42.
Continua. La rivoluzione delle
riforme [1843-1848].
- Dalla metá del 1843 corsero all'Italia quattro anni e mezzo di operositá
oramai disusata, e che fu primamente non piú che letteraria, ma a poco a poco
pur di pratica e di riforme politiche, rapidamente crescenti fino a quello
scoppio del 1848, il quale, comunque sia per essere giudicato, fu
incomparabilmente dappiú che non tutti i precedenti da trentaquattro anni, od
anzi da parecchi secoli, il quale fu certamente principio o d'un nuovo periodo,
o forse d'una nuova etá nella storia italiana. Parecchie delle rivoluzioni
continentali moderne iniziarono dalle lettere, quella di Francia del 1789,
quelle della Germania principalmente; ma nessuna forse cosí evidentemente come
questa italiana. Ma se vogliamo essere compiutamente sinceri ed imparziali ne'
nostri giudizi, noi dobbiam dire che tra gli scrittori e gli operatori di
politica suol essere sempre un continuo intercorso, ma di fatti crescenti a
vicenda; ondeché poi chi cerca sinceramente gli uomini iniziatori delle
rivoluzioni, ne suol trovare due serie diverse, una di scrittori, ed una di
operatori. Nel caso presente poi, le due serie sono rappresentate principalissimamente
da due uomini, Carlo Alberto, di che giá dicemmo, e Vincenzo Gioberti. -
Torinese questi, sacerdote, filosofo, teologo, di grande altezza, scrittore
fecondo e magniloquente oltre ogni esempio italiano, fu illustre tra' compagni
ed in sua cittá fin dai banchi universatari, fu implicato nelle persecuzioni
che seguirono la congiura del 1833; esigliato, incominciò a scrivere opere
miste di filosofia e politica, e tendenti ad accrescere anziché guarire la
divisione tra governanti e governati, tra principi e popoli italiani. Ma tra
per candore e grandezza nativa, o per sinceritá o gravitá di studi, che gli
fecero scorgere insieme e la nuova moderazione di Carlo Alberto, e l'util
diretto che ne veniva all'Italia, e quello maggiore che ne verrebbe quando tal
moderazione di principato si contraccambiasse ed accrescesse colla moderazione
de' popoli, il fatto sta che nel 1843 egli pubblicò quel libro del Primato
civile e morale degli italiani, nel quale, esule generoso, egli si rivolse
a lodare, a spiegare, a promuovere quella reciproca moderazione, e farne nuovo
sistema di politica italiana. Gli si rivolsero contro naturalmente i piú degli
esuli e perseguitati, incapaci di accedere a questa bella iniziativa di
perdono, il volgo de' liberali, le sètte principalmente invecchiate nel loro
metodo di congiure e sollevamenti. Carlo Alberto all'incontro protesse il
libro, lo lasciò correre ne' suoi Stati, onde si diffuse in tutta Italia.
Seguirono altri libri, altri scrittori che io mi proverei forse ad apprezzare
con imparzialitá, entrando in particolari, ma che non mi sento in poche e
proporzionate parole; alcuni libri di Durando, d'Azeglio, di Galeotti, e di
nuovo di Gioberti e di me; oltre alcuni scritti minori di Capponi e di altri
nell'Ausonio pubblicato dalla Belgioioso in Parigi. Osserverò solamente
che i primi in tempo e piú fecondi di questi furono quattro piemontesi, due
esuli e due tollerati in patria da Carlo Alberto, ondeché si volse a questo piú
che mai ogni attenzione, ogni speranza. Le sètte erano soverchiate, respinte
nell'oscuritá, fuor del moto e de' modi presenti. Provarono due imprese: a
Rimini ed in Calabria; fallirono, furono seguite quella di persecuzioni ed
esigli, questa di supplizi, al solito. Gioberti ed Azeglio tuonarono contro ai persecutori,
compatirono ma ammonirono i perseguiti. Tutto ciò fino al principio del 1846,
quando d'una contesa di dogane prese occasione Carlo Alberto d'entrare in
pratica di que' principi d'indipendenza, che lasciava oramai predicare
apertamente. Austria domandava cessasse certo passaggio di sali per Piemonte a
Svizzera. Non ottenuto l'intento, raddoppiò, a rappresaglia, il dazio de' vini
piemontesi in Lombardia. Carlo Alberto lasciò dapprima discutere liberamente
nella Gazzetta ufficiale; poi fecevi uscire una dichiarazione
governativa anche piú libera. Erano grandi novitá. Se ne commosse a festa il
popolo di Torino, e fu la prima di troppe simili dimostrazioni fatte poi. - Ma
come succede quando cresce un'opinione buona ed universale in una nazione, sorse
fra pochi mesi una nuova e molto maggiore occasione, la morte di Gregorio XVI,
l'elezione del successore. Grande l'aspettazione, divise le parti, e brevissimo
tuttavia il conclave, fu eletto addí 6 giugno il cardinale Mastai, Pio IX.
