— Considerava tra me stessa,
valorose donne, la gran varietá di stati ne' quai oggidí i miseri mortali si
trovano; e giudicai tra le umane creature non trovarsi il piú sciagurato né 'l
piú tristo, che viver poltronescamente; perciò che i poltroni per la loro
dapocagine sono biasmati da tutti e dimostrati a dito, e piú tosto vogliono
viver in stracci e in tormenti, che dalla loro poltroneria rimuoversi: come a
venne a tre gran forfantoni, la natura de' quali nel processo del mio ragionare
a pieno intenderete.
Dicovi adunque che nel territorio di Siena (non sono ancora
passati duoi anni) si trovarono tre compagnoni giovani di etá, ma vecchi ed
eccellenti in ogni sorte di poltroneria che dir o imaginar si potesse. De' quai
l'uno, per esser piú dedito alla gola che gli altri, chiamavasi Gordino;
l'altro, perché era da poco e infenticcio, tutti lo chiamavano Fentuzzo; il
terzo, perché aveva poco senno in zucca, si nominava Sennuccio. Trovandosi
tutta tre un giorno a caso sopra un crucicchio, e ragionando insieme, disse
Fentuzzo: — Dove tenete il cammino vostro, fratelli? — A cui rispose Gordino: —
Io me ne vo a Roma. — E per far che? — disse Fentuzzo. — Per trovare — rispose
Gordino, — alcuna ventura che facesse per me, acciò che io viver potessi senza
affaticarmi. — E cosí ancor noi andemo, — dissero i duoi compagni. — E quando
il fosse di contento vostro, — disse Sennuccio, — io volontieri verrei con voi.
— I duoi compagni graziosamente l'accettarono; e dieronsi la fede di mai non
partirsi l'uno dall'altro, sino attanto che dentro di Roma giunti non fussero.
Continoando tutta tre il loro cammino, e ragionando di piú cose insieme,
Gordino abbassò gli occhi a terra; e vide una gemma in oro, che risplendeva sí
che gli abbarbagliava il viso. Ma Fentuzzo prima l'aveva dimostrata a' duoi
compagni; e Sennuccio la levò di terra, e se la pose in dito. Laonde tra loro
nacque grandissima differenzia, di chi esser devesse. Gordino diceva dover
esser sua, perché fu primo a vederla. Fentuzzo: — Anzi debbe toccare a me, —
diceva, — perché innanzi di lui ve la mostrai. — Anzi s'appartiene a me di
ragione, — diceva Sennuccio, — perché io la levai da terra e me la posi in
dito. — Dimorando adunque i sciagurati in questa contenzione, né volendo l'uno
cedere a l'altro, vennero ai fatti; e si diedero per lo capo e per lo viso sí
fatti punzoni, che quasi da ogni parte pioveva il sangue.
Avenne che in quell'ora un messer Gavardo Colonna, uomo di
gran maneggio e gentil'uomo romano, veniva da un suo podere e ritornava a Roma.
Gavardo, veduti dalla lunga i tre poltronzoni e sentito il loro romore, si
fermò, e stette alquanto sopra di sé, temendo forte che non fussero assassini e
l'uccidessero; e piú volte volse volgere la briglia al cavallo e tornar a
dietro. Ma pur fatto buon coraggio e assicuratosi, seguí il suo cammino; e
avicinatosi a loro, li salutò, e disse: — Compagnoni, che contese sono coteste
che fate tra voi? — Rispose Gordino: — Gentil'uomo mio, il nostro contrasto è
questo. Siam noi partiti dai propri alloggiamenti, e a caso si siam trovati in
strada, e insieme accompagnati; e ne andiam a Roma. Onde camminando e
ragionando insieme, io vidi in terra una bellissima gemma legata in oro, la
quale per ogni debito di ragione devrebbe esser mia, perché primo la vidi. — Ed
io, — disse Fentuzzo, — primamente la dimostrai a loro; e per averglila prima
dimostrata, mi pare che piú a me appartenga, che a loro. — Ma Sennuccio, che
non dormiva, disse: — Anzi, signor mio, la gemma, debbe aspettar a me, e non a
loro; perciò che, senza che segno fatto mi fosse, la levai da terra e me la
posi in dito. Onde non volendo l'uno cedere a l'altro, siamo messi in gran
pericolo di morte. — Intesa ch'ebbe il signor Gavardo la causa della
differenzia loro, disse: — Volete, o compagnoni, rimettere le vostre
differenzie in me, ch'io vedrò di adattarvi insieme? — A cui tutta tre a una
voce risposero che sí; e si diedero la fede di star a quello che per lo
gentil'uomo sará determinato. Il gentil'uomo, veduta la lor buona intenzione,
disse: — Poscia che voi di commun volere v'avete messi nelle mani mie, volendo
che delle differenzie vostre io sia solo diffinitore, io da voi due sol cose
richieggio: prima, che mi date la gemma nelle mani; dopo', che ciascuno da per
sé s'ingegna di far alcuna opera poltronesca: e quello che in termine di
quindeci giorni l'averá fatta piú disutile e vile, sará della gemma vero
patrone. — I compagni s'accontentarono, e dierongli la gemma nelle mani; e
andarono a Roma. Giunti che furono a Roma, si partirono; e uno andò in qua, e
l'altro in lá, procurando ciascaduno di loro fare secondo il suo potere alcuna
solenne poltroneria, che fusse d'ogni laude e di perpetua memoria degna.
