— Vari sono i giudíci degli uomini e varie le volontá; e
ciascaduno, come dice il savio, nel suo senso abbonda. Da qua procede che degli
uomini alcuni si danno al studio delle leggi, altri all'arte oratoria, altri
alla speculazione della filosofia, e chi ad una cosa e chi a l'altra: cosí
operando la maestra natura, la quale, come pietosa madre, muove ciascaduno a
quel che gli aggrada. Il che vi fia noto se al parlar mio benigna audienza
prestarete.
In Sicilia, isola che per antiquitá tutte le altre avanza, è
posta una nobilissima cittá; la quale per lo sicuro e profondissimo porto è
chiara, e volgarmente è detta Messina. Di questa nacque maestro Lattanzio; il
quale aveva due arti alle mani, e dell'una e dell'altra era uomo peritissimo:
ma una essercitava publicamente e l'altra di nascosto. L'arte che egli
palesemente essercitava, era la sartoria; l'altra, che nascosamente faceva, era
la nigromanzia. Avenne che Lattanzio tolse per suo gargione un figliuolo d'un
pover'uomo, acciò che imparasse l'arte del sarto. Costui, che era putto, e
Dionigi si chiamava, era sí diligente ed accorto, che quanto gli era
dimostrato, tanto imparava. Avenne che, sendo un dí maestro Lattanzio solo e
chiuso nella sua camera, faceva certe cose di nigromanzia. Il che avendo
persentito Dionigi, chetamente si accostò alla fessura che nella camera
penetrava; e vidde tutto quello che Lattanzio suo maestro faceva. Laonde,
invaghito di tal arte, puose ogni suo pensiero alla nigromanzia, lasciando da
canto l'essercizio del sarto; non però osava scoprirsi al maestro. Lattanzio,
vedendo Dionigi aver mutata natura, e di diligente e saputo esser divenuto
pigro ed ignorante, né piú attendere, come prima, al mistiero del sarto, diégli
licenza, e mandollo a casa di suo padre. Il padre, che poverissimo era, veduto
che ebbe il figliuolo, molto si duolse. E poscia che castigato ed ammaestrato
l'ebbe, lo ritornò a Lattanzio, pregandolo sommamente che lo dovesse tenere,
castigarlo e nodrirlo; né altro da lui voleva se non che l'imparasse.
Lattanzio, che conosceva il padre del gargione esser povero, da capo l'accettò,
e ogni giorno gl'insegnava cuscire; ma Dionigi si dimostrava d'addormentato
ingegno, e nulla apparava. Per il che Lattanzio ogni giorno con calzi e pugna
lo batteva, e il piú delle volte li rompeva il viso e facevagli uscir il
sangue; ed insomma piú erano le battiture, che i bocconi che egli mangiava. Ma
Dionigi ogni cosa pazientemente sofferiva; e la notte alla fessura della camera
n'andava, e il tutto vedeva. Vedendo Lattanzio il gargione esser tondo di
cervello, né poter apparare cosa che li fosse mostrata, non si curava piú di
far la sua arte nascosamente, imaginandosi che, s'egli non poteva apparar
quella del sarto, che era agevole, molto minormente appararebbe quella di
nigromanzia, che era malagevole. E però Lattanzio non si schifava piú da lui,
ma ogni cosa in sua presenzia faceva. Il che era di molto contento a Dionigi;
il quale, quantunque fosse giudicato tondo e grossolone, pur molto leggermente
apparò l'arte nigromantica, e divenne sí dotto e sofficiente in quella, che di
gran lunga il maestro avanzò. Il padre di Dionigi, andatosene un giorno alla
bottega del sarto, vidde suo figliuolo non lavorare, ma portar le legna e
l'acqua che bisognava per cucina, scopar la casa e far altri vilissimi servigi.
Onde assai si duolse; e fatta tuor buona licenza dal maestro, a casa lo
condusse.
