo Alberto. Ed io non mi faccio nemmeno difensore di quella aristocrazia;
ma mi par da osservare fin di qua, che quando in qualche storia distesa si
verrá ai particolari ed al novero dei nomi veri aristocratici piemontesi, se ne
troveranno molti piú nelle vittime del 1821, nelle opposizioni legali dal 1821
al 1848, o nella parte che aveva nome di liberale nella corte stessa, che non
nella parte stazionaria, retrograda o persecutrice di questa; e che i veri
persecutori poi furono di tutt'altro che di quella vera aristocrazia. Perché
dar nomi falsi alle cose pur troppo vere? perché non chiamare semplicemente e
veramente parte retrograda, residuo del regno precedente, effetto delle tristi
persecuzioni e purificazioni del 1821, quel cumulo di governanti, che sviarono
i primi anni di quel regno, il quale doveva finir poi, forse ancora il piú
utile, certo il piú glorioso che sia stato mai, a casa Savoia, e, niuna classe
esclusa, a tutta la nazione, a tutto il nome piemontese?
Lo dicemmo; il 1833 fu
l'anno piú basso, piú oscuro di tutto questo periodo. D'allora in poi, piú o
meno prontamente si risalí, si rischiarò il cielo d'Italia. Gli storici distesi
accenneranno essi piú esattamente i fatti, i principi, le continuate
opposizioni, le nuove titubanze, le fermate, i ritorni indietro, la vittoria
ultima dell'opinione liberale, progressiva, giusta, naturale al secolo, alla
civiltá cristiana, ai decreti evidenti della provvidenza. Io accennerò
solamente quello che mi pare primo principio, e, se non causa, occasione, mezzo
usato da Dio, in tutto ciò. Carlo Alberto fu negli ultimi anni suoi
sinceramente pio, intimamente, forse scrupolosamente coscienzioso. Ed io credo
che la sua coscienza primieramente liberale si sollevasse contro agli stessi
atti suoi del 1833, fosse l'origine di quell'austeritá de' suoi atti, di sue
parole, di tutti i suoi modi, di tutta sua vita, che incominciò appunto negli
anni che seguirono l'origine del suo fermarsi nella via antiliberale, del
chiamar uomini meno estremi, massimamente in fatto di persecuzioni e polizia,
del suo camminar piú fermo nelle riforme. Fecene molte d'allora in poi; il suo
Stato era rimasto il piú retrogrado tra gli italiani; fecene il piú progredito,
il meglio ordinato. Riformò tutta la legislazione civile, e ridussela in
codici; riordinò, ampliò la magistratura; ordinò le opere pie, le finanze dello
Stato, che furono le piú fiorenti d'Europa; e con cura speciale l'esercito;
protesse le lettere, le arti, le scienze, le societá d'agricoltura, le
accademie, le universitá, i congressi. Tutto ciò indubitabilmente; tutto ciò, a
parer mio, troppo lentamente, insufficientemente, come se avesse a durar sempre
il regno assoluto o s'avessero secoli a far passi alla libertá. E quindi,
quando venne questa, ed insieme l'occasione dell'indipendenza, il suo Stato ed
egli stesso si trovarono apparecchiati all'una ed all'altra poco piú che se non
si fosse fatto nulla; e tutte le riforme fatte da lui ebbero od han bisogno
d'essere riformate; tutte le opere fatte con previsione, mancanti nella mira
principale, non poterono durare. Insomma, il Piemonte non fu portato a segno
d'entrare cosí bene come avrebbe potuto nell'occasione, non o mal preveduta,
del 1848. Ma il Piemonte, ultimo degli Stati italiani dal 1814 al 1833, fu da
quell'epoca all'incirca portato da Carlo Alberto a segno d'entrar prima, piú e
meglio degli altri Stati italiani, quando scoppiò, quantunque mal preveduta,
quell'occasione.
