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Giovanni Francesco Straparola
Le piacevoli notti

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  • LIBRO SECONDO
    • NOTTE UNDECIMA
      • FAVOLA IV. Un buffone con una burla inganna un gentil'uomo; egli per questo è messo in prigione, e con un'altra burla è liberata dal carcere.
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FAVOLA IV.

Un buffone con una burla inganna un gentil'uomo; egli per questo

è messo in prigione, e con un'altra burla è liberata dal carcere.

[Isabella:]

— È un detto communamente comendato, che i buffoni molte volte piaceno, ma non sempre. Onde, essendomi tocco il quarto luogo di favoleggiare in questa sera, mi è sovenuta una novella che fece un buffone ad un gentil'uomo; il quale ancorché della burla si vendicasse, non però cessò di farglieli un'altra, per la quale dalla prigione fu liberato.

Vicenza, com'è noto a tutti voi, è cittá nobile, ricca, pomposa e dotata di pellegrini ingegni. Quivi abitava Ettore, nato dall'antica e nobil famiglia di Dreseni; il quale sopra gli altri per la gentilezza del parlar suo e per la grandezza dell'animo diede e lasciò il nome di nobiltá a' posteri suoi. Tante erano le doti dell'anima e del corpo di questo gentil'uomo, ch'egli meritò che la sua imagine con maraviglioso artificio posta fusse e affissa nelle strade publiche, nelle piazze, ne' templi e ne' teatri, e con grandissime lodi esser inalzato fino alle stelle. Tanta era la liberalitá di costui, che parea veramente niuna cosa degna di memoria ritrovarsi, che a lui mancasse. Grande era la pazienzia sua in udire, la gravitá nel rispondere, la fortezza nelle cose averse, la magnificenza ne' suoi fatti, la giustizia e la misericordia nel condannare: in tanto che nel vero dir si può il magnanimo Ettore tenere il principato tra la famiglia di Dreseni. Avenne un che un gentil'uomo aveva mandato a donare a questo eccellente signore un quarto di vitello eletto. Il servo che portava la carne, subito che giunse alla casa di questo magnifico signore, trovò un aveduto ingannatore, il quale, visto il servo che aveva la carne di vitello, affrettatosi di andare a lui, gli addimandò chi mandava quella carne. Ed inteso chi fusse, disse che devesse aspettare fino che avisava il patrone. E ritornato in casa, come è costume de' buffoni, cominciò a giocolare, dimorandosi alquanto per ingannare il servo e il patrone, e cosa alcuna non parlò del presente. Indi venne alla porta, rendendo grazie, per nome del patrone, a chi mandato l'aveva, con parole convenevoli a tal proposito; e comandolli che andasse con esso lui, perché 'l signor Ettore mandava quel presente ad un gentil'uomo; e cosí bellamente condusse il servo in casa sua. E trovatovi il fratello, lo diede a lui, con animo di tôrre il vitello per sé e ingannare il suo signore. Il che fatto, l'uno e l'altro tornò a casa; e il servo rendè le dovute grazie al patron suo per nome del signor Ettore. Poi ritrovandosi un giorno per aventura il gentil'uomo ch'aveva mandato il quarto di vitello, col detto signor Ettore, gli addimandò, come si suol fare, se 'l vitello era stato buono e grasso. Il signor Ettore, non sapendo di questa cosa, lo ricercò di che vitello parlasse, egli dicendo non aver avuto né quartoterzo. Il donatore, che lo mandò, chiamato il servo, disse, a cui l'avesse consignato. Il servo diede i contrasegni dell'uomo, dicendo: — Colui che tolse la carne per nome del patrone, era un uomo grasso di persona, allegro, con la panza grande, e parlava un poco barbosso; e portolla a un altro gentil'uomo. — Subito il signor Ettore lo conobbe a' contrasegni, perciò che era solito far simili berte; e chiamatolo a sé, trovò come era passata la cosa. E poi che molto l'ebbe ripreso, lo fece volar in prigione, e porli e ceppi a' piedi, isdegnato tale obbrobrio esserli fatto per un giocolatore il qual non temette di temerariamente ingannarlo.