Dubitavasi di che parte fosse; egli lo chiarí in breve: addí 16 luglio pubblicò
la piú bella, la piú larga, ed anzi la sola che meritasse il nome di «amnistia»
fra le tante fatte in questo secolo, fecondo d'ogni cosa buona, cattiva e
dubbia.
Da quel giorno la
rivoluzione italiana, che era stata fino allora piú nelle lettere che nelle
opere, uscí dalla teoria, entrò in pratica, entrò in quel secondo periodo che
fu detto bene «delle riforme», e che fu pure di un'unione, un'unanimitá, un
intendersi quasi tra Stato e Stato d'Italia, tra divisioni e suddivisioni della
parte liberale, non escluse (almeno in apparenza) le stesse sètte, e di tutti
quanti poi col compatito popolo di Lombardia e Venezia, solo in disaccordo col
principe suo straniero; un periodo poi di speranze esaltate, di lodi e
adulazioni reciproche, di feste avvicendate colle riforme, e cosí continue. E
tutte le rivoluzioni incominciano cosí, per vero dire; e son famose, tra
l'altre, le epoche di letizia e speranze del 1640 in Inghilterra, e del 1789 in Francia. Ma niuna arrivò al paro di questa italiana, che durò
diciotto mesi di matta letizia. Del resto, fu naturale; i miseri italiani non
erano avvezzi piú oramai che a due serie d'idee e di fatti: congiure,
repressioni, supplizi, esigli, e di nuovo congiure di tempo in tempo, teatri,
canti, amoreggiamenti, feste ne' tempi ordinari. E cessando i supplizi e lor
paure, si precipitarono nelle feste. Accrebberle molti liberali per arte;
volevano impegnar i principi, di che pur dubitavano; ed i settari ed altri
repubblicani, che prevedevano non aver a rimaner contentati dalle riforme
spontanee, apparecchiavano coi moti festosi quelli ostili della piazza. E
questo, per certo, fu gran danno venuto da tale stoltezza delle feste, ma non
il maggiore. Il quale fu, che questi miseri popoli italiani, disavvezzi, dico,
da ogni civile opera politica o militare, se ne disavvezzarono sempre piú tra
l'opera puerile delle feste, vi si contentarono, vi si sfogarono; non
concentrarono, non risparmiarono, non serbarono all'occasione vera, seria,
grave, fatale, tutti que' pensieri, quelle passioni che non si concitano se non
dopo frenate, che son necessarie a concitarsi fino all'ultima loro potenza, per
produrre effetti buoni e durevoli. E gli italiani, sciupati, stemprati dalle
feste, non ne seppero piú produr di tali; niuno grande, dico, pochi durevoli,
molti piccoli: diversi dispersi, inutili o nocivi. Ad ogni modo, fu un vero
baccanale di dimostrazioni festive nelle piazze, di festive passeggiate per le
vie, banchetti in sale, banchetti all'aria, canto di giorno e di notte,
dappertutto, cantate per li teatri, coccarde, nastri, bandiere, catene di
pezzuole e veli femminili che si chiamavano d'«unione nazionale», o che so io;
poesie, prose, vaneggiamenti, pazzie. - E ad ogni modo questo fu il séguito, la
serie de' fatti, la quale domando licenza di por qui cronologicamente, non
soltanto per abbreviare a' leggitori ed a me un'angosciosa fatica, ma perché
parmi che riesca cosí piú chiaro, e quasi parlante da sé, il cenno di questi
diciotto mesi, operosi se si riguardi indietro, sprecati in gran parte se si
guardi innanzi, o, per parlar piú esattamente, produttori di libertá e di
licenza; improduttivi di quell'indipendenza, che è anche piú da desiderarsi,
dell'indipendenza che avrebbe dovuto esser la prima e la sola mira degli
italiani. All'8 agosto, fu fatto segretario di Stato il cardinal Gizzi,
popolare allora. S'incominciò con riforme piccole; accademie, scuole e simili,
e commissioni per preparar le piú grandi. All'8 settembre, nuova e gran festa
popolare a Pio IX, seguita da altre piccole, ogni volta che usciva egli a