Negli altri Stati non si
progredí parimente per due ragioni; la prima, che, qualunque sia la grandezza
che la storia futura compiutamente informata e scritta sará per concedere a
Carlo Alberto, non è dubbio gli altri principi assoluti contemporanei suoi
furono di gran lunga inferiori; e perché poi alcuni di questi altri Stati, meno
male restaurati nel 1814, erano fin d'allora a quel punto di bontá a cui Carlo
Alberto voleva portare e portò il Piemonte, a quel punto che è compatibile col
principato assoluto. Napoli e Parma avevano conservati i codici e
l'amministrazione di Napoleone con poche novazioni; avevano ordine sufficiente
nelle finanze; e Napoli aveva di piú un esercito ed una marineria militare
quasi fiorenti. La polizia v'era dura, intrigante, preoccupata di sètte e
controsette; ma quando le prime non iscoppiavano, essa pure rimettendo de' suoi
rigori, ne pareva tollerabile. Della Toscana giá dicemmo che fin dalla seconda
metá del secolo decimottavo essa era stata portata a vera perfezione di
principato assoluto, e fu restaurata in essa fin dal 1814; e mantenutavi poi da
due principi miti, ella sarebbe rimasto lo Stato piú avanzato, il meglio
governato, in tutto, che fosse in Italia, se non fosse di quella negligenza ed
anzi di quella repugnanza ad avere un esercito, di che son forse ad accusare
meno i principi che i popoli, e forse i liberali, gli stessi, i migliori uomini
di quell'imbelle od avara regione. - Quanto a Roma e Modena, mal restaurate nel
1814, elle rimasero peggio governate d'anno in anno in tutto questo tempo;
cattiva polizia e persecuzioni furono comuni ai due Stati; speciali al
pontificio i disordini di finanze, armi straniere, governo ecclesiastico nelle
cose piú laicali, ed in che il sacerdozio perde piú di sua dignitá. -
Finalmente, il regno lombardo-veneto, anch'esso (cioè il suo nòcciolo di
Lombardia) non mal governato come parte d'imperio assoluto nel secolo scorso,
non mal restaurato né mantenuto come tale, avrebbe potuto vincere al paragone
di Toscana e Piemonte, se in teoria né in pratica fosse possibile far paragone
tra qualunque governo anche pessimo nazionale, e qualunque anche ottimo
straniero. Se io scrivessi per istranieri che hanno da secoli il sommo bene
dell'indipendenza, e non conoscono per prova il sommo male della dipendenza, io
accennerei almeno ad alcuni particolari che dimostrano la realitá di questo
sommo male, le differenze di schiatta, di lingua, di costumi, di sentimenti,
d'interessi; la lontananza del centro governativo, la lentezza d'ogni
decisione, i cinquanta o sessanta milioni tolti annualmente al paese, l'ozio
naturalmente invadente, i vizi conseguenti, l'avvilimento universale
inevitabile. Ma scrivendo ad italiani, che han provato e provano quel sommo
male per sé, o nei compatrioti e vicini, ogni cenno che io ne dessi qui,
sarebbe inferiore al vero che ne hanno concepito essi. - Insomma, a chi
consideri ora tutta questa condizione comparata de' diversi Stati d'Italia, è
chiaro che se mai doveva venire qualche miglioramento vero, qualche impulso
grande al progresso italiano, ei doveva venire dal Piemonte: gli altri Stati
erano, anche in ciò che avean di meglio, stazionari; il Piemonte, anche in ciò
che aveva di peggio, progrediva, aveva giá il moto ascendente; e il moto
ulteriore non si poteva sperare se non dal moto. E cosí credevano, speravano
allora gli italiani; tutti gli occhi eran rivolti al Piemonte, a Carlo Alberto.
E le speranze comuni non furono ingannate.
