— Sí belle e si acute sono state le novelle che hanno recitate
queste nostre sorelle, che io dubito per la bassezza dello ingegno mio mancar
per via. Non però voglio desistere dal bell'ordine cominciato; e avenga che la
novella, che raccontar intendo, sia stata descritta da messer Giovanni
Boccaccio nel suo Decamerone, non però è detta nella maniera che voi udirete;
perciò che vi ho giunto quello che la fa piú laudevole.
Sisto quarto, pontefice massimo, di nazione genovese, nasciuto
in Savona, cittá marittima, per avanti chiamato Francesco da Rovere, nella sua
giovanezza a Napoli, andando alla scola, ebbe appresso di sé un cittadino, suo
compatriota, detto Gerolomo da Riario, il quale lo serviva continoamente; e
servillo non solo mentre andava alla scola, ma ancora dopo fatto monaco e
prelato. E poi che ascese alla gran dignitá pontificia, quello sempre
giustamente e con gran fede servendo, si era invecchiato; ed essendo Sisto, sí
come è usanza, per la subita morte di Paolo sommo pontefice in luogo di lui
elevato alla suprema pontifical dignitá, sovenne ai servitori e domestici suoi
per servizi da lor ricevuti, e quelli rimunerò largamente e oltre misura,
eccetto questo Gerolomo, il quale, per la sua fedel servitú e pel troppo amore,
fu pagato di oblivione e ingratitudine. Il che penso piú tosto essere avenuto
per certa sua sciagura, che per alcun'altra cagione. Onde il detto Gerolomo, da
mala voglia e da gran dolore soprapreso, desiderò dimandar licenza di partirsi
e ritornare nella patria sua; e ingenocchiatosi al conspetto di Sua
Beatitudine, ottenne la licenza. E tanta fu l'ingratitudine di esso pontefice,
che non solamente non gli diede danari, cavalli e famigli; ma fu constretto,
ch'è il peggio, a render ragione di quanto aveva maniggiato, come fece quel
Scipione africano, il qual puose ragione in publico al popol romano delle sue
ferite, veggendosi rimunerar di essilio per lo premio de' suoi gran fatti. E
nel vero bene si dice che niun maggior male ha la cupiditá, quanto che gli è
ingrata.
Cosí adunque partendosi da Roma e andando verso Napoli, mai
pur una parola non gli cascò dalla bocca, se non che, passando per certa acqua
che era pel viaggio, s'intrattenne il cavallo per esserli venuta volontá di
stalare; e stalo ivi, aggiungendo acqua all'acqua. E ciò veggendo Gerolomo: —
Ben ti veggio, disse egli, — simele di mio patrone, il quale, facendo ogni cosa
senza misura, mi ha lasciato venir a casa senza remunerazione alcuna, ed hammi
dato licenzia per premio della mia lunga fatica. E che cosa è piú misera di
colui, al qual cascano e periscono i benefici e s'accostano l'ingiurie? — Il
famiglio che lo seguitava, ripose queste parole nella memoria, e giudicò che il
detto Gerolomo superasse Muzio, Pompeio e Zenone di pazienza; e cosí andando,
arrivarono a Napoli.
Il famiglio, presa licenza e ritornando a Roma, narrò ogni cosa
a punto per punto al pontefice. Il quale, poi che ebbe considerato queste
parole, fece ritornar il corriere indietro, scrivendo al detto Gerolomo che,
sotto pena di scomunica, dovesse venir alla presenzia sua. Le quali lettere
lette, esso Gerolomo s'allegrò, e piú presto che puote, ne andò a Roma; e dopo
il bascio del piè, il pontefice gli comandò che il giorno seguente, all'ora di
consiglio, doppo il suon della tromba, subito venisse in senato. Aveva il
pontefice fatto far duo vasi molto belli e di una medesima grandezza; in uno di
quali pose gran numero di perle, rubini, zafiri, pietre preziose e gioie di
grandissima valuta: nell'altro veramente era metallo; ed erano ambi i vasi
d'uno medesimo peso. E la mattina, poi che gli sacerdoti, vescovi, presidenti,
oratori e prelati furono venuti in senato, sedendo il pontefice nel suo
tribunale, fatti portar nel suo conspetto i duo vasi predetti, fece venir a sé
Gerolomo sopradetto, e disse tai parole: — Carissimi ed amatissimi figliuoli,
costui sopra tutti gli altri è stato fedele cerca i comandamenti miei, e
talmente si ha portato fin da' primi anni, che non si potria dir di piú; e
acciò che ei conseguisca il premio del suo ben servire, e che piú presto
l'abbia a dolersi della sua fortuna che della mia ingratitudine, gli darò
elezione di questi duo vasi, e sia a l'arbitrio suo di prendere e goder quello
che egli se eleggerá. — Ma quello infelice e sfortunato, pensando e ripensando
or l'uno or l'altro vaso, elesse per sua disgrazia quello ch'era pieno di metallo.
E scoprendo l'altro vaso, veggendo esso Gerolomo il gran tesoro di gioie che
teneva rinchiuso, come sono smeraldi e zafiri, diamanti, rubini, topazi e altre
sorte di pietre preziose, rimase tutto attonito e mezzo morto.
Il pontefice, poi che lo vidde star di mala voglia e tutto
addolorato, lo esortò a confessarsi, dicendo ciò esser a venuto pei suoi
peccati non confessi; de' quali fatta l'assoluzione, gli diede in penitenza che
per uno anno ogni giorno dovesse a certa ora determinata venire in senato quando
si trattavano gli secreti de' re e signori a dirgli nell'orecchi un'ave
Maria: nel qual luogo a niuno era lecito d'entrare. Comandò che alla venuta
di lui subito li fussero aperte tutte le porte, e dato libero adito di venire a
lui con tanto onore quanto dir si potrebbe. Laonde esso Gerolomo, senza pur dir
una parola, con gran onorificenzia, o piú tosto con gran prosonzione, andava al
pontefice, e ascendendo il seggio pontificale, faceva la penitenza a sé
ingiunta. Il che fatto, tornava fuori. I circonstanti molto si maravigliavano
di questa cosa, e gli oratori scrivevano a' suoi prencipi che Gerolomo era il
pontefice e trattavasi ogni cosa in senato a volontá sua. Per il che
raccoglieva di gran danari, e da' prencipi cristiani vi erano mandati tanti e tanti
doni, che in poco tempo divenne molto ricco, di modo che appena si trovava in
Italia un piú ricco di lui; e cosí passato l'anno della penitenza, rimase
contento e pieno di molti doni e ricchezze. E creatolo gentil'uomo di Napoli,
di Forlí e di altre molte cittá, essendo prima di bassa condizione, divenne
chiaro e illustre a guisa di Tullo Ostilio e di David, i quali consumaron la
puerizia sua in pascere le pecore, e nella etá piú forte l'uno resse e
raddoppiò l'imperio romano, l'altro trionfò del regno degli ebrei. —
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