visitare una chiesa, un ospedale o una villa. Intorno a' medesimi giorni,
congresso dei scienziati a Genova: era il sesto di que' convegni annui, vera
celia quanto a scienza, veri preparativi quanto a politica, e che perciò erano
stati ottenuti a stento sotto ai governi assoluti. Questo fu libero oltre al
solito, e naturalmente fu occasione di feste. La piú strana delle quali fu poi,
senza paragone, quella pur fatta in Genova addí 5 dicembre, per il centenario
del medesimo giorno dell'anno 1746, quando i genovesi cacciarono di lor cittá
austriaci e piemontesi, allora male uniti. Se servisse tal festa ad unire o
disunire que' due popoli italiani, forse poteva giudicarsi fin d'allora, certo
fu poi giudicato dai fatti. Ai 14 gennaio del 1847, il papa fu complimentato di
tutti questi iniziamenti del suo pontificato, conformi alla civiltá universale
cristiana e fino extracristiana, da un ambasciatore straordinario del sultano;
il quale era stato qui preceduto da un figlio del re di Francia, e fu seguito
in breve dal principe Massimiliano di Baviera, e Maria Cristina regina di
Spagna, ed un ambasciatore del Chili, e congratulazioni degli Stati Uniti
d'America. E dall'Irlanda si partí per Roma O'Connell; ma morí per via, e fu
occasione di altre feste e discorsi funebri. E continuando intanto altre
riforme piccole in Roma, seguí a' 12 marzo la prima grande, e tanto grande che
in meno di un anno riuscí compiuta la rivoluzione rappresentativa in Italia,
dico la riforma della stampa. Non che le fosse conceduta la piena libertá; ma
tra ciò che ne le fu conceduto e ciò ch'essa se ne prese a poco a poco in
aggiunta, il fatto sta che bastò a quel gran risultato. Ma allora parve troppo
poco, ed incominciarono le feste a diventar tumulti. Sorsero e moltiplicaronsi
giornali in Roma e negli Stati, come poi, quando vi furono concedute le
medesime libertá, in Toscana e negli Stati sardi. E come succede sempre negli
Stati liberi, dove la popolaritá è come il favore nelle corti assolute, ma come
succede tanto piú negli Stati che sono in rivoluzione di liberarsi, perché la
popolaritá vi è allora come il favore nelle corti tiranniche; chiunque
corteggiava popolaritá, si pose fatalmente a spingere innanzi la rivoluzione, e
pochi vollero od osarono tenerla ne' limiti della prudenza e della moderazione,
pochissimi professaron apertamente queste due ingrate virtú; e di questi,
pochissimi perseverarono poi nell'impopolarissima professione. - Ai 14 aprile,
seguí una riforma che parve allora e fu festeggiata come maggiore, e fu nulla;
un sistema di governo che parve forse ad alcuni poter tener luogo per sempre
del rappresentativo, che sarebbe certo stato bene ne tenesse luogo finché fosse
finita la conquista dell'indipendenza, ma che, ad ogni modo, nol tenne nemmeno
fino al principio di essa, nemmeno un anno. Questo sistema era il consultativo;
cioè una Consulta (cosí si chiamò allora in Roma), o di un Consiglio di Stato,
od anche di parecchi corpi di diversi nomi, i quali in qualsiasi forma
consigliassero il principe nella elaborazione e pubblicazione delle leggi,
senza avervi tuttavia niun voto impeditivo o realmente deliberativo. E questo
sistema non era nuovo, anzi vecchio ed invecchiato sul continente, dov'era
stato provato fin dal secolo decimosesto quasi dappertutto. In Italia era stato
riprovato in Napoli e Torino, ma in ombra; ondeché non avea mutato il governo
assoluto. Ma provato ora piú realmente in Roma (e poi in Firenze e Torino), e
coll'opinione ferma in desiderare governi deliberativi e rappresentativi, ed
insieme coll'altra novitá della stampa di fatto libera, egli produsse
