NOTA
I
Inculcare ai suoi
connazionali e contemporanei che, prima di preoccuparsi del problema, intorno a
cui tanto si travagliavano, dell'unitá, o dell'altro, pur cosí variamente
discusso, della forma di governo, dovessero provvedere a risolver quello, ben
altrimente importante, dell'indipendenza, lasciando da banda le effusioni
rettoriche, le logomachie accademiche, le dimostrazioni di piazza e le
macchinazioni settarie, e procurando piuttosto di mantenersi concordi e di
riacquistare, fin quanto fosse possibile, quello spirito e quell'educazione
militare, che purtroppo s'eran perduti da secoli, fu lo scopo cui Cesare Balbo
tenne sempre fiso l'occhio durante la sua lunga, laboriosa e onestissima vita
letteraria. E sempre solo mezzo idoneo al conseguimento del fine nobilissimo
gli parve un libro storico, che, narrando gli avvenimenti svoltisi nella
penisola in tre millenni, mostrasse, senza sforzi di ragionamento, ma con
l'evidenza d'un imparziale racconto, che, allora soltanto l'Italia fu grande,
prospera e felice, quando, animata dallo spirito d'indipendenza, seppe tener
lontano dalle sue fertili e agognate contrade l'aborrito straniero.
Quando si abbia innanzi
a sé, fissato con nettezza che non si potrebbe maggiore, il punto donde
convenga guardare il corso degli avvenimenti, e quando a ciò si accoppii una
folla di requisiti, che assai raramente si trovano riuniti insieme: - animo
probo, tranquillo, sereno, che è naturalmente disposto a render giustizia a
tutti, anche ai propri avversari; - serio spirito scientifico, che dei fatti
non sa discorrere, se non dopo averli scrupolosamente e minutamente investigati
e accertati; - competenza profonda, per lungo esercizio professionale, nei
pubblici affari, sia meramente amministrativi, sia politici e diplomatici, sia
militari; - ingegno aristocratico, che non si appaga d'una cultura grettamente
specialista, ma vuol veder chiaro anche in altri rami dello scibile
(specialmente in filosofia e storia letteraria); - e finalmente vera fantasia
poetica, la quale, oltre che infonder la vita negli avvenimenti del passato,
sappia ritrarli in un magnifico stile «storico», serrato, conciso, aborrente
sia da fronzoli e leziosaggini, sia da sciatterie e soverchia familiaritá: - si
è davvero in condizioni eccezionalmente favorevoli per imprendere e condurre a
termine un lavoro storico. Tutto, dunque, farebbe supporre che al Balbo, dare
all'Italia quella storia, che egli vagheggiava, fosse per riuscire impresa
piana e agevole. Eppure pochi libri sono costati tanto aspra e tormentosa
fatica, quanto quest'aureo Sommario, che ora si ripubblica; scritto, è vero, in
poco piú d'un mese, ma pensato e ripensato per trent'anni: trent'anni di lotta,
trent'anni di conati, trent'anni di delusioni10.
Mille volte parve
all'autore, durante cosí lunga incubazione, d'aver trovata la sua strada; e con
gioia si poneva a tavolino, sperando di potersi liberare una buona volta da
quel peso, che tanto l'opprimeva. Illusione! la via era cosí poco trovata, che
prima
questione, che gli si
presentasse alla mente, era proprio quella che si poteva rimandare all'ultimo
luogo; la questione, cioè, del titolo da dare al proprio lavoro. Ne adottava
uno; e poi, non contento, lo mutava; e poi lo rimutava ancora una terza, una
quarta, una decima, una ventesima volta11; fintanto che, sbollito, in
codesto sterile e quasi pedantesco tormentarsi, l'entusiasmo e inaridita la
vena, gli occorreva deporre, con gesto addolorato ma rassegnato, la penna,
augurandosi di poterla riprendere in piú favorevoli circostanze.
E la riprendeva, e aveva
anche la forza d'imporre a se stesso di non occuparsi, provvisoriamente, di
quella questione preliminare, intorno a cui credeva suo debito cotanto
travagliarsi. Ma il luogo di questa veniva preso da un'altra, che, nel modo in
cui il Balbo se la proponeva e voleva risolverla, riusciva non meno oziosa e
insolubile: la questione delle parti onde doveva constare il suo lavoro, ossia
dei periodi principali e secondari, in cui bisognava dividere e suddividere la
storia d'Italia. Questione oziosa e insolubile, perché la storia, che è
continuitá, non è suscettibile di divisioni cronologiche razionali, che si
possano astrattamente fissare a priori: è invece lo stesso racconto
storico, giá configurato nella mente dell'autore, che può suggerirgli, a semplice
scopo di chiarezza espositiva e di utilitá mnemonica, di attenersi a questa o a
quella fra le tante escogitate ed escogitabili divisioni temporali (tutte piú o
meno grossolane e approssimative), cui si suol dare il nome di «periodi
storici». Ma pel Balbo, che pensava diversamente12, e pel quale la
ripartizione della materia storica costituiva qualcosa di essenzialmente
diverso dall'esposizione, la questione assurgeva a importanza capitale: a
narrare gli pareva di non poter nemmeno cominciare, se non avesse
preliminarmente classificati i fatti in periodi principali, secondari e via
dicendo; ossia se non avesse innanzi, perfetto anche nei minimi particolari,
uno schema cronologico, razionalmente e quindi astrattamente fissato, che poi
conveniva sviluppare e colorire. Accadeva, naturalmente, quel che doveva
accadere; cioè che il Balbo, dopo essersi procurata un'altra serie di tormenti
e di ambasce, durante la quale prospetti cronologici susseguivano a prospetti
cronologici, ciascuno dei quali annullava il precedente e ciascuno dei quali lo
contentava meno del precedente, finiva, sgomentato e sbigottito, per deporre
ancora una volta la penna e credere che la storia d'Italia non fosse impresa da
lui.