Gordino trovò un patrone, e con quello s'accordò. Il qual,
essendo un giorno in piazza, comprò alquanti fighi primari che vengono alla
fine del mese di giugno; e diégli a Gordino che li custodisse fino che andasse
a casa. Gordino, che era solenne poltrone e parimente per natura molto goloso,
prese uno de' fighi, e tuttavia seguendo il padrone, ascosamente a poco a poco
lo mangiò. E perché il fico assai li piacque, il poltronzone continuò il
costume suo, e celatamente ne mangiò degli altri. Continovando adunque il
gaglioffone la sua golositá, finalmente in bocca ne prese uno che era oltra
misura grande; e temendo che 'l patrone non se n'avedesse, a guisa di scimia il
pose in un cantone della bocca, e tenevala chiusa. Il patrone, voltatosi per
aventura a dietro, vide Gordino, e parevagli molto gonfio nella sinistra
guancia; e guatatolo meglio nel viso, vide che nel vero era gonfiato molto. E
addimandatolo che cosa avesse che cosí gonfio fusse, egli come mutolo nulla
rispondeva. Il che vedendo, il patrone assai si maravigliò; e disse: — Gordino,
apri la bocca, acciò che io veda il difetto tuo per potergli meglio rimediare.
— Ma il tristo né aprir la bocca né parlar voleva. E quanto piú il patrone si
sforzava di fargli aprir la bocca, tanto maggiormente il gaglioffone stringeva
i denti e la chiudeva. Avendo il patrone fatte diverse prove per farlo aprir la
bocca, e vedendo che niuna li riusciva, acciò che non gli intravenesse alcun
male, lo menò in una barberia ivi vicina; e mostrollo al ciruico, cosí dicendo:
— Maestro, a questo mio servo ora è sopravenuto un accidente molto bestiale, e
come voi vedete, egli ha gonfiata la guancia di maniera ch'egli non parla né
può aprir la bocca. Temo che non si soffochi. — Il ciruico destramente toccò la
guancia; e disse a Gordino: — Che senti tu, fratello? — Ed egli nulla
rispondeva. — Apri la bocca! — Ed egli punto non si moveva. Il ciruico, vedendo
non poter operare cosa alcuna con parole, mise mano a certi suoi ferri, e
cominciò tentare se poteva aprirgli la bocca; ma non vi fu mai modo né via che
'l poltronzone volesse aprirla. Parve al ciruico che fusse una postema a poco a
poco crisciuta, e che ora fusse matura e a termine di scoppiare; e degli un
taglio acciò che la postema meglio si purgasse. Il poltronzone di Gordino, che
aveva inteso il tutto, mai non si mosse, né disse pur un cito; anzi, come ben
fondata torre, costante rimase. Il ciruico cominciò stropicciare la guancia,
acciò che veder potesse che materia era quella che usciva fuori; ma in vece di
putrefazione e marcia, usciva sangue vivo, misto col fico che con la bocca
ancor stretto tenea. Il patrone, veduto il fico e considerata la poltroneria di
Gordino, il fece medicare; e, risanato, il mandò in mal'ora.
Fentuzzo, che in poltroneria non era inferiore a Gordino,
avendo giá dissipati alcuni pochi quattrini che si trovava avere, né trovando
per la sua dapocagine persona alcuna a cui appoggiar si potesse, andava
mendicando all'uscio di questo e di quello: e dormiva or sotto un portico, or
sotto un altro, e alle volte alla foresta. Avenne che 'l gaglioffo una tra
l'altre notti capitò in un luogo tutto rovinato; ed entratovi dentro, trovò un
letamaro con un poco di paglia: sopra del quale meglio che puote col corpo in
su e con le gambe sbarrate si coricò, ed oppresso dal sonno si mise a dormire.
