— Sin'ora questi magnifici gentil'uomini e queste amorevoli
donne hanno tanto detto, che quasi non mi è restata piú materia di dire. Ma
acciò che io non disconcia il bel incominciato ordine, mi sforzerò, in quanto
per me si potrá, di raccontarvi una favola, la quale, ancora che non sia
arguta, sará nondimeno piacevole e di diletto, come ora intenderete.
Pandolfo Zabbarella, gentiluomo padovano, fu uomo a' giorni
suoi valente, magnanimo e aveduto molto. Avendo egli di bisogno d'un servo che
li servisse, né trovandone uno che li piacesse, finalmente gli venne alle mani
un doloroso e maligno, il qual nell'aspetto dimostravasi tutto benigno.
Pandolfo l'addimandò se egli voleva andare a star con esso lui e servirli. Il
servo, che Giorgio si nominava, rispose che sí, con questa però legge e patto:
di doverlo servire solamente per attendere e governare il cavallo e
accompagnarlo, e del resto non voler impacciarsi in cosa alcuna. E cosí
rimasero d'accordo, e di questo fu celebrato l'instrumento di man di notaio,
sotto pena e ipoteca di tutti i suoi beni, e con giuramento. Un giorno
cavalcando Pandolfo per certa via fangosa e malagevole, entrato per aventura in
un fosso dove non poteva il cavallo trarsi fuora del fango, dimandava l'aiuto
del servo, temendo di pericolare in quello. Il servo stava a guardare, e diceva
a questo non esser obligato, perciò che tai cose non si contenevano
nell'instrumento del servir suo; e tratto fuori della scarsella l'instrumento,
cominciò minutissimamente a leggere i loro capitoli e vedere se quel caso si
conteneva. Diceva il patrone: — Deh, aiutami, fratel mio! — e il servo
rispondeva: — Non posso farlo, perché è contra la forma dell'instrumento. —
Diceva Pandolfo: — Se non mi aiuti e se non mi cavi di questo pericolo, non ti
pagherò. — Replicava il servo non volerlo fare, acciò che non incorresse nella
pena posta nell'instrumento; e se per aventura il patrone non fusse stato
aiutato dai viandanti che per quella via passavano, senza dubbio egli mai non
arebbe potuto liberarsi. Per il che fatta una nuova convenzione, fecero un
altro accordo, nel quale prometteva il servo sotto certa pena di aiutar sempre
il patrone in tutte le cose che li comandasse, né mai partirsi né mai separarsi
da lui.
Avenne che un giorno passeggiando Pandolfo con certi
gentil'uomini veneziani nella chiesa del Santo, il servo, ubidiente al patrone,
passeggiava con esso lui andando sempre presso le spalle di quello, né mai lo
lasciava. I gentil'uomini e gli altri circonstanti per la novitá della cosa
ridevano d'ogni banda e ne prendevano piacere. Onde il patrone, ritornato a
casa, riprese grandemente il servo, dicendogli che male e scioccamente aveva
fatto a passeggiare in chiesa con lui andandogli cosí appresso senza rispetto e
riverenza alcuna del patrone e de' gentil'uomini ch'erano con esso lui. Il
servo stringeva le spalle, dicendo aver ubedito agli suoi comandamenti, e
allegava i patti della legge che eran nel loro instrumento. Laonde fecero nuovo
patto, pel quale comandò il patrone al servo che andasse piú lontano da lui.
Allora lo seguitava cento piedi lontano. E quantunque il patrone l'addimandasse
e facesse atto che venisse a lui, nondimeno il servo ricusava d'andare, e lo
seguitava tanto quanto gli era stato imposto, dubitando sempre d'incorrere
nella pena della loro convenzione. Allora sdegnatosi Pandolfo per la
dapocaggine e semplicitá del servo, gli dichiarò quella parola che li disse:
lontano! — ch'ella si dovesse intendere per tre piedi. Il servo, che aveva
chiaramente inteso il voler del suo patrone, prese un bastone di tre piedi,
accostando un capo di quello al suo petto, e l'altro capo alle spalle del
patrone; e cosí lo seguitava. I cittadini e gli artegiani, vedendo questo e
pensando che quel servo fusse un pazzo, si scoppiavano da ridere della sua
pazzia. Il patrone, che ancora non si avedeva del servo che aveva il bastone in
mano, si maravigliava forte che tutti il guardavano e ridevano. Ma poi che
conobbe la causa del loro ridere, si sdegnò, e con ira riprese acerbamente il
servo e volse anco sconciamente batterlo. Ed egli piangendo e lamentandosi si
scusava dicendo: — Avete torto, patrone, a volermi battere. Non feci io patto
con esso voi? Non ho io ubedito in tutto ai comandamenti vostri? Quando
contrafei al voler vostro? Leggete l'instrumento e poi punitemi, se io mancai
in cosa alcuna. — E cosí il servo ogni volta rimaneva vincitore.
Un altro giorno il patrone mandò il suo servo al macello per
comprar della carne; e parlando ironicamente, com'è costume de' patroni, gli
disse: — Va, e sta uno anno a ritornare. — Il servo, pur troppo ubidiente al
patrone, andò nella patria sua, e ivi stette finché scorse l'anno. Dopo', il
primo dí del sequente anno ritornando, portò la carne al patrone: il quale,
maravigliandosi, perciò che egli aveva mandato in oblivione ciò che comandato
avesse al servo, lo riprendeva grandemente della fuga, dicendogli: — Tu sei
venuto un poco tardetto, ladro da mille forche. Per Dio, che io ti farò pagar
la pena come tu meriti, tristo ribaldone; né sperar da me aver salario alcuno.
— Rispose il servo aver servato tutto l'ordine contenuto nello instrumento
publico e aver ubedito alli precetti suoi secondo la continenzia di quello. —
Ricordatevi, signor mio, che mentre mi comandaste ch'io stessi un anno a
ritornare, che io ho ubedito. E però mi pagherete il salario che m'avete
promesso. — E cosí andati a giudicio, giuridicalmente fu costretto il patrone a
pagar il suo salario al servo. —
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