prontissimamente ciò che doveva produrre in tali condizioni, ciò ch'ei produrrá
sempre piú o men prontamente, ma inevitabilmente oramai, il desiderato governo
rappresentativo. Perciocché insomma, questi governi consultativi, è una forma
ibrida che poté durare due secoli nella civiltá de' secoli decimosettimo e
decimottavo, e senza la libertá né la diffusione della stampa; ma che con
queste, e nel nostro secolo decimonono, non avrá forse mai piú tant'anni di
vita, quant'ebbe secoli; che non uscirá mai piú di questo dilemma di fatti: o
rivoluzione retrograda al governo assoluto, o rivoluzione progrediente al
rappresentativo; e cosí sempre rivoluzioni. Ai 14 giugno, riforma minore ma piú
durevole, come quella che è logica, e s'adatta ad ogni forma di governo; un
primo ordinamento razionale del ministero per ordine di materie. Ai 16 giugno,
anniversario dell'elezione dell'adorato Pio IX; e, naturalmente, festa
maggiore. Ai 17, anniversario dell'incoronazione, e seconda festa. Parve troppo
finalmente; e con bando del 22, Gizzi sgridò il popolo dolcissimamente; e il
popolo se n'offese e gridò a Gizzi, quasi uno de' retrogradi gregoriani,
oscurantisti, sanfedisti, gesuiti, austro-gesuiti; nomi che incominciarono a
prodigarsi da chiunque voleva andare innanzi a chiunque andava un passo meno
che lui. - E sí che Gizzi e il papa andavano pure non poco, forse troppo. Al 5
luglio, istituzione della guardia civica, istituzione anche questa ottima, anzi
indispensabile negli Stati rappresentativi, stolta in quelli che volevano
rimanere consultativi. - Al 7, rinunzia di Gizzi; al 10, nomina di Ferretti.
Addí 16, anniversario dell'amnistia, doveva esser gran festa; fu invece gran
tumulto addí 14 e 15, ché sparsasi, naturalmente come succede in tali
concitazioni, o ad arte come succede de' concitatori, o l'uno e l'altro
insieme, la voce d'una gran congiura retrograda, sanfedista e via via, si
affiggono a' muri i nomi de' supposti congiurati, poi si cercano, si entra in
lor case, s'arrestano, si serrano in Castel Sant'Angelo, si dá lor caccia per
le campagne, e fino oltre i confini, e se n'istituisce, annuente il governo, un
gran processo che non riuscí a nulla mai. Intanto, tumulti qua e lá nelle
province. - E intanto (che diede ombra di veritá ai sospetti popolari), addí
17, escono gli austriaci dalla cittadella di Ferrara che occupavano dal 1814,
s'acquartierano in cittá. Proteste quindi del cardinal Ciacchi governatore addí
6 agosto, e Ferretti a dí 12. Ma addí 13 gli austriaci occupano i posti
militari della cittá; riprotestano Ciacchi e Ferretti, risponde il gabinetto di
Vienna. Ne seguirono poi negoziati ufficiosi ed ufficiali a Roma, a Vienna ed a
Milano, e finirono in dicembre colla restituzione della cittá alle truppe
pontificie, con poche e piccole concessioni alle pretese dell'Austria, con
grande scapito di sua dignitá e tranquillitá in Italia; essendosene accesi
intanto contro lei, e non domati, gli animi di tutti gl'italiani, popoli e
principi, Pio IX con gli altri, e Carlo Alberto piú di nessuno. Fu minaccia
senza effetto, o, ciò che equivale, fatto piccolo con grande scandalo;
grand'errore. - E ne fu agevolato un affare che sarebbe stato grave, se avesse potuto
durare, l'effettuazione di quella lega doganale tra gli Stati indipendenti
d'Italia, la quale era stata giá piú desiderata che sperata dagli scrittori
precedenti le riforme. Mandato monsignor Corboli Bussi da Roma a Firenze,
Torino e Modena, se ne stipularono le basi tra le tre prime corti, addí 3
novembre in Torino; e non accedendo Modena austriaca, dichiarò pure non far
ostacolo per il suo territorio di Massa, frapposto fra Piemonte e Toscana.