Aveva il buon padre per vestir il figliuolo molti danari spesi
acciò che apparasse l'arte del sarto; ma vedendo non potersi prevaler di lui,
assai si ramaricava; ed a lui diceva: — Figliuolo mio, tu sai quanto per farti
un uomo ho per te speso; né dell'arte tua mi ho mai prevalesto nelle bisogne
mie. Onde mi trovo in grandissima necessitá, né so come debba far in nodrirti.
Io vorrei, figliuol mio, con qualche onesto modo tu ti affaticassi per
sovenirti. — A cui rispose il figliuolo: — Padre, prima vi ringrazio delle
spese e fatiche fatte per me; indi pregovi che non vi affannate, ancor che io non
abbia apparato l'arte del sarto, sí come era il desiderio vostro; perciò che io
ne apparai un'altra che ne sará di maggior utile e contento. State adunque
cheto, padre mio diletto, né vi smarrite, perciò che presto vedrete il profitto
che io fei, e del frutto la casa e la famiglia sovenir potrete. Io per
nigromantica arte trasmuterommi in un bellissimo cavallo; e voi fornito di
sella e briglia mi menerete alla fiera, e mi venderete: ed io lo sequente
giorno ritornerò a casa nel modo che voi ora mi vedete; ma guardate di non dare
in modo alcuno al compratore la briglia, perciò che io non potrei piú ritornare
a voi, e forse piú non mi vedreste. — Trasformatosi adunque Dionigi in un
bellissimo cavallo, e menato dal padre in fiera, fu veduto da molti: i quai si
maravigliavano di tanta bellezza e delle prove che il cavallo faceva.
Avenne che in quell'ora Lattanzio si trovava in fiera; e
veduto il cavallo, e conosciutolo esser sopranaturale, andò a casa: e
trasformatosi in un mercatante, prese gran quantitá di danari, ed in fiera
ritornò. E avicinatosi al cavallo, espressamente conobbe quello esser Dionigi;
e addimandato il patrone se vender lo voleva, fulli risposo che sí. E fatti
molti ragionamenti, il mercatante gli offerse dare fiorini ducento d'oro.
Il patrone del prezio s'accontentò, con patto però che non
intendeva che nel mercato fosse la briglia. Il mercatante tanto con parole e
con danari fece, che ebbe anche la briglia, e menollo al proprio alloggiamento;
e messolo in stalla, e strettamente legato, aspramente il bastonava; e questo
ordine teneva e mattina e sera, di modo che 'l cavallo era venuto sí distrutto,
che era una compassione a vederlo. Aveva Lattanzio due figliuole; le quali,
vedendo la crudeltá dell'impio padre, si mossero a pietá; ed ogni dí andavano
alla stalla, ed il cavallo accarezzavano, facendogli mille vezzi. E tra le
altre una volta lo presero per lo capestro, e lo menorono al fiume per dargli
da bere. Giunto il cavallo al fiume, subito nell'acqua si slanciò; e
trasformatosi nel pesce squallo, s'attuffò nell'onde. Le figliuole, veduto il
strano ed inopinato caso, si smarrirono; e ritornate a casa, si misero
dirottamente a piagnere, battendosi il petto e squarciandosi e biondi capelli.