Non però stette in prigione tutto il giorno, perché nel palazzo giudiciario, dove era carcerato il parassito, vi era per sorte un sbirro nominato Vitello; qual chiamò il carcerato o per aggiongere male a male, o per trovar rimedio alla sua malattia: e fece una pistola al signor Ettore, dicendo: — Signor mio, confidandomi della liberalitá di Vostra Signoria, accettai il quarto di vitello a quella mandato in dono; ma ecco che per un quarto le mando uno vitello integro: e quella mi abbia per raccomandato. — E mandò il sbirro con la pistola, che per nome suo facesse la sicurtá. Il sbirro subitamente andò al signor Ettore, e consignolli la pistola; la qual letta, il signor subito comandò a' servi suoi che togliessero il vitello ch'aveva mandato il buffone, e che l'ammazzassero. Il sbirro, ch'aveva udito che i servi lo dovessero prendere e uccidere, disnudò la spada che a lato aveva; e quella nuda tenendo in mano, e ravoltosi il mantello attorno il braccio, cominciò gridar con gran voce: — È scritto, nella gran corte regnar grande inganno. Il Vitello non torrete voi se non morto e smembrato. State indietro, servi; se non, sarete uccisi.— I circonstanti rimasero stupidi per la novitá della cosa, e scoppiarono di ridere. Onde il prigioniere per tal giuoco fu liberato. E però meritamente diceva quel famoso filosofo Diogene, che piuttosto ischifare debbiamo l'invidia degli amici, che le insidie de' nemici; perché quelle sono un male aperto, e questa è nascosa: ma è molto piú potente l'inganno che non si teme. —

FAVOLA V.

Frate Bigoccio s'innamora di Gliceria, e vestito da laico fraudolentemente

la prende per moglie; e ingravidata, l'abbandona,

e ritorna al monasterio. Il che presentito dal guardiano, la marita.

[Diana:]

— Ho piú volte udito dire, donne mie care, che la virtú perisce per la fraude; e questo avenne ad un religioso tenuto uomo divoto, il quale, acceso dell'amor d'una giovanetta, quella per moglie prese, e scoperto, fece l'amara penitenza, e la giovane fu onorevolmente maritata, come nel discorso del parlar mio intenderete.

In Roma trovavasi un frate Bigoccio, nato di nobile e generosa famiglia, giovane assai e dotato de' beni del corpo e di fortuna. Il miserello era talmente acceso dell'amore d'una bellissima giovanetta, che poco vi mancava che giunto non fusse al fine della sua vita. Egli non aveva riposo mai né giornonotte; era tutto attenuato, squallido e macilente; non gli valevano medici, non medicine, non rimedi d'alcuna cosa, né giovavali la speranza nella copia delle paterne ricchezze. Per il che stando egli di continovo in questi pensieri, e or uno or un altro rimedio fantasticando, divenne a questo consiglio: di fingere alcune lettere false indrizzate al suo superiore per aver licenzia di partirsi. E compose certe lettere fitticie e simulate, infingendo che 'l padre suo infermo quelle scrivesse al suo guardiano, in questa forma: «Reverendo padre, poiché piace al sommo e onnipotente Iddio di terminare la mia vita, né può tardar la morte, che oramai è poco lontana, ho deliberato, anzi che io mi parta da questa, far il mio ultimo testamento, ed instituire erede il figliuol mio, che appo Vostra Reverenza è professo. E perché a me non è rimaso altro figliuolo in questa mia vecchiezza se non questo solo, qual desidero grandemente vedere, abbracciare, basciare e benedirlo, quella priego le piaccia mandarlomi con ogni celeritá; altrimenti sappia Vostra Riverenzia che morendo di disperazione me n'andrò ai regni tartarei». Qual lettere presentate al guardiano del monasterio, ed ottenuta la licenza, il detto Bigoccio n'andò a Firenze dove era il paterno domicilio: e prese molte gioie e danari dal padre, comperò preziose vesti, cavalli e masserizie e andò a Napoli; dove tolta a pigione una casa presso la sua innamorata, cambiavasi ogni giorno di vesti di seta mutatorie di diverse sorti. E fatta bellamente amicizia col padre dell'amata donna, invitavalo spesse volte a desinare e a cena con esso lui, e presentavalo dandogli or una or un'altra cosa. Poi che molti giorni furono scorsi in questo modo, trovato il tempo congruo ed opportuno, un giorno dopo desinare cominciarono a ragionare di diverse cose e particolari suoi negozi, come è costume de' convivanti; e tra l'altre cose disse lo innamorato giovane di voler tuor moglie. E perché aveva inteso che egli aveva una figliuola molto gentile e bella e dotata di ogni virtú, arrebbe piacere ch'ei gli la desse per moglie, acciò che legati fussero con duo legami, affermando a questa solamente avere inclinazione per le ottime sue condizioni a lui riferite. Il padre della giovane, che era di bassa condizione, gli rispondeva, la figliuola sua non esser di pari e ugual condizione a lui, che se abbino a celebrare tai sponsalizi; perciò ella era povera, ed egli ricco: ella ignobile, ed egli nobile; ma quando gli piaceva, ch'ei pur glie la darebbe non tanto per moglie, ma piú tosto per serva. Disse il giovane: — Non sarebbe conveniente che fatta giovane mi fusse data per serva; ma per le condizioni sue meriterebbe uomo di maggior legnaggio di quello che sono io. Pur si vi è in piacimento di darmela, non per ancilla ma per diletta moglie l'accetterò volontieri, e farolle quella real compagnia che ad una vera matrona si conviene. — Furono finalmente di commune consentimento concluse le nozze, e tolse fra' Bigoccio la vergine pulcella per moglie.