Intanto, al 2 ottobre, ordinamento del municipio romano in forma piú liberale,
e feste piú che mai in quel giorno, ed alla dimane e cinque dí appresso; e poi
al ritorno del papa da sua villa di Castel Gandolfo, e per il viaggio a Porto
d'Anzo e per il ritorno, e per una sua visita alla chiesa di San Carlo, e per
un nuovo motuproprio sulla Consulta, e per l'installazione di lei addí 15
novembre, e per quella del municipio addí 24, e per la vittoria degli svizzeri
contro il Sonderbund, addí 30. Né quest'ultima fu tutta festa:
insultaronsi i gesuiti, e fu il primo di que' tumulti che fecersi poi in tutta
Italia contro a quella Compagnia, e furono seguiti dalla cacciata di lei pochi
mesi appresso, quando appunto sarebbesi dovuto attendere a cacciare gli
austriaci, e non a dividere italiani da italiani, preti o non preti, gesuiti o
non gesuiti, scandalezzando, incominciando ad alienare Pio IX. - E finí l'anno
in Roma [30 dicembre] con un nuovo e miglior ordinamento dell'ordine delle
materie nel ministero. Ed io non so ciò che ne parrá ad altri; so bene che
l'avere qui concentrate quelle numerose riforme, que' grandi passi fatti in
diciotto mesi, dal governo assoluto qual era stato lasciato da Gregorio XVI, a
questo governo cosí largo di Pio IX, mi fa, non che ingiuste, parere
ingiustissime le lagnanze allora di tanti, e duranti in alcuni ancor oggi, che
egli andasse troppo lento in esse. E tanto piú, che molto piú lenti andavano
gli altri principi italiani.
In Toscana, la
rivoluzione delle riforme non si può dire incominciata se non un dieci in
undici mesi dopo che a Roma, quando, addí 8 maggio, uscí una legge che rallentò
le censure della stampa. Seguirono feste in Firenze e tutto lo Stato, insulti
al console austriaco in Livorno; e poi giornali numerosi, liberi oltre la
legge, liberissimi, ed alcuni licenziosi. Poi, commissioni a preparare altre
riforme; e il governo consultativo che giá esisteva lá in ombra, riordinato,
praticato; poi, ai 4 settembre, istituzione della guardia civica; e nuove
feste, in cui apparí per la prima volta, fra altre innumerevoli, la bandiera tricolore.
Intanto, feste e tumulti in Lucca; paura dei due duchi padre e figlio; e addí
1° settembre, concessione di tutto ciò che era stato conceduto in Toscana; poi
fuga dei duchi, e cessione al granduca dell'usufrutto che tenevano finché
morisse Maria Luisa, e lasciasse loro Parma. E cosí Lucca fu riunita a Toscana.