Non stette molto che si levò un forcevole vento con tanta furia di pioggia e di
tempesta, che pareva che 'l mondo volesse venir a fine; né mai rifinò tutta
quella notte di piovere e lampeggiare. E perché l'albergo era mal coperto, una
gocciola di pioggia, che descendeva giú per uno pertugio, gli percuoteva un
occhio di maniera che lo destò, né lo lasciava posare. Il tristo, per la gran
poltroneria che nel suo corpo regnava, non volse mai rimoversi da quel luogo,
né schiffare il pericolo che gli avenne; anzi, perseverando nella perfida e
ostinata sua volontá, lasciavasi miseramente percuotere l'occhio dalla
gocciola, non altrimenti che stato fusse una dura e insensibil pietra. La
gocciola, che di continovo cadeva giú del tetto e percotevali l'occhio, fu di
tanta freddezza, che non venne giorno, che 'l sciagurato perse la luce
dell'occhio. Levatosi Fentuzzo la mattina non molto per tempo per proveder al
viver suo, trovò mancarli la vista; ma perché pensava che sognasse, pose la
mano all'occhio buono, e serrollo: e allora conobbe l'altro esser privo di luce.
Di che oltre modo letizia ne prese; né cosa gli poteva avenire che piú cara o
piú grata li fosse, perciò che si persuadeva per tal poltronesca prodezza aver
vinta la gemma.
Sennuccio, che menava la vita sua con non minor poltroneria
che gli altri duoi, si maritò; e prese per moglie una femina che di
gaglioffaria non era a lui inferiore: e Bedovina chiamavasi. Essendo ambiduoi
una sera dopo cena a sedere appresso l'uscio della casa per prendere un poco
d'ora, perciò che era la stagione del caldo, disse Sennuccio alla moglie: —
Bedovina, chiudi l'uscio, che ormai è ora che se n'andiam a riposare. — A cui
ella rispose: — Chiudetelo voi. — Stando amenduo in questo contrasto, né l'uno
né l'altro volendo chiuder la porta, disse Sennuccio: — Bedovina, voglio che
facciam patto tra noi: chi sará il primo a parlare, chiuda l'uscio. La femina,
che era poltrona per natura e ostinata per costumi, accontentò. Stando
Sennuccio e Bedovina nella lor poltroneria, non osavano parlare per non cadere
nella pena di chiuder l'uscio. La buona femina, a cui giá la festa rincresceva,
e il sonno la gravava, lasciò il marito sopra una panca; e spogliatasi la
gonnella, se n'andò a letto. Non stette molto che indi passò per strada un
servitore d'un gentil'uomo che andava al suo albergo: e per sorte se gli era
estinto il lume che nella lanterna portava; e veduto l'uscio di quella casetta
aperto, entrò dentro, e disse: — O lá? chi è qua? Accendetemi un poco questo
lume! — e niuno gli rispondeva. Andatosene il servitor piú innanzi, trovò Sennuccio
che sopra la panca con gli occhi aperti posava; e addimandatolo che gli
accendesse il lume, egli nulla rispose. Il servitore, che pensava Sennuccio
dormisse, il prese per mano; e cominciollo crollare, dicendo: — Fratello, o lá,
che fai? Rispondi! — Ma Sennuccio, non che dormisse, ma per timore di non
incorrere nella pena di chiuder l'uscio, non volse parlare. Il servitore,
fattosi alquanto innanzi, vide un poco di lume che dentro d'un camerino luceva;
ed entratovi dentro, non vide persona alcuna, se non Bedovina che sola nel
letto giaceva; e chiamatala, e ben crollatala piú volte, ella, per non cadere
nella detta pena di chiuder l'uscio, non volse mai né moversi né parlare. Il
servitore, vedendola bella e taccagnotta, né voler parlare, pian piano se le
coricò appresso; e posto la mano agli suoi ferri ch'erano quasi arrugginiti, li
pose nella fucina. Ma Bedovina, nulla dicendo, ed ogni cosa dolcemente
soffrendo, lasciò il giovane (tuttavia vedendo il marito) conseguire ogni suo
piacere. Partito il servitore, e avuta la buona sera, Bedovina si levò di
letto: e andatasi all'uscio, trovò il marito che non dormiva; e in modo di
riprensione gli disse: — O bella cosa di uomo! Voi avete lasciato tutta notte
l'uscio aperto, lasciando licenziosamente venir gli uomini in casa, senza
fargli resistenza alcuna. Il sarebbe da darvi da bere con una scarpa rotta. —
Il poltronzone di Sennuccio, levatosi allora in piedi, in vece di risposta,
disse: — Va, chiudi l'uscio, pazzarella che tu sii; or ti ho pur io aggiunta! Tu
credevi farmi chiuderlo, e tu sei rimasta ingannata. In questo modo si
castigano l'ostinate! — Bedovina, che si vedeva aver perduto il pegno col
marito, e parimente avuta la bona sera, tosto chiuse l'uscio; e col cornuto
marito se n'andò a riposare.
Venuto il giorno del termine, tutta tre s'appresentarono
dinanzi a Gavardo; il quale, intese le sopradette loro prodezze, e considerate
le loro ragioni, non volse far giudicio, pensando che sotto la cappa del cielo
non si troverebbono tre altri poltronazzi che fussero simili a loro. E presa la
gemma, la gettò in terra, dicendo: chi la prendesse, fusse sua. —
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