Non stette molto che Lattanzio venne a casa; e gitosene alla stalla per dar
delle busse al cavallo, quello non trovò: ma acceso di subita ira, e andato su
dove erano le figliuole, vidde quelle dirottamente piagnere; e senza
addimandarle la causa delle lagrime loro, perciò che s'avedeva dell'error suo,
disse: — Figliuole mie, senza timore dite presto quello è intravenuto del
cavallo, che noi li provederemo. — Le figliuole, assecurate dal padre,
puntalmente gli narrorno il tutto. Il padre, inteso il sopradetto caso, senza
indugio si spogliò le sue vestimenta, e andato alla riva del fiume, nell'acqua
si gettò; e trasformatosi in un tonno, perseguitò il squallo ovunque nuotava
per divorarlo. Il squallo, avedutosi del mordace tonno e temendo che non lo
inghiottisse, s'accostò alla sponda del fiume; e fattosi in un preciosissimo
robino, uscí fuori dell'acqua, e chetamente saltò nel canestro d'una damigella
della figliuola del re, la quale per suo diporto nel lito raccoglieva certe
pietruzze: e tra queste si nascose. Tornata la damigella a casa, e tratte fuori
le pietruzze del canestro, Violante, unica figliuol del re, vidde l'anello: e
preso, se lo pose in dito, e tennelo molto caro. Venuta la notte, e andatasene
Violante a riposare, tenendo tuttavia l'anello in dito, l'anello si trasmutò in
un vago giovanetto; il quale, messa la mano sopra il candido petto di Violante,
trovò due popoline ritondette e sode. Ed ella, che ancora non s'era
addormentata, si smarrí, e volse gridare. Ma il giovane, posta la mano sopra la
bocca, di odor piena, non la lasciò gridare; e messosi in genocchione, le
chiese mercé, pregandola che gli porgesse aiuto, perciò che non era ivi venuto
per contaminare la sua casta mente, ma da necessitá costretto; e raccontolle
chi egli era, la causa perché era venuto, e come e da chi era perseguitato. Violante,
per le parole del giovane assicurata alquanto, e per la lampade, che era nella
camera accesa, veggendolo leggiadro e riguardevole, si mosse a pietá; e disse:
— Giovane, grande è stata l'arroganzia tua a venir lá dove non eri chiamato, e
maggiore a toccar quello che non ti conveneva. Ma poscia ch'io intesi le
sciagure a pieno da te raccontate, io, che non sono di marmo né ho il cuore di
diamante, mi accingo e preparo a darti ogni possibile ed onesto soccorso, pur
che il mio onore illeso sia riserbato. — Il giovane prima le rese le debite
grazie: indi, venuto il chiaro giorno, nell'anello si fece; ed ella il pose lá
dove erano le sue care cose: e spesse volte l'andava a visitare, e con lui, che
si riduceva in forma umana, dolcemente ragionava.
Avenne che al re, padre di Violante, sopragiunse una grave
infermitá; né si trovava medico che 'l potesse guarire, ma tutti dicevano
l'infermitá incurabile: e di dí in dí il re peggiorava. Il che venne
all'orecchie di Lattanzio; il quale, vestitosi da medico, andò al palazzo
regale: ed entrato in camera del re, l'addimandò della sua infermitá; poscia,
guardatolo ben nella faccia, e tòccogli il polso, disse: — Sacra Corona,
l'infermitá è grande e pericolosa; ma state di buon animo, che presto vi
risanarete. Io ho una virtú, che vuol ben esser infermitá gravissima, che non
la curi in brevissimo tempo. State adunque di buona voglia, e non vi
sgomentate. — Disse il re: — Maestro mio, se voi curarete questa infermitá, io
vi guidardonerò di tal sorte, che per tutto il tempo della vita vostra contento
vi trovarete. — Il medico disse che non voleva stato né danari, ma una sola
grazia. Il re promise concedergli ogni cosa che convenevole fosse. Disse il
medico: — Sacra corona, altro da voi non voglio se non un robino legato in oro,
che ora si trova in balia della figliuola vostra. — Il re, intesa la picciola
domanda, disse: — Se altro da me non volete, state sicuro che la grazia vi sará
concessa. — Il medico, diligente alla cura del re, tanto operò, che in dieci
giorni dalla gravosa infermitá fu liberato. Risanato il re e restituito alla
pristina sanitá, in presenza del medico fece il re chiamare la figliuola, e
comandolle che li portasse tutte le gioie che ella aveva. La figliuola,
ubidiente al padre, fece quanto il re le aveva comandato; non però gli portò
quella che sopra ogni altra cosa teneva. Il medico, vedute le gioie, disse tra
quelle non esser il robino che egli desiderava: e che la figliuola riguardasse
meglio, che lo troverebbe. La figliuola, che era giá tutta accesa dell'amor del
robino, denegava averlo. Il re, questo udendo, disse al medico: — Andate e
ritornate dimani, che faremo sí fattamente con la figliuola, che voi l'arrete.