In Piemonte poi
s'incominciò anche piú tardi; e fu fatale che quel paese e quel re, i quali
avean date le prime mosse alle riforme, e dovevano poi prendere la prima e
massima, e quasi sola parte all'impresa d'indipendenza, entrassero cosí ultimi
in tutto ciò che ne era apparecchio. Ma il fatto sta che Carlo Alberto,
vivissimo all'indipendenza, era lentissimo alla libertá, né, io credo forse e
potrei dire so, per odio o vil paura ad essa, ma per nobilissima paura che
questa nocesse a quell'acquisto d'indipendenza che era insomma il primo, il
grande, il supremo de' suoi pensieri. E certo, che questo spiega e le antiche e
le intermediarie e le ultime azioni di lui, e le sue virtú e i suoi errori, le
sue lentezze, le sue titubanze, le sue ostinazioni. Ad ogni modo, dal principio
del 1846 al settembre del 1847, non s'era fatto un passo, non una riforma in
Piemonte. Né una festa o un tumulto, che fu gran vantaggio a tener nuovi gli
animi all'opere reali. Né a settembre stesso ed ottobre fu altro che una
lettera confidenziale, ma confidenzialmente fatta pubblica, dove Carlo Alberto
diceva che «se la provvidenza mandava la guerra d'indipendenza, co' suoi figli
a cavallo se ne farebbe capo». Il mondo sa come essi adempissero la parola. Ma
allora non fece grand'effetto. L'opinione era alle riforme, di che il re non
faceva né diceva nulla. Sorsero, si rinnovarono frequenti tumulti, i piú
pacifici e rispettosi siensi veduti mai. Finalmente, addí 29 ottobre, fu
pubblicata una notificazione in che si promettevano tutte insieme le riforme
che dovevano portare e portarono il Piemonte al paro dei due altri Stati
riformati, Roma e Toscana; governo consultativo, cioè Consiglio di Stato,
riordinato, corroborato di membri provinciali, nuove attribuzioni ad esso ed a'
Consigli provinciali e comunali; larghezza alla stampa che in breve ne diventò
qui pure liberissima, cercatrice di popolaritá licenziosa; e guardia civica
(?). E allora pur qui i tumulti piccoli diventarono feste grandi, ma cosí
ordinate, che fu una meraviglia ed un'eccezione. E tutte queste promesse
vennero effettuandosi poi con sinceritá e prontezza. Il re s'era deciso oramai;
non die' indietro, non titubò mai piú d'allora in poi. Ma fu certo gran danno che
si fosse incominciato cosí tardi, che le riforme non avessero tempo ad
effettuarsi, a preparare il paese, quando si venne ai due scoppi della libertá
rappresentativa e dell'indipendenza. E fu danno maggiore, che entrando appunto
nelle vie della libertá, egli si rallentasse nel pensiero dell'indipendenza a
tal segno, che, anche dopo le minacce testé pronunciate, non facesse un
apparecchio di guerra, non una riunione, non un collocamento militare di
truppe, nulla, salvo la chiamata d'uno dei quattordici contingenti che erano a
lor case. Miseria umana! negli uomini come nelle nazioni, una preoccupazione
caccia l'altra. Napoleone stesso diceva non potersi fare che una cosa alla
volta.
Nei due ducati di Parma
e Modena, niuna riforma, pochi tumulti, sufficienti passioni. E cosí in Napoli
e Sicilia: salvoché i tumulti scoppiarono in Reggio di Calabria e Messina
[settembre]; ma furono repressi. Ferdinando Borbone si vantava di non aver
bisogno di dar riforme; esser date da gran tempo lá: ed era vero, in ombra. Non
gli venne in pensiero che si domandava e rimaneva a darsi la realitá. E cosí
vantava il governo austriaco in Lombardia e Venezia; ed era vero poi, non
solamente in ombra, ma in parecchie realitá. Se non che, costá il gran
desiderato era di ben altro che riforme, e l'Austria nol poteva effettuare.
Festeggiossi, tumultuossi in Milano per l'instaurazione d'un nuovo arcivescovo
[settembre], e festeggiossi e parlossi in Venezia in occasione del congresso
scientifico. Ma il governo, la polizia d'Austria reprimevano ben altrimenti che
quelle de' principi italiani. La repressione piú efficace fece poi, al solito,
tanto piú efficace lo scoppio.