Venuta la sera, il marito e la moglie andorono a letto; e toccandosi l'uno con l'altro, fra' Bigoccio s'avide che Gliceria sua moglie aveva i guanti in mano; e dissele: — Gliceria, cavati e guanti e mettili giú; perciò che non sta bene che quando noi siamo in letto, tu abbi i guanti in mano. — Rispose Gliceria: — Signor mio, io non toccherei mai cosí fatte cose con le mani nude. — Il che intendendo, fra' Bigoccio non disse altro, ma attese a darsi piacere con lei. Venuta la sera seguente e l'ora di andar a riposare, fra' Bigoccio nascosamente prese i getti da spariviere circondati di molti sonagli, e legògli al membro virile; e senza ch'ella se n'avedesse, andò a letto, e cominciò accarecciarla, toccarla e basciarla. Gliceria, ch'aveva i guanti in mano, e per l'addietro gustato il mattarello, pose la mano al membro di suo marito, e trovò i getti; e disse: — Marito mio, che cosa è questa ch'io tocco? Ier notte non l'avevate. — Rispose fra' Bigoccio: — I' sono i getti d'andar a spariviere; — e montato sopra l'arbore, voleva mettere il piviolo nella val pelosa. E perché i getti impedivano il piviolo entrare, disse Gliceria; — Io non voglio i getti. — Se tu non vuoi i getti, — rispose il marito, — né io voglio i guanti. — Onde di commune consentimento gettarono via i guanti ed i getti.

Dandosi adunque piacere notte e giorno, la donna s'ingravidò; e come marito e moglie abitorono insieme un anno. Poi appropinquandosi il tempo del partorire, il frate, tolto occultamente il buono e il migliore, di casa fuggí, lasciando la donna gravida, come è sopradetto; e vestitosi del suo primo abito, ritornò nel monasterio. La donna partoritte un figliuolo, ed aspettò lungamente il suo marito. Soleva questa donna alle volte andar al detto monasterio per udir messa. Avenne un giorno per aventura, anzi per volontá del sommo Iddio, che la trovò il frate suo marito che diceva messa; e conobbelo. Onde quanto piú presto a lei fu possibile, andò a trovare il guardiano di esso monasterio, e narrògli diligentissimamente il caso, come è di sopra seguito. Il guardiano, trovata la cosa e conosciuta la veritá, formò contra di lui processo, e sigillato mandollo al generale della congregazione: il quale fece prendere il frate, e diégli una penitenza, che si ricordò per tutto il tempo della vita sua: indi con e denari del monasterio occultamente maritò la donna, dandola ad un altro in matrimonio: e tolto il bambino, fecelo notrire. —

IL FINE DELL'UNDECIMA NOTTE.


 

 

 




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