Ma vi ritornava poi, con
la tenace costanza, con la quale le mille volte si ritorna a una donna amata,
cui le mille volte si sia giurato un eterno addio. E, accontentatosi d'un
titolo e d'uno schema purchessia, cominciava finalmente a scrivere. Uno, due,
tre capitoli erano rapidamente svolti: poi a poco a poco la materia, di cui si
credeva cosí sicuro padrone, cominciava a sgretolarglisi nelle mani; i periodi
gli riuscivano sempre meno euritmici e in pari tempo piú faticosi e difficili;
l'esposizione generale perdeva di mano in mano vita e calore, diventando
languida, scucita, frammentaria. Purtroppo nemmeno quella volta la via era
trovata, e bisognava ricominciar daccapo a torturarsi coi titoli, i prospetti,
gli schemi e via discorrendo.
Un fenomeno, ripetuto
con tanta frequenza in un uomo che era uno storico nato, induce a riflettere e
a domandare: era proprio un bel titolo o una soddisfacente ripartizione
cronologica ciò che mancava al Balbo, o a lui faceva difetto qualcos'altro, di
cui egli non riusciva a rendersi conto, e in cui tutte le torture, che s'era
procurato apparentemente per questa e per quello, avevano la loro vera e
profonda ragione? La risposta non può esser dubbia, e a chiunque abbia un po'
di pratica dello scrivere verrá spontanea sulle labbra l'osservazione, che il
trapasso dalla mera impressione alla limpida visione artistica - quel trapasso
rapidissimo e agevole in alcuni fortunati scrittori; lentissimo, faticosissimo
e quasi patologico in altri - nel Balbo non aveva ancora avuto luogo. La storia
d'Italia, non ostante tanti studi e tanti sforzi, era ancora per lui materia
amorfa, che un lampo di genio doveva convertire in un'opera d'arte, ossia in un
libro organico. In fondo all'animo suo era ancora un cantuccio buio, che quel
lampo doveva illuminare. E tutti i conati da lui fatti non erano se non stimoli
esterni, da lui inconsciamente adoperati per far sprizzare in modo artificiale
quella divina scintilla. Ma l'arte non vuol esser conquistata né con la
violenza né con sotterfugi: vuol venire ella stessa, spontaneamente, a noi,
quando forse meno l'aspettiamo, e allora abbandonarsi tutta nelle nostre
braccia. E cosí avvenne al Balbo.
S'era alla fine del
1845, ed egli, ormai vecchio, alla storia d'Italia aveva rinunziato, contento
se altri, piú fortunato, potesse avvalersi del tesoro di ricerche e
d'esperienza da lui accumulato. Un bel giorno si reca da lui il Predari e gli
propone di scrivere l'articolo «Italia» per l'Enciclopedia popolare, che
si pubblicava presso il Pomba13. Il buon vecchio sulle prime,
spaventato, rifiutò netto: chi gli avrebbe infuso il coraggio, dopo tante
delusioni, di fare un ultimo e disperato tentativo? Tuttavia quel nome «Italia»
gli aveva rimescolato tutto l'animo: nome indifferente forse ad altre orecchie,
ma che per lui significava non soltanto la patria adorata, ma anche il meglio
della sua vita trascorsa, con le sue ansie, le sue gioie, i suoi dolori. E la
possente fantasia, che sembrava addormentata, cominciò a rievocare, con colori
ancora piú poetici, gli itali, osci e tusci, che si alleano per ricacciare di
lá dal mare l'odiato Pelasgo; i popoli latini, che si stringono intorno a Roma
per tener fronte al Gallo invasore; i comuni lombardi, che giurano fratellanza
e concordia a Pontida per respingere oltre le Alpi l'aborrito Tedesco. Strano!
quella materia, che il Balbo non era mai riuscito a plasmare, assumeva ora da
se stessa forme e contorni. I suoi occhi finalmente vedevano. Quella via, cosí
angosciosamente ricercata, brancolando nel buio, gli appariva ora piana,
sfolgorante di luce meridiana, conducente diritto alla mèta. Il primitivo
rifiuto si cangiò in un'entusiastica e quasi baldanzosa accettazione, e con
ardore giovanile egli si rimise al lavoro. Non piú esitazioni, non piú
dubbiezze, non piú pentimenti: i fatti venivano a collocarsi, senza alcuno sforzo,
al posto loro dovuto; i periodi stupendi sgorgavano, come un fluido corso
d'acqua, l'uno dopo l'altro e l'uno indissolubilmente legato con l'altro;
l'esposizione era finalmente, quale egli l'aveva tanto vagheggiata, rapida,
serrata, drammatica, piena di movimento e di vita. Quella volta, non fu una
fatica e un tormento, ma una liberazione e un trionfo. Dopo otto giorni, i
primi tre libri erano scritti; dopo quarantatré, tutta l'opera era compiuta. E
riuscí quel che il Balbo voleva: un capolavoro.
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