Questa era la condizione
d'Italia, questo il progresso della rivoluzione riformativa al principio del
fatale anno 1848. E in men di tre mesi era compiuta la rivoluzione, era
incominciata l'impresa d'indipendenza. Al 1° gennaio gran festa in Roma, non
per altra occasione che del capo d'anno. Se ne spaventa la corte, apparecchia
armi. Il popolo se n'offende, e la corte cede, scioglie gli armati; e il papa
esce il dí appresso per le vie, e il popolo trionfante, Ciceruacchio capo
solito di esso, acclama, inghirlanda, imbandiera la vittima sua. - Addí 2 e 3
moti in Milano... e feste funebri in tutta Italia. Addí 12 poi, moti anche piú
gravi in Sicilia, e poi Napoli. Dove essendosi tumultuato e represso, e l'uno e
l'altro invano, da parecchie settimane, finalmente i siciliani appuntarono
pubblicamente quel giorno per sollevarsi davvero, se non fosse fatto nulla dal
governo. E non essendosi fatto, si sollevarono cosí in Palermo. Resistettero le
truppe regie, e vinte due volte si ritrassero, e fu fatto lá un governo
provvisorio, a che aderí Sicilia tutta. E addí 16, domato il re finalmente,
fece a un tratto e inutilmente tutto ciò che non aveva voluto fare a tempo ed
agio; concedette libertá di stampa, governo consultativo, amministrazione
separata per la Sicilia. Non serví piú; il popolo tumultuava peggio che mai
addí 17. Cede il re, muta il ministero, chiama a capo di esso Serracapriola, promette
costituzione. Addí 29 ne pubblica le basi, addí 10 febbraio ne pubblica il
testo. Fu egli ridotto a tal passo ulteriore che finí la lenta (finché non
fosse fatta l'impresa d'indipendenza) pendente rivoluzione riformativa, ed
iniziò la rappresentativa, da quella necessitá appunto e sempre dall'imprudenza
di coloro che non seppero essere prudentemente operosi? ovvero da qualche
gelosia, dalla vanitá personale di far piú a un tratto, che non gli altri
principi italiani fin allora; di essere conseguente a se stesso, che s'era
vantato di non aver a far riforme giá fatte nel suo regno? Sono questioni
intenzionali che non si potrebbero sciogliere, se non in una storia fatta da
Dio. Ad ogni modo, in quell'anno, in quei giorni, in quelle condizioni d'Italia,
che qualunque favilla anche minore scoppiata in un luogo serpeva quasi lampo in
ogni altro; non era possibile oramai che questa gran parola, questo immenso e
desiderato fatto d'una costituzione rappresentativa, compiuto e proclamato in
uno degli Stati italiani, rimanesse esclusivo in quello, non facesse sorgere
fatti simili in tutti gli altri. I particolari delle feste e tumulti che giá
non si potevan distinguere, delle domande legali od illegali, opportune od
inopportune, coraggiose o cedenti, e delle cedenti resistenze, sarebbero troppo
lunghi per questo cenno, e cadrebbero in que' giudizi che non voglio qui
promuovere. Ondeché mi accontenterò di dire, che la costituzione
rappresentativa fu pubblicata in massima addí 8 febbraio, sancita in statuto
addí 4 marzo; la costituzione toscana promessa addí 7 febbraio, e data in
statuto addí 17 marzo, e la costituzione romana promessa addí 14 febbraio, e
data in statuto addí 14 marzo. Cosí, quattro Stati, cioè tutti gli Stati grandi
indipendenti d'Italia, cioè diciassette dei ventitré milioni, due terzi degli
italiani, entrarono nella gran rivoluzione rappresentativa europea, ebbero
rappresentativi statuti. E se n'applaudirono a vicenda principi e popoli,
quando in quegli ultimi giorni di febbraio scoppiò la rivoluzione repubblicana
di Francia. E se n'applaudivano principalmente i liberali piú moderati ed amici
della monarchia. La concessione degli statuti, dicevano, n'avea salvi dalla
repubblica. Pochi sapevano ricordare che giá due volte, alla fine del secolo
decimoquinto e decimottavo, Francia ci aveva interrotto l'assestamento, il
progresso riformativo d'Italia; sapevano temere che la nuova libertá italiana e
la nuova repubblica in Francia, fossero due ostacoli invincibili alla guerra
d'indipendenza che tutti vedevano imminente.
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