— Partitosi il medico, il padre chiamò Violante: e ambiduo chiusi in una
camera, dolcemente l'interrogò del robino che voleva il medico. Ma ella
costantemente denegava il tutto.
Partita dal padre Violante ed andata nella sua camera e chiusa
sola dentro, si mise a piagnere; e preso il robino, lo abbracciava, basciava e
stringeva, maladicendo l'ora che il medico in queste parti era venuto. Vedendo
il robino le calde lagrime che dai be' occhi giú scorrevano ed i profondi
sospiri che dal ben disposto cuore venivano, mosso a pietá, si converse in
umana forma; e con amorevoli parole disse: — Signora mia, per cui reputo aver
la vita, non piangete né sospirate per me che vostro sono, ma cercate rimedio
al nostro affanno; perciò che il medico che con tanta sollecitudine procaccia
di avermi nelle mani, è il mio nemico che vorrebbe di vita privarmi: ma voi, come
donna prudente e savia, non mi darete nelle sue mani, ma dimostrandovi piena di
sdegno, mi trarrete nel muro; ed io provederò al tutto. — Venuta la mattina
sequente, il medico ritornò al re; ed udita la cattiva risposta, alquanto si
turbò, affermando veramente il robino esser nelle mani della figliuola. Il re,
chiamata la figliuola in presenza del medico, disse: — Violante, tu sai che per
virtú di questo medico noi abbiamo riavuta la sanitá, e per suo guidardone egli
non vuole stati né tesori, ma solamente un robino, il quale dice esser nelle
tue mani. Io avrei creduto che per l'amor che mi porti, non che un robino, ma
del proprio sangue mi avesti dato. Onde per l'amor che io ti porto e per le
fatiche che ha portate tua madre per te, ti prego che non neghi la grazia che
il medico addimanda. — La figliuola, udita ed intesa la volontá paterna,
ritornò in camera; e preso il robino con molte gioie, ritornò al padre, e ad
una ad una le addimostrò al medico: il qual, subito che vidde quella che tanto
desiderava disse: — Eccola! — e volse gettarli la mano adosso. Ma Violante,
avedutasi dell'atto, disse: — Maestro, state indietro, perciò che voi l'avrete.
— E tolto il robino con sdegno in mano, disse: — Giá che questo è il caro e
gentil robino che voi cercate, per la cui perdita in tutto il tempo della vita
mia rimarrò scontenta, io non vi lo do di mio volere, ma astretta dal padre; —
e cosí dicendo, trasse il bel robino nel muro: il quale, giunto in terra,
subito s'aprí, e un bellissimo pomo granato divenne, il quale, aperto, sparse
le sue granella da per tutto. Il medico, vedute che ebbe del pomo le granella
sparse, si trasformò in un gallo: e credendo col suo becco Dionigi di vita
privare, rimase del tutto ingannato; perciò che un grano in tal modo si
nascose, che dal gallo mai non fu veduto. Lo nascosto grano, aspettata
l'opportunitá, in un'astuta e sagace volpe si converse; ed accostatosi con
fretta al crestuto gallo, quello per lo collo prese, uccise ed in presenza del
re e della figliuola il divorò. Il che vedendo, il re stupefatto rimase; e
Dionigi, ritornato nelle propria forma, narrò al re il tutto, e di
consentimento suo prese Violante per sua legittima moglie: con la quale visse
lungo tempo in tranquilla e gloriosa pace; e il padre di Dionigi di povero grandissimo
ricco divenne, e Lattanzio, d'invidia e odio pieno, ucciso rimase.—
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