Niuno di coloro che
scriveranno la storia distesa, o qualsiasi compendio di questo periodo, non potranno
dividere, come facemmo noi fin qui, la storia politica dalla letteraria. L'una
e l'altra ebbero sí sempre molte relazioni pur troppo; ma in questi ultimi anni
elle n'hanno tante, che ne rimangono continuamente frammiste. - Ne' primi anni
dopo le restaurazioni, sopravivevano (tranne Alfieri, Parini e Cesarotti) gli
uomini principali delle rivoluzioni repubblicane e dell'imperio, Foscolo,
Botta, Monti, Denina, Lagrangia, Volta, Canova. Ma lasciando qui le scienze e
l'arti, che continuarono con isplendore, ma senza grandezze comparabili a
quelle; e delle lettere stesse contentandoci a dir ciò che piú si connette
colla politica, noteremo che niuno dei nominati non produsse piú nulla di gran
conto, tranne il solo Botta. Il quale, all'incontro, rimasto in Francia, vi
compose e pubblicò le due storie d'Italia dal 1530 al 1789, e dal 1789 al 1814,
le quali sono forse non solamente le due opere sue migliori, ma i due piú
lunghi e piú belli corpi di storia patria che sieno stati scritti da niun
italiano. Scritti, a malgrado i difetti, in istile ammirabilmente chiaro,
largo, vivo, caldo e naturale, si leggono come una novella da chicchessia dotto
od indotto, che è il sommo dell'arte storica. Difettano sí di scienza storica,
e piú di scienza politica, a tal segno, che non solamente il vecchio liberale,
anzi repubblicano, vi comparisce scrittore scettico, indifferente alle diverse
forme di governo, e non persuaso se non della malvagitá degli uomini e dei
tempi in generale; ma che nell'ultime pagine da lui scritte in conchiusione
della storia dal 1530 al 1789, egli ci lascia quasi un progetto di governo a
modo suo, che non rimane né monarchico né repubblicano, ed anche meno
rappresentativo, ch'ei descrisse ma non intese né ammise. E quindi l'opere sue
contribuirono a mantenere sí, e diffondere, ma non a determinare le opinioni
liberali, anzi le indeterminarono e dispersero peggio che mai. Una
pubblicazione mensile pubblicata per poco tempo in Milano, proibita poscia
dalla polizia, ebbe, s'io non m'inganno, il medesimo vizio, il medesimo
effetto. Vennero poi due scrittori, de' quali non credo sia stato mai dacché si
scrive niuno piú amabile, piú simpatico ad ogni cuor gentile, perché niuno
scrisse con piú soavi tinte di gentilezza che questi due, Manzoni e Pellico, ammirabili
e parchi poeti amendue, e scrittori di prosa tanto piú ammirabili, quanto piú
seppero scrivere italianamente con semplicitá. Manzoni, milanese, s'illustrò
con cinque canzoni, che riuscirono nuove e forse superiori a tutto, dopo il
canzoniero accumulato nei sei secoli della poesia italiana; seguí con alcune
tragedie storiche, o come si diceva allora, romantiche, e con alcune note ad
esse ed alle storie del Sismondi; giunse al suo colmo in quel racconto de' Promessi
sposi, che fu, che diede il genere del romanzo alle lettere nostre, e lo
portò d'un tratto a segno, da superar forse in fatto d'arte, e certamente in
utile morale, quanti furono scritti mai in qualunque lingua antica e moderna.
Pellico, piemontese, era giá amato per la Francesca, ed altre tragedie,
quando, implicato nello scoppio del 1821, fu tratto allo Spielberg, vi rimase
intorno a dieci anni, n'uscí poi per grazia implorata dall'Italia, dall'Europa
intiera, e pubblicò nel 1833 quel rendiconto delle sue prigioni, de' suoi
patimenti, che diffuse in Italia, in Europa, nel globo intiero, i particolari
della tirannia austriaca, tanto piú scandalosi, quanto piú semplicemente e
pazientemente descritti. Ambi questi scrittori furono accusati di rassegnazione
politica; ma il fatto sta che questa era religiosa, e non entrando in quelle
distinzioni tra l'una e l'altra, che sono difficili a farsi in pratica e piú
difficili in teoria, lasciavan pure a ciascuno la libertá delle applicazioni; e
che anzi il sentimento profondamente religioso insieme e liberale, che
presedeva tutte le opere di Manzoni e di Pellico, serví anzi molto meglio che
niune delle contemporanee a determinare anche politicamente il liberalismo
italiano; serví anzi, riuscí a tôrlo dalle vie empie e perciò stolte ed
incivili del filosofismo del secolo decimottavo, fece cattolici molti liberali,
e liberali molti cattolici, accrebbe cosí e rinforzò la parte liberale, preparò
la pace tra essa e la Chiesa, tra governati e governanti. Non dirò de'
contemporanei che continuarono l'opera di questi due grandi; vengo subito a chi
l'accrebbe e determinò